II termine compare per la prima volta nello storico Luigi Lanzi (1809) per
designare lo stile dominante nella pittura italiana durante il periodo compreso
tra il Sacco di Roma (1527) e l’avvento dei Carracci. L’aggettivo «manierista» è
più antico e fra i primi ad usarlo è un francese, Fréart de Chambray (1662).
L’impiego di questi due termini è legato, negli autori citati, ad
un’interpretazione del tutto negativa dello stile di quest’epoca. Una sua
progressiva riabilitazione si avvia nel XIX sec., grazie ai teorici che si
sforzano di chiarire il significato e la portata del concetto di m e grazie,
soprattutto, agli studi dedicati agli artisti qualificati «manieristi».
Storia e teoria
Nel XVI sec. i termini «manierista» e «m» non esistevano. D’altra parte, il
termine «maniera» compare nel trattato di Cennini (1390 ca.) e in Vasari (Le
Vite), il quale se ne serve per parlare dello stile di un artista («maniera» di
Giotto), e designa come «bella maniera» le qualità di grazia, armonia,
immaginazione, fantasia e virtuosismo che, a suo avviso, sono appannaggio della
«maniera moderna», vale a dire degli artisti del suo tempo, che egli giudica
superiori a tutti gli altri. Nascono più tardi le riserve degli storici nei
confronti degli imitatori di Raffaello e di Michelangelo, che inauguravano la
nuova moda artistica: esse furono espresse con grande energia da G. Pietro
Bellori (1672), che levò la sua voce contro
gli artisti che, abbandonando lo studio diretto della natura, avevano alterato
l’arte con la pratica dell’imitazione. La stessa idea è ripresa, in particolare,
dal bolognese Malvasia (1678) e dal fiorentino Baldinucci (1681).
Allorché Lanzi scrive, in pieno neoclassicismo, non fa che ispirarsi a queste
interpretazioni negative: impiega infatti il termine m per designare un’arte che
egli definisce un’alterazione del vero, priva di una sua propria originalità,
poiché è fondata sull’imitazione e la ripetizione. Tale doveva restare la
posizione degli storici fino al XIX sec.
Dopo gli studi di Gurlitt (1884), che concepì un «tardo rinascimento»
identificandolo con Michelangelo, e quelli di Riegl (1908), che sottolineò il
carattere originale delle invenzioni decorative del m, Dvorák (1918) fu di fatto
il primo ad affermare l’autonomia dello stile manierista, con i suoi caratteri
di soggettivismo e di espressionismo, la sua tendenza al drammatico, la sua
fantasia e la sua animazione. È dunque grazie alle sue intuizioni che l’idea
della originalità e della specifica importanza del m è apparsa finalmente in
piena evidenza: Lili Fröhlich-Bum (1921) descrisse la fortuna del formalismo
parmigianinesco come fenomeno sostanzialmente diverso dalla tendenza al barocco
facente capo a Michelangelo, e la sua irradiazione internazionale in ogni campo
dell’attività artistica.
Si tenta allora di considerare il m in rapporto alla Controriforma (Pevsner,
1921-28), al barocco (Weisbach, 1919-34), o infine al classicismo. W.
Friedländer vide nel 1915 il m come lo stile anticlassico per eccellenza, di cui
egli scorgeva l’origine nell’ambiente dei Pontormo, dei Rosso e dei Parmigianino,
in contrapposizione all’ideale di armonia del rinascimento. Egli giunge così a
definire un primo m, che d’altra parte prende avvio con la stessa opera di
Michelangelo, mentre più tardi (1930) s’impegnerà a definire, al seguito di
questo primo m e dopo una fase che segnò la sua fortuna, una reazione
antimanierista che si riaccosta al rinascimento e prelude, sia nella concezione
estetica sia nella tematica figurativa – ad esempio, con Barocci – all’arte del
Seicento.
In tal modo Friedländer segmentava il m in più fasi: idea che verrà ripresa da
F. Antal (1927), S. J. Freedberg (1961) e G. Briganti (1961). Antal distingueva
una fase «classica» all’interno stesso del m; Freedberg riconosceva un primo e
un secondo m, che distingueva dalla «High Renaissance», in cui d’altra parte
individuava i suoi fondamenti. Briganti,
riprendendo le idee di Longhi sull’origine del fenomeno manierista, ugualmente
giunse ad identificare tre generazioni della «maniera». È su questo stesso
concetto di «maniera» che si concentrano le ricerche successive: Shearman
(1961-62), approfondendo il senso storico del termine «maniera», ne definisce
l’ideale artistico di perfezione formale e di virtuosismo e lo distingue
nettamente dal m.
