5/13/2020

Manierismo

II termine compare per la prima volta nello storico Luigi Lanzi (1809) per designare lo stile dominante nella pittura italiana durante il periodo compreso tra il Sacco di Roma (1527) e l’avvento dei Carracci. L’aggettivo «manierista» è più antico e fra i primi ad usarlo è un francese, Fréart de Chambray (1662). L’impiego di questi due termini è legato, negli autori citati, ad un’interpretazione del tutto negativa dello stile di quest’epoca. Una sua progressiva riabilitazione si avvia nel XIX sec., grazie ai teorici che si sforzano di chiarire il significato e la portata del concetto di m e grazie, soprattutto, agli studi dedicati agli artisti qualificati «manieristi».

Storia e teoria

Nel XVI sec. i termini «manierista» e «m» non esistevano. D’altra parte, il termine «maniera» compare nel trattato di Cennini (1390 ca.) e in Vasari (Le Vite), il quale se ne serve per parlare dello stile di un artista («maniera» di Giotto), e designa come «bella maniera» le qualità di grazia, armonia, immaginazione, fantasia e virtuosismo che, a suo avviso, sono appannaggio della «maniera moderna», vale a dire degli artisti del suo tempo, che egli giudica superiori a tutti gli altri. Nascono più tardi le riserve degli storici nei confronti degli imitatori di Raffaello e di Michelangelo, che inauguravano la nuova moda artistica: esse furono espresse con grande energia da G. Pietro Bellori (1672), che levò la sua voce contro
gli artisti che, abbandonando lo studio diretto della natura, avevano alterato l’arte con la pratica dell’imitazione. La stessa idea è ripresa, in particolare, dal bolognese Malvasia (1678) e dal fiorentino Baldinucci (1681).

Allorché Lanzi scrive, in pieno neoclassicismo, non fa che ispirarsi a queste interpretazioni negative: impiega infatti il termine m per designare un’arte che egli definisce un’alterazione del vero, priva di una sua propria originalità, poiché è fondata sull’imitazione e la ripetizione. Tale doveva restare la posizione degli storici fino al XIX sec.

Dopo gli studi di Gurlitt (1884), che concepì un «tardo rinascimento» identificandolo con Michelangelo, e quelli di Riegl (1908), che sottolineò il carattere originale delle invenzioni decorative del m, Dvorák (1918) fu di fatto il primo ad affermare l’autonomia dello stile manierista, con i suoi caratteri di soggettivismo e di espressionismo, la sua tendenza al drammatico, la sua fantasia e la sua animazione. È dunque grazie alle sue intuizioni che l’idea della originalità e della specifica importanza del m è apparsa finalmente in piena evidenza: Lili Fröhlich-Bum (1921) descrisse la fortuna del formalismo parmigianinesco come fenomeno sostanzialmente diverso dalla tendenza al barocco facente capo a Michelangelo, e la sua irradiazione internazionale in ogni campo dell’attività artistica.

Si tenta allora di considerare il m in rapporto alla Controriforma (Pevsner, 1921-28), al barocco (Weisbach, 1919-34), o infine al classicismo. W. Friedländer vide nel 1915 il m come lo stile anticlassico per eccellenza, di cui egli scorgeva l’origine nell’ambiente dei Pontormo, dei Rosso e dei Parmigianino, in contrapposizione all’ideale di armonia del rinascimento. Egli giunge così a definire un primo m, che d’altra parte prende avvio con la stessa opera di Michelangelo, mentre più tardi (1930) s’impegnerà a definire, al seguito di questo primo m e dopo una fase che segnò la sua fortuna, una reazione antimanierista che si riaccosta al rinascimento e prelude, sia nella concezione estetica sia nella tematica figurativa – ad esempio, con Barocci – all’arte del Seicento.

In tal modo Friedländer segmentava il m in più fasi: idea che verrà ripresa da F. Antal (1927), S. J. Freedberg (1961) e G. Briganti (1961). Antal distingueva una fase «classica» all’interno stesso del m; Freedberg riconosceva un primo e un secondo m, che distingueva dalla «High Renaissance», in cui d’altra parte individuava i suoi fondamenti. Briganti,
riprendendo le idee di Longhi sull’origine del fenomeno manierista, ugualmente giunse ad identificare tre generazioni della «maniera». È su questo stesso concetto di «maniera» che si concentrano le ricerche successive: Shearman (1961-62), approfondendo il senso storico del termine «maniera», ne definisce l’ideale artistico di perfezione formale e di virtuosismo e lo distingue nettamente dal m.