Anche Smyth, contribuendo a chiarire il significato del termine «maniera», ha
definito gli elementi che compongono una figura «manierista» sottolineando che,
tra altri influssi (Michelangelo, neogotico, arte tedesca), essa rivela forti
legami con la scultura antica. Il lavoro interpretativo è stato facilitato da
ricerche sistematiche sugli artisti operanti fra il 1527 e il 1600. Esse,
soprattutto in un primo momento, si sono concentrate sull’arte italiana: la
Storia di Adolfo Venturi, gli studi di H. Voss, R. Longhi, G. Briganti (1940),
L. Becherucci
(1944), P. Barocchi (1951), per citarne solamente alcuni, hanno rivelato una
messe di opere poco note o talvolta addirittura completamente ignorate. In
seguito, favorita anche dagli importanti risultati conseguiti, l’indagine si è
estesa a tutta l’arte europea (scuola di Fontainebleau, scuola degli antichi
Paesi Bassi, Praga). In parallelo con le ricerche sui caratteri formali del m,
l’attenzione si è appuntata sulle sue cause: accanto a spiegazioni di ordine
sociologico (Antal, 1948; Hauser, 1954; F. Würtemberg, 1962), che si
contrappongono alle teorie che vedono nel m una tendenza permanente dello
spirito umano, e dunque relativamente indipendente dai contesti sociali (E. R.
Curtius, 1947; G. R. Hocke, 1957), si sono affermate interpretazioni di fondo
stilistico (influsso del gotico, di Dürer, di Donatello, dell’Antico), o anche
letterario e filosofico (ruolo delle accademie, dei mecenati, delle corti, della
Chiesa e degli ordini religiosi).
Negli ultimi quarant’anni, i risultati di questi lavori sono stati resi
accessibili al grande pubblico grazie ad una serie di mostre importanti (Napoli
1952; Amsterdam 1955; Manchester
1964; Parigi 1965-66 e 1972; Firenze 1980; Praga 1989).
Il termine m, divenuto di moda, è stato utilizzato in misura eccessiva, fino al
punto da designare l’intero svolgimento della pittura del Cinquecento dalla
morte di Raffaello (1520) fino agli inizi del classicismo seicentesco e del
barocco. Oggi si tende a considerare a parte la «maniera «(Rosso, Parmigianino,
Perin del Vaga) col suo raffinato ideale formale in relazione con l’arte dei
protagonisti del rinascimento, Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Essa precede
un tardo rinascimento il cui stile è imparentato, tramite le sue componenti
linguistiche, al rinascimento e alla «maniera», ma spesso se ne distacca molto
sia negli intenti sia negli esiti formali (Vasari e la sua scuola), nei quali si
fa strada una tendenza alla ripetizione stereotipa che sbocca, alla fine del
secolo, nei modi ormai esausti dei tardomanieristi romani (per esempio del
Cavalier d’Arpino): contro i quali ebbe buon giuoco la reazione classicista e
barocca.
Lo stile «manierista» è dunque ben lontano dall’essere univoco, a maggior
ragione se consideriamo l’impressionante diversità delle espressioni regionali
(m lombardo, emiliano, romano, genovese, napoletano e così via) così come la sua
espansione che interessa virtualmente l’intera Europa. Di conseguenza, oggi
alcuni fra gli studiosi che affrontano i problemi di questo periodo – «between
Renaissance and Baroque», secondo il titolo stesso della mostra di Manchester –
preferiscono non parlare più di Trionfo del m (titolo della mostra di Amsterdam
del 1955), bensì di «manierismi», i cui tipi sono diversi quanto le regioni o i
Paesi in cui si sono affermati.
Il m in Italia
Roma
Il m nacque in Italia. Il ruolo fondamentale svolto da Michelangelo è stato
unanimemente sottolineato dagli studi: ispirarono gli artisti non soltanto le
sue opere tarde (Giudizio Universale, 1541: Sistina; affreschi della cappella
Paolina: Crocifissione di san Pietro e Conversione di san Paolo), ma anche
quelle della prima maturità (Tondo Doni, 1504-506: Uffizi; cartone della
Battaglia di Cascina, 1504; volta della Sistina, 1508-12). Anche le sue sculture
sono servite di modello: dal David alle tarde Pietà. Gli artisti più giovani vi
hanno trovato la soluzione più avanzata per affrontare con spirito innovativo il
problema dello spazio figurativo e della composizione.
L’ispirazione grandiosa e drammatica di Michelangelo ha inoltre offerto
l’esempio di una spiritualità in risoluta contrapposizione col naturalismo e
l’armonia del primo rinascimento.
È con lo stesso intento che i giovani hanno interrogato Leonardo, che peraltro
per nascita appartiene ancor più al XV sec. Le sue opere più celebri hanno
offerto ai manieristi altrettante suggestioni (Adorazione dei Magi, Vergine
delle rocce, Sant’Anna, Leda, cartone della Battaglia di Anghiari), non soltanto
per la bellezza delle invenzioni e delle attitudini, ma anche per l’inquietudine
che le pervade, per il loro poetico chiaroscuro, e forse anche per la squisita
perfezione dei particolari.
A Raffaello ci si è rivolti con pari intensità: in Vaticano, la Stanza di
Elidoro (1511-14) e la Stanza dell’Incendio di Borgo (1514-17), col loro clima
eroico, la ricerca di composizione e di movimento, hanno sedotto i giovani
artisti assai più della classica perfezione della Stanza della Segnatura
(1508-11). Nella Stanza di Costantino, eseguita dopo la morte di Raffaello dai
suoi collaboratori, diretti da Giulio Romano, l’equilibrio rinascimentale è
abbandonato definitivamente. Che queste fossero davvero le profonde intenzioni
del maestro è dimostrato dai suoi disegni originali e dalle sue ultime opere,
come la straordinaria Trasfigurazione (Vaticano), la cui composizione impostata
su due diversi registri e l’accentuazione mimica sono già, in un certo senso,
manieriste. Risaliva inoltre a Raffaello il nuovo interesse per la decorazione
antica, che gli si svelò quando egli soprintendeva agli scavi di Roma.
Tutti i suoi suggerimenti sono stati messi a frutto dagli allievi: nelle Logge
si dispiega, sotto il fluido pennello di Giovanni da Udine, il vivace repertorio
delle grottesche della Domus Aurea, mentre la Farnesina o la Stufetta del
cardinal Bibbiena danno forma a una radiosa visione della mitologia. Perin del
Vaga offrì a Firenze uno dei «manifesti» del nuovo ideale della «maniera» col
suo cartone per i Diecimila martiri; artista raffinato ed elegante, con le sue
creazioni a Roma (Castel Sant’Angelo) e soprattutto a Genova (Palazzo Doria)
diffuse lo spirito nuovo della decorazione romana a stucco e a fresco, dal
complesso programma iconografico; mentre Polidoro da Caravaggio si distingueva
nel genere, allora di moda, delle facciate dipinte dei palazzi, scoprendo,
attraverso l’Antico, anche il paesaggio (San Silvestro al Quirinale).
Dopo il Sacco di Roma, nel suo esilio siciliano, egli dava un seguito
profondamente drammatico alle tendenze espressive latenti nelle opere estreme di
Raffaello.
Ma fu Giulio Romano a trarre dal modello raffaellesco le massime conseguenze: a
Mantova, ove si era stabilito nel 1524, in Palazzo Ducale e soprattutto in
Palazzo Te preme di volta in volta il tasto dell’erotismo (Sala di Psiche),
della grazia (Sala dei Mesi) e della violenza (Sala dei Giganti), seguendo un
programma iconografico legato alla glorificazione della casa dei Gonzaga; il
complesso decorativo, di una varietà incessante, accosta lo stucco all’affresco
in un rapporto del tutto inedito. Per queste ragioni il Palazzo Te è giustamente
considerato un monumento fra i più importanti e precoci della civiltà manierista.
La Toscana
L’identificazione del ruolo privilegiato della Toscana nella fase formativa del
m è uno dei risultati più notevoli degli studi del nostro secolo. Andrea del
Sarto e la sua scuola sono stati esaminati, da questo punto di vista, con un
orientamento del tutto nuovo: nel cantiere dell’Annunziata si formarono attorno
ad Andrea gli artisti più dotati della nuova generazione, ammiratori non
soltanto di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, ma anche di Donatello e Dürer.
Essi attinsero da questi maestri arditezze compositive, virtuosismi di disegno e
di colore che li condussero ancora più lontano dei loro predecessori Piero di
Cosimo e Filippino Lippi: dei quali tuttavia i caratteri di stile e di
invenzione formavano già un forte contrasto con l’arte misurata di un Fra
Bartolomeo, erede a Firenze della tradizione classica.
Essi avevano aperto la strada alla tendenza degli «eccentrici» fiorentini
(Maestro dei Paesaggi Kress ecc.) o alle singolari ricerche grafiche dello
scultore B. Bandinelli. Per un altro verso il distacco dal classicismo, di cui
era per estrazione culturale meno intriso, fu senza dubbio più agevole per lo
spagnolo Alonso Berruguete che per i fiorentini; e venne inoltre favorito
dall’esperienza dei capolavori romani di Michelangelo e di Raffaello, che egli
conobbe prima di loro. Il soggiorno a Firenze di Berruguete (fra il 1508 e il
1516) fu, dunque, un avvenimento di rilievo per i giovani pittori. Già Pontormo
aveva mostrato nella decorazione della camera nuziale di Francesco Borgherini (Storia
di Giuseppe), dinanzi agli altri allievi di Andrea del Sarto, come si potesse
rompere l’unità dello spazio e al contempo esaltare la potenza espressiva delle
figure. Le sue opere successive rivelano un soggettivismo sempre più disperato (certosa
di Galluzzo, dopo il 1522), persino nella decorazione delle ville medicee con la
sua grazia luminosa.