Anche Smyth, contribuendo a chiarire il significato del termine «maniera», ha definito gli elementi che compongono una figura «manierista» sottolineando che, tra altri influssi (Michelangelo, neogotico, arte tedesca), essa rivela forti legami con la scultura antica. Il lavoro interpretativo è stato facilitato da ricerche sistematiche sugli artisti operanti fra il 1527 e il 1600. Esse, soprattutto in un primo momento, si sono concentrate sull’arte italiana: la Storia di Adolfo Venturi, gli studi di H. Voss, R. Longhi, G. Briganti (1940), L. Becherucci
(1944), P. Barocchi (1951), per citarne solamente alcuni, hanno rivelato una messe di opere poco note o talvolta addirittura completamente ignorate. In seguito, favorita anche dagli importanti risultati conseguiti, l’indagine si è estesa a tutta l’arte europea (scuola di Fontainebleau, scuola degli antichi Paesi Bassi, Praga). In parallelo con le ricerche sui caratteri formali del m, l’attenzione si è appuntata sulle sue cause: accanto a spiegazioni di ordine sociologico (Antal, 1948; Hauser, 1954; F. Würtemberg, 1962), che si contrappongono alle teorie che vedono nel m una tendenza permanente dello spirito umano, e dunque relativamente indipendente dai contesti sociali (E. R. Curtius, 1947; G. R. Hocke, 1957), si sono affermate interpretazioni di fondo stilistico (influsso del gotico, di Dürer, di Donatello, dell’Antico), o anche letterario e filosofico (ruolo delle accademie, dei mecenati, delle corti, della Chiesa e degli ordini religiosi).

Negli ultimi quarant’anni, i risultati di questi lavori sono stati resi accessibili al grande pubblico grazie ad una serie di mostre importanti (Napoli 1952; Amsterdam 1955; Manchester
1964; Parigi 1965-66 e 1972; Firenze 1980; Praga 1989).

Il termine m, divenuto di moda, è stato utilizzato in misura eccessiva, fino al punto da designare l’intero svolgimento della pittura del Cinquecento dalla morte di Raffaello (1520) fino agli inizi del classicismo seicentesco e del barocco. Oggi si tende a considerare a parte la «maniera «(Rosso, Parmigianino, Perin del Vaga) col suo raffinato ideale formale in relazione con l’arte dei protagonisti del rinascimento, Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Essa precede un tardo rinascimento il cui stile è imparentato, tramite le sue componenti linguistiche, al rinascimento e alla «maniera», ma spesso se ne distacca molto sia negli intenti sia negli esiti formali (Vasari e la sua scuola), nei quali si fa strada una tendenza alla ripetizione stereotipa che sbocca, alla fine del secolo, nei modi ormai esausti dei tardomanieristi romani (per esempio del Cavalier d’Arpino): contro i quali ebbe buon giuoco la reazione classicista e barocca.

Lo stile «manierista» è dunque ben lontano dall’essere univoco, a maggior ragione se consideriamo l’impressionante diversità delle espressioni regionali (m lombardo, emiliano, romano, genovese, napoletano e così via) così come la sua espansione che interessa virtualmente l’intera Europa. Di conseguenza, oggi alcuni fra gli studiosi che affrontano i problemi di questo periodo – «between Renaissance and Baroque», secondo il titolo stesso della mostra di Manchester – preferiscono non parlare più di Trionfo del m (titolo della mostra di Amsterdam del 1955), bensì di «manierismi», i cui tipi sono diversi quanto le regioni o i Paesi in cui si sono affermati.

Il m in Italia

Roma

Il m nacque in Italia. Il ruolo fondamentale svolto da Michelangelo è stato unanimemente sottolineato dagli studi: ispirarono gli artisti non soltanto le sue opere tarde (Giudizio Universale, 1541: Sistina; affreschi della cappella Paolina: Crocifissione di san Pietro e Conversione di san Paolo), ma anche quelle della prima maturità (Tondo Doni, 1504-506: Uffizi; cartone della Battaglia di Cascina, 1504; volta della Sistina, 1508-12). Anche le sue sculture sono servite di modello: dal David alle tarde Pietà. Gli artisti più giovani vi hanno trovato la soluzione più avanzata per affrontare con spirito innovativo il problema dello spazio figurativo e della composizione.

L’ispirazione grandiosa e drammatica di Michelangelo ha inoltre offerto l’esempio di una spiritualità in risoluta contrapposizione col naturalismo e l’armonia del primo rinascimento.
È con lo stesso intento che i giovani hanno interrogato Leonardo, che peraltro per nascita appartiene ancor più al XV sec. Le sue opere più celebri hanno offerto ai manieristi altrettante suggestioni (Adorazione dei Magi, Vergine delle rocce, Sant’Anna, Leda, cartone della Battaglia di Anghiari), non soltanto per la bellezza delle invenzioni e delle attitudini, ma anche per l’inquietudine che le pervade, per il loro poetico chiaroscuro, e forse anche per la squisita perfezione dei particolari.