Questa vocazione irrefrenabile spinge Pontormo verso un’arte irrealistica, che
vorrebbe, non senza speranza, gareggiare con quella di Michelangelo, e che lo
rinchiuderà in un totale isolamento sia esistenziale sia artistico (affreschi
del coro di San Lorenzo, tra il 1546 e il 1556, di cui restano i disegni
preparatori). Nella tensione di una febbrile ricerca, Pontormo accumulava i
disegni che occupano un posto essenziale nella genesi della sua opera e d’altra
parte sottolineano il ruolo notevole attribuito ormai dagli artisti a questo
mezzo espressivo.
L’originalità di Rosso si affermò assai presto, con lo scalpore di uno scandalo
(Assunzione, 1517: Firenze, Santissima Annunziata; Madonna e santi, 1518: ivi,
Uffizi) ed una volontà di assoluta indipendenza che, malgrado i suoi prestiti
dai fiorentini (Fra Bartolomeo, ma soprattutto Andrea del Sarto) ed il suo culto
di Michelangelo, ne fanno un artista senza maestri. Le ricerche della sua prima
fase fiorentina culminano nella stupefacente geometria colorata della
Deposizione dalla croce (1522: Volterra, Pinacoteca). È a Roma, dapprima a
contatto con le imprese sconvolgenti di Michelangelo e di Raffaello, poi accanto
a Parmigianino e Perino che Rosso fece suo l’ideale, tutto grazia ed eleganza
della «maniera» (Cristo morto: Boston, mfa). Dopo il 1527, conducendo una
esistenza errabonda e piena di difficoltà, lascia in Umbria e in Toscana opere
di un pathos intenso (Deposizione: Borgo San Sepolcro, San Lorenzo), piene di
energia, dissonanti nel colorito e violentemente spezzate nel disegno. Infine,
nel 1530, la chiamata di Francesco I gli consentìdi dimostrarsi, a
Fontainebleau, nella decorazione murale, un artista fra i più originali e
importanti del suo tempo.
Il senese Domenico Beccafumi, sia come autore di decorazioni profane (Palazzo
Bindi Sergardi, Palazzo Pubblico di Siena), che come pittore di opere sacre (Sposalizio
della Vergine, Cristo al limbo: Siena, pn) da forma a un mondo poeticamente
irreale in una gamma dai toni luminosi e lirici, esempio perfetto di una «maniera»
dagli inconfondibili, sofisticati formalismi. Pontormo, Rosso e Beccafumi, per
la loro originalità, che investe la composizione, l’espressione, la luce e il
colore, si distinguono nettamente dalla generazione operante nella seconda metà
del XVI sec. a Firenze, dove, per impulso dei Medici, si svilupperà un’arte di
corte.
Il Bronzino è ritrattista di raro nitore intellettuale, di una freddezza e di
un’eleganza sapientemente calcolate (Bartolomeo e Lucrezia Panciatichi: Firenze,
Uffizi): di una perfezione assoluta nel disegno (Deposizione: Museo di Besançon)
e di una complicata fantasia nelle invenzioni, che riflettono gli ideali delle
cerehie più alte e delle accademie (Allegoria: Londra, ng). Questa generazione
ha dato altri grandi della decorazione, come Francesco Salviati: le sue
creazioni romane (Palazzo Farnese e Palazzo Sacchetti) e fiorentine (Palazzo
Vecchio), originali e complesse nel moltiplicarsi degli scomparti e delle
invenzioni che danno forma a scene di forte suggestione, sia nei soggetti eroici
sia in quelli di una voluttuosa profanità, costituiscono uno degli esempi più
rappresentativi del gusto manierista.
I grandi cicli diretti dal Vasari, biografo dei pittori, uomo di fiducia dei
Medici, che egli glorificò senza posa esercitando le sue attitudini in ogni
campo ed influenzando i numerosi
collaboratori, che gli furono accanto nelle sue molteplici imprese, svolsero un
ruolo anch’esso di eccezionale rilievo. Nelle decorazioni di Palazzo Vecchio
Vasari adotta intelligentemente tutte le risorse del vocabolario ornamentale del
suo tempo (grottesche, finte seulture, nature morte e paesaggi) per incastonare
composizioni talvolta di inattesa freschezza e grazia: l’opera sua più compiuta
e riuscita, e la più tipicamente manierista, è il famoso Studiolo di Francesco
I, sorta di museo del principe, cui Vasari lavora a partire dal 1570 unitamente
ai seguaci più dotati (Poppi, Naldini, Allori, Santi di Tito, Maso da San Friano,
Cavatori, Macchietti, Stradano e Zucchi).
Parma e l’Emilia
All’inizio del secolo, l’arte emiliana è dominata dal Correggio, i cui
capolavori a Parma (Camera di San Paolo, 1519; cupola di San Giovanni
Evangelista, 1520-23; cupola del duomo, 1524-30), per il gusto illusionistico e
le originali invenzioni ispirarono i manieristi, prima di sedurre gli artisti
del barocco e del rococò.
Allo stesso modo le sue soavi Madonne preludono alle ricerche del Parmigianino,
la cui influenza doveva estendersi ben oltre i confini dell’Emilia, ove peraltro
egli lasciò le sue opere più importanti, lo squisito camerino della Rocca di
Fontanellato e la monumentale volta della Steccata a Parma. I suoi disegni, di
raffinato virtuosismo, ed i suoi quadri impongono un nuovo tipo di bellezza,
dalle forme allungate, dai ritmi sinuosi, prototipi di quella sua grazia tutta
manierista (Madonna dal collo lungo: Firenze, Uffizi) che, ampiamente divulgata
dalle incisioni, influenzò profondamente un’intera generazione di artisti.
Da quelle sue invenzioni derivano le opere di pittori di delicata sensibilità e
non privi di originalità, come Michelangelo Anselmi, Girolamo Mazzola Bedoli,
Lelio Orsi, Jacopo Bertoja; la loro arte unisce alla grazia la fantasia talvolta
più bizzarra (Bertoja, Parma, Palazzo del Giardino).
Bologna fu tra le prime città ad accogliere il messaggio del Parmigianino, al
quale era stata in un certo senso preparata dai seguaci di Raffaello (Innocenzo
da Imola, Bagnacavallo,
Pupini) e di Lorenzo Costa, e dal soggiorno del Parmigianino stesso al suo
ritorno da Roma (San Rocco: Bologna, San Petronio; la Vergine col Bambino, santa
Margherita e altri santi: Bologna, pn). Nicolò dell’Abate ne dà prova nelle
squisite decorazioni di Modena e soprattutto di Palazzo Poggi a Bologna (Sala
dei Paesaggi, Sala dei Concerti), prima di «esportare» questa grazia nella
lontana terra di Francia insieme al bolognese Francesco Primaticcio, uno dei
primi decoratori del suo tempo, col quale si ritrova alla corte di
Fontainebleau.
Più incisivamente segnato da Michelangelo, Pellegrino Tibaldi dipinge in Palazzo
Poggi le impetuose Storie di Ulisse, con un virtuosismo intriso di humour, e in
San Giacomo la grandiosa cappella del cardinal Poggi. Dopo di lui, un gran
numero di artisti, forti anch’essi dell’esperienza romana, popolarono i palazzi
e le chiese di immagini più sapienti che piacevoli, che si riallacciano
all’ultima ondata del m, come Prospero Fontana, Ercole Procaccini, Lorenzo
Sabbatini e Grazio Sammachini: nei loro quadri d’altare sono indubbiamente da
riconoscere esiti talvolta tra i più importanti di questa cultura (Prospero
Fontana, Pietà; Ercole Procaccini, Annunciazione: Bologna, pn). Accanto a questi
artisti Bologna poteva vantare, già all’inizio del secolo, una personalità
dotata di acuta espressività, cui meglio conviene l’area concettuale
dell’«eccentrico» anziché del «manierista»; Amico Aspertini, che attinge a fonti
diverse (in particolare all’antico) e la cui emotività e libertà espressiva
sembrano a noi esprimere una moderna disperazione (Pietà: Bologna, San Petronio;
oratorio di Santa Cecilia; San Giacomo Maggiore).
Venezia, Genova e Milano
È un altro merito degli studi moderni aver indagato il m nella pittura veneziana,
prima giudicata estranea alle vicende della «maniera». Di fatto il nuovo stile,
preparato dal Pordenone e da Lotto, è durevolmente presente a Venezia dopo il
1530: i soggiorni di Giovanni da Udine (1539), di Vasari, di Salviati (1541) ed
infine di Federico Zuccari vi contribuiscono
ampiamente. Alla prima ondata manierista si riallaccia Giuseppe Porta detto
Salviati, i cui rapporti con l’arte veneziana sono stati diversamente
interpretati (decorazioni in gran parte distrutte, per esempio quella della
villa Priuli presso Treviso, 1542, il cui programma decorativo anticipa quello
di Zelotti e del Veronese a Soranza).