A Raffaello ci si è rivolti con pari intensità: in Vaticano, la Stanza di Elidoro (1511-14) e la Stanza dell’Incendio di Borgo (1514-17), col loro clima eroico, la ricerca di composizione e di movimento, hanno sedotto i giovani artisti assai più della classica perfezione della Stanza della Segnatura (1508-11). Nella Stanza di Costantino, eseguita dopo la morte di Raffaello dai suoi collaboratori, diretti da Giulio Romano, l’equilibrio rinascimentale è abbandonato definitivamente. Che queste fossero davvero le profonde intenzioni del maestro è dimostrato dai suoi disegni originali e dalle sue ultime opere, come la straordinaria Trasfigurazione (Vaticano), la cui composizione impostata su due diversi registri e l’accentuazione mimica sono già, in un certo senso, manieriste. Risaliva inoltre a Raffaello il nuovo interesse per la decorazione antica, che gli si svelò quando egli soprintendeva agli scavi di Roma.

Tutti i suoi suggerimenti sono stati messi a frutto dagli allievi: nelle Logge si dispiega, sotto il fluido pennello di Giovanni da Udine, il vivace repertorio delle grottesche della Domus Aurea, mentre la Farnesina o la Stufetta del cardinal Bibbiena danno forma a una radiosa visione della mitologia. Perin del Vaga offrì a Firenze uno dei «manifesti» del nuovo ideale della «maniera» col suo cartone per i Diecimila martiri; artista raffinato ed elegante, con le sue creazioni a Roma (Castel Sant’Angelo) e soprattutto a Genova (Palazzo Doria) diffuse lo spirito nuovo della decorazione romana a stucco e a fresco, dal complesso programma iconografico; mentre Polidoro da Caravaggio si distingueva nel genere, allora di moda, delle facciate dipinte dei palazzi, scoprendo, attraverso l’Antico, anche il paesaggio (San Silvestro al Quirinale).

Dopo il Sacco di Roma, nel suo esilio siciliano, egli dava un seguito profondamente drammatico alle tendenze espressive latenti nelle opere estreme di Raffaello.

Ma fu Giulio Romano a trarre dal modello raffaellesco le massime conseguenze: a Mantova, ove si era stabilito nel 1524, in Palazzo Ducale e soprattutto in Palazzo Te preme di volta in volta il tasto dell’erotismo (Sala di Psiche), della grazia (Sala dei Mesi) e della violenza (Sala dei Giganti), seguendo un programma iconografico legato alla glorificazione della casa dei Gonzaga; il complesso decorativo, di una varietà incessante, accosta lo stucco all’affresco in un rapporto del tutto inedito. Per queste ragioni il Palazzo Te è giustamente considerato un monumento fra i più importanti e precoci della civiltà manierista.

La Toscana

L’identificazione del ruolo privilegiato della Toscana nella fase formativa del m è uno dei risultati più notevoli degli studi del nostro secolo. Andrea del Sarto e la sua scuola sono stati esaminati, da questo punto di vista, con un orientamento del tutto nuovo: nel cantiere dell’Annunziata si formarono attorno ad Andrea gli artisti più dotati della nuova generazione, ammiratori non soltanto di Leonardo, Michelangelo e Raffaello, ma anche di Donatello e Dürer. Essi attinsero da questi maestri arditezze compositive, virtuosismi di disegno e di colore che li condussero ancora più lontano dei loro predecessori Piero di Cosimo e Filippino Lippi: dei quali tuttavia i caratteri di stile e di invenzione formavano già un forte contrasto con l’arte misurata di un Fra Bartolomeo, erede a Firenze della tradizione classica.

Essi avevano aperto la strada alla tendenza degli «eccentrici» fiorentini (Maestro dei Paesaggi Kress ecc.) o alle singolari ricerche grafiche dello scultore B. Bandinelli. Per un altro verso il distacco dal classicismo, di cui era per estrazione culturale meno intriso, fu senza dubbio più agevole per lo spagnolo Alonso Berruguete che per i fiorentini; e venne inoltre favorito dall’esperienza dei capolavori romani di Michelangelo e di Raffaello, che egli conobbe prima di loro. Il soggiorno a Firenze di Berruguete (fra il 1508 e il 1516) fu, dunque, un avvenimento di rilievo per i giovani pittori. Già Pontormo aveva mostrato nella decorazione della camera nuziale di Francesco Borgherini (Storia di Giuseppe), dinanzi agli altri allievi di Andrea del Sarto, come si potesse rompere l’unità dello spazio e al contempo esaltare la potenza espressiva delle figure. Le sue opere successive rivelano un soggettivismo sempre più disperato (certosa di Galluzzo, dopo il 1522), persino nella decorazione delle ville medicee con la sua grazia luminosa.