Una seconda ondata manierista è caratterizzata a Venezia dalle grandi
decorazioni di Palazzo Ducale: soffitto della Sala X, della camera dei «Tre Cai»
(1553-54), della Scala d’Oro (1559-1560), i cui fini elementi a stucco sono di
gusto romano-mantovano. A Roma lo stesso Tiziano, colpito innanzitutto dai
capolavori michelangioleschi, modifica profondamente la sua maniera: il soffitto
della Salute (1543-44 ca.) ne è la dimostrazione più netta, così come alcuni
grandi quadri d’altare, in particolare il Cristo coronato di spine (1542 ca.:
Parigi, Louvre), nel quale rivive l’esempio del Laocoonte, una delle sculture
antiche più studiate dai manieristi.
Al m è totalmente legata anche l’opera del Tintoretto, che aspira ad emulare
Michelangelo in cicli giganteschi, ove la sua fantasia visionaria si avvale di
un disegno audace, di un cromatismo vibrante e di violenti contrasti di luce.
Egli crea un universo irreale dove è sempre presente un tratto personale di
forte emotività (Venezia, Scuola di San Rocco; decorazione del Palazzo Ducale).
Da parte sua il Veronese adatta il proprio m agli splendori di nobili residenze,
di cui egli si afferma come il più fulgido decoratore; dalla sua pittura stesa
con gioiosa fluidità, in una gamma armoniosa e chiara, nascono figure
visibilmente toccate dalla grazia del Parmigianino. Egli esalta anche uno dei
temi cari al m, il paesaggio di fantasia o di rovine, che impreziosisce con
inesausta fantasia (Villa Maser).
Dal Parmigianino, inoltre, deriva Andrea Schiavone: il suo stile rapidamente
schizzato serba in pittura il fascino e la freschezza del primo momento creativo,
partecipando di quel virtuosismo grafico che è un carattere tipico del m. L’arte
di Parmigianino spiega anche la formazione dei Bassano (Jacopo Bassano,
Decapitazione di san Giovanni Battista: Copenhagen, smfk), prima che essi si
volgano al genere dei quadri di soggetto contadino che li rese celebri. Ricerche
più recenti, confluite fra l’altro nella mostra Da Tiziano a El Greco (1981),
hanno approfondito aspetti del m a Venezia e sottolineato il ruolo di
personalità come Paris Bordon, Giovanni de Mio, Lambert Sustris, Battista
Franco: un ambiente di eccezionale vitalità che sul finire degli anni Sessanta
vide anche la partecipazione di El Greco.
Lo studio delle correnti manieriste negli altri centri italiani è anch’esso una
conquista della critica moderna (Genova con Luca Cambiaso, Napoli con Roviale
Spagnolo, Milano e la Lombardia con Gaudenzio Ferrari e, più tardi nel XVII sec.
con gli inizi, ancora in ambito tardomanierista, di Cairo, Morazzone, Tanzio da
Varallo). A Cremona, la pittura è dominata dai Campi (Antonio, Vincenzo,
Bernardino), eredi di Giulio, che mettono a frutto le componenti mantovana e
parmense presenti nella sua ultima maniera, e le cui relazioni con Milano sono
di particolare rilievo: specie per Bernardino, che vi dimorò fra il 1550 e il
1556. L’ultimo pittore di Cremona che si riallaccia alla «maniera», evolvendo
però più tardi nel senso della riforma dei Carracci è Giovan Battista Trotti,
detto il Malosso.
Diffusione internazionale del m.
A partire dal 1530, quasi tutta l’Europa è segnata dal m: qui è possibile solo
indicare, per ciascuna area, alcuni aspetti particolari, richiamando gli artisti
più significativi.
Spagna
Dominata all’inizio dall’influsso di Ghirlandaio e del Francia, la Spagna si
apre al rinascimento italiano (Leonardo, Michelangelo, Raffaello), e la sua
ammirazione si rivolge sulle prime ad alcuni maestri. Sebastiano del Piombo, le
cui opere sono ben conosciute e copiate, ispira uno stile monumentale
profondamente religioso (Vicente Masip, Pietà: cattedrale di Segorbe). Una
corrente più moderna si forma attorno agli artisti che hanno soggiornato in
Italia e alcuni dei quali, come Alonso Berruguete, furono un vero e proprio
fermento per la formazione della maniera. Questi pittori creano immagini di
singolare libertà, come Pedro de Campaña (Adorazione dei pastori: Berlino, sm,
gg), o come il bizzarro Pedro Machuca, le cui Madonne sembrano quasi riflettere
quelle di Leonardo in uno specchio deformato. Troppo originali per piacere, sono
state lungamente meno apprezzate del patetico Morales, interprete della
devozione popolare in uno dei temi tradizionali, la Pietà. La rivalutazione di
Berruguete, Campaña e Machuca è dovuta alla critica recente ed al suo intento di
collocare a Firenze la nascita della maniera.