Questa vocazione irrefrenabile spinge Pontormo verso un’arte irrealistica, che vorrebbe, non senza speranza, gareggiare con quella di Michelangelo, e che lo rinchiuderà in un totale isolamento sia esistenziale sia artistico (affreschi del coro di San Lorenzo, tra il 1546 e il 1556, di cui restano i disegni preparatori). Nella tensione di una febbrile ricerca, Pontormo accumulava i disegni che occupano un posto essenziale nella genesi della sua opera e d’altra parte sottolineano il ruolo notevole attribuito ormai dagli artisti a questo mezzo espressivo.

L’originalità di Rosso si affermò assai presto, con lo scalpore di uno scandalo (Assunzione, 1517: Firenze, Santissima Annunziata; Madonna e santi, 1518: ivi, Uffizi) ed una volontà di assoluta indipendenza che, malgrado i suoi prestiti dai fiorentini (Fra Bartolomeo, ma soprattutto Andrea del Sarto) ed il suo culto di Michelangelo, ne fanno un artista senza maestri. Le ricerche della sua prima fase fiorentina culminano nella stupefacente geometria colorata della Deposizione dalla croce (1522: Volterra, Pinacoteca). È a Roma, dapprima a contatto con le imprese sconvolgenti di Michelangelo e di Raffaello, poi accanto a Parmigianino e Perino che Rosso fece suo l’ideale, tutto grazia ed eleganza della «maniera» (Cristo morto: Boston, mfa). Dopo il 1527, conducendo una esistenza errabonda e piena di difficoltà, lascia in Umbria e in Toscana opere di un pathos intenso (Deposizione: Borgo San Sepolcro, San Lorenzo), piene di energia, dissonanti nel colorito e violentemente spezzate nel disegno. Infine, nel 1530, la chiamata di Francesco I gli consentìdi dimostrarsi, a Fontainebleau, nella decorazione murale, un artista fra i più originali e importanti del suo tempo.

Il senese Domenico Beccafumi, sia come autore di decorazioni profane (Palazzo Bindi Sergardi, Palazzo Pubblico di Siena), che come pittore di opere sacre (Sposalizio della Vergine, Cristo al limbo: Siena, pn) da forma a un mondo poeticamente irreale in una gamma dai toni luminosi e lirici, esempio perfetto di una «maniera» dagli inconfondibili, sofisticati formalismi. Pontormo, Rosso e Beccafumi, per la loro originalità, che investe la composizione, l’espressione, la luce e il colore, si distinguono nettamente dalla generazione operante nella seconda metà del XVI sec. a Firenze, dove, per impulso dei Medici, si svilupperà un’arte di corte.

Il Bronzino è ritrattista di raro nitore intellettuale, di una freddezza e di un’eleganza sapientemente calcolate (Bartolomeo e Lucrezia Panciatichi: Firenze, Uffizi): di una perfezione assoluta nel disegno (Deposizione: Museo di Besançon) e di una complicata fantasia nelle invenzioni, che riflettono gli ideali delle cerehie più alte e delle accademie (Allegoria: Londra, ng). Questa generazione ha dato altri grandi della decorazione, come Francesco Salviati: le sue creazioni romane (Palazzo Farnese e Palazzo Sacchetti) e fiorentine (Palazzo Vecchio), originali e complesse nel moltiplicarsi degli scomparti e delle invenzioni che danno forma a scene di forte suggestione, sia nei soggetti eroici sia in quelli di una voluttuosa profanità, costituiscono uno degli esempi più rappresentativi del gusto manierista.

I grandi cicli diretti dal Vasari, biografo dei pittori, uomo di fiducia dei Medici, che egli glorificò senza posa esercitando le sue attitudini in ogni campo ed influenzando i numerosi
collaboratori, che gli furono accanto nelle sue molteplici imprese, svolsero un ruolo anch’esso di eccezionale rilievo. Nelle decorazioni di Palazzo Vecchio Vasari adotta intelligentemente tutte le risorse del vocabolario ornamentale del suo tempo (grottesche, finte seulture, nature morte e paesaggi) per incastonare composizioni talvolta di inattesa freschezza e grazia: l’opera sua più compiuta e riuscita, e la più tipicamente manierista, è il famoso Studiolo di Francesco I, sorta di museo del principe, cui Vasari lavora a partire dal 1570 unitamente ai seguaci più dotati (Poppi