Il primo artista spagnolo che interessò gli studiosi del m è El Greco. Dvorák ha
insistito in particolare su questa appassionante personalità, poiché
l’indipendenza e il misticismo che la caratterizzano gli apparivano altamente
emblematiche dello spiritualismo della maniera. Si è anche tentato di avvicinare
l’arte di El Greco al barocco; i suoi quadri audacemente composti (Sepoltura del
conte di Orgaz: Toledo, Santo Tomé), dai colori stranamente freddi, talvolta
lividi, evocano un mondo irreale, ove personaggi dai corpi inverosimilmente
allungati esprimono la più intensa sofferenza, l’estasi e la fede. Il clima di
tensione spirituale dell’opera di El Greco è di una intensità senza pari nella
pittura del suo tempo.
Inghilterra
L’arte di corte, che è uno tra gli aspetti significativi del m, favorita dalle
condizioni storiche, attinse nell’Inghilterra nel xvi sec. uno splendore di cui
purtroppo oggi non ci resta gran che, poiché la maggior parte delle opere sono
scomparse. In realtà, l’Inghilterra appare, all’inizio del rinascimento,
singolarmente in ritardo rispetto al resto d’Europa. Enrico VIII chiamò artisti
stranieri, e in particolare i fiamminghi, rinomati per la eccellenza della
tecnica, e gli italiani considerati gli autentici creatori dell’arte
contemporanea. Il suo tentativo fu quello di acclimatare in Inghilterra il m
romano e fiorentino avvalendosi di artisti come Toto di Nunziato d’Antonio,
Bartolomeo Penni e Nicolas Belin di Modena, il quale introdusse a corte anche lo
stile decorativo di Fontainebleau e i cui progetti (Louvre, Cabinet des dessins)
mostrano un interessante adattamento dei motivi di Rosso e del Primaticcio. Si
riallacciano al m internazionale alcuni fiamminghi (Scrots, Eworth) che,
richiamando i toni algidi e la tipica tavolozza di Floris e Jan Metsys,
dipinsero complicate allegorie e mitologie.
Se gli italiani hanno svolto un ruolo fondamentale nella decorazione, i
fiamminghi hanno dominato l’arte del ritratto, sviluppatasi considerevolmente
durante il regno di Elisabetta: si sono allora diffusi generi tipicamente
inglesi, come i ritratti allegorici dei sovrani, specie di icone profane con
finalità politiche, e, nel campo della miniatura, le creazioni raffinate di
Nicolas Hilliard e di Isaac Oliver: esempi perfetti del gusto manierista per
l’infinitamente piccolo.
Francia
Uno dei centri manieristici più importanti si sviluppò a Fontainebleau, grazie
all’intelligente politica artistica dei sovrani. Non soltanto, come Francesco I,
essi seppero circondarsi di artisti italiani (Rosso, Primaticcio), ma riunirono
anche attorno a sé raccolte prestigiose di opere d’arte, la cui presenza a
Fontainebleau fu fondamentale per la nascita del nuovo stile. Questo giunge alla
perfezione nel celebre Castello, ove venne elaborata, all’inizio sotto la
direzione degli italiani, un’arte decorativa di così spiccata originalità da
essere denominata «la maniera francese». La Galleria di Francesco I mostra tutta
la complessità formale ed iconografica di quest’arte di corte, altri esempi
della quale sono ancora la Camera della Duchessa d’Etampes e il Salone da ballo.
Rosso e Primaticcio, coadiuvati da collaboratori di classe (Luca Penni, Nicolò
dell’Abate), affrontarono tutti i generi e si imposero nella decorazione di
ispirazione mitologica, nel nudo e nel paesaggio.
Ampiamente diffuso attraverso le incisioni, impiegato anche negli arazzi, il
nuovo stile di Fontainebleau ebbe un successo cui si sottrassero pochi artisti
francesi (i Cousin, François Clouet). Imitata nei castelli (Oiron), la
decorazione a stucchi e ad affreschi di Fontainebleau venne spesso, per economia,
tradotta in sola pittura (Ecouen). L’evoluzione dell’inquadramento ornamentale,
la cui importanza è spesso maggiore di quella della scena principale, è
caratteristica dello stile bellifontain e riscosse un successo che si estese
alle tecniche più diverse (armi, libri, miniature, mobili, oreficeria).
Disegnatori di raro talento (Delaune) seguirono felicemente questa moda, e così
anche alcuni incisori (J. Androuet du Cerceau). Fu inoltre coniato, in stretto
rapporto con i modelli offerti dalla corte e con il contributo di grandi pittori
come François Clouet, il tipo del ritratto mitologico, con personaggi a mezza
figura, di un raffinato erotismo (Dama alla toletta: Museo di Digione).
La voga dello stile «miniatura» (Delaune) e quella delle allegorie sofisticate
(Caron) proseguono fino alla fine del secolo; mentre negli ultimi anni, sotto
Enrico IV, un m tardivo, fortemente influenzato dal m nordico e dallo stile dei
decoratori precedenti, e in particolare dell’epoca di Enrico II, rinnovava
tecniche e soggetti, facendo splendere di nuove seduzioni il vecchio castello.
Influenzati dai fiamminghi oltre che dagli italiani, Dubreil, Dubois, Fréminet
riprendono con maggior pesantezza, semplificandola, la decorazione a stucchi e
ad affreschi; la loro maniera, più colorata, si accosta al m internazionale;
mentre i soggetti sono ripresi da nuove fonti (poemi greci e italiani). Questa
seconda scuola di Fontainebleau ha prodotto uno dei capolavori del m francese,
la decorazione della cappella della Trinità nel Castello di Fontainebleau.
Scuole del Nord (Fiandre, Olanda, Germania)
Le personalità eccezionali di Bosch e Bruegel dominano il secolo e pongono un
problema tutto particolare. È stata qualificata come manierista la pittura di
Anversa verso il 1520,
etichetta che fu talvolta criticata severamente, benché la preziosa fattura e la
coquetterie dei personaggi lo richiamino davvero spesso alla mente (manieristi
di Anversa). Infatti questi maestri (Engebrechtsz) annunciano sia la pittura
italianizzante di Pieter Coecke van Aelst o di uno Scoreli, affascinato
dall’Antico e dall’Italia, sia l’eclettismo di un Heemskerck.
I romanisti, le cui esperienze furono anticipate da Gossaert, sono dominati da
Frans Floris, che assimilò la cultura italiana, sorretto da un forte
temperamento e immune dall’accademismo in cui sfortunatamente si impantanò la
sua scuola. Anche in Michiel Coxcie o Lambert Lombard la lezione italiana è
perfettamente assimilata, e così pure in Maerten de Vos. Quanto a Lambert e
Friedrich Sustris, prescindendo da particolari aspetti tecnici, la loro cultura
è interamente italiana, come italiano divenne anche Pietro Candido (Pieter de
Witte). Per quasi tutti questi artisti il modello italiano è infatti
fondamentale, e lo stesso per Goltzius, ma non intaccherà le qualità principali
del realismo nordico: le opere di soggetto mitologico presentano così un
sorprendente contrasto coi ritratti.
Di conseguenza l’originalità dei maestri dei Paesi Bassi si fa luce in alcuni
temi tradizionali di quella cultura, e particolarmente nel paesaggio (Coninxloo,
Savery, prima dei Bril) o nella natura morta (Hoefnagel). In centri molto
attivi, come Haarlem o Utrecht, si elabora verso la fine del secolo, per
influsso della scuola di Parma, un’arte elegante e appassionata (Cornelisz van
Haarlem, Wtewael, Bloemaert).
Tipicamente manieristi sono i colori dissonanti, la mimica ricercata di questi
pittori, che si distinguono anche per una grande delicatezza di esecuzione, che
talvolta sembra annunciare l’arte del XVIII sec.
In Germania, se Dürer ed Holbein restano estranei al m, la «scuola del Danubio
«che raggruppava artisti diversi (d’altronde senza rapporti con la regione
danubiana), da Cranach a Wolf Huber, vi si riallaccia per l’irrealismo
fantastico dei suoi paesaggi: i nudi di Cranach hanno un accento singolarmente
erotico, che il pittore si compiace di rafforzare ulteriormente avvolgendoli in
veli trasparenti o adornandoli di sontuosi gioielli. Egli riprende motivi da
composizioni italiane, ma li dipinge con un rigore di disegno e una freddezza
ancora gotica, che conferiscono loro un fascino singolare. Alcuni di questi
caratteri e un ductus irreprensibile danno una speciale impronta anche all’opera
dello svizzero Niklaus Manuel Deutsch.
Un focolare di tardo m particularmente brillante si costituì a Praga alla corte
di Rodolfo II, che sull’esempio di Francesco I seppe riunire artisti di
prestigio e una ricchissima collezione.
Il bizzarro, l’erotico, il prezioso vennero qui apprezzati ancor più che a
Fontainebleau, e – sotto il pennello di Spranger, Heintz, Hans van Aachen –
giungono a vertici di seduzione talvolta un po’ ostentata: i loro risultati
erano stati preparati dalle esperienze di Karel van Mander e di Speckaert a
Roma. È tuttavia innegabile che davanti alle loro opere si resta soggiogati da
una qualità di invenzione che annuncia il barocco e il rococò e dalla
ineguagliabile raffinatezza dell’esecuzione (Spranger, Ercole e Onfale: Vienna,
km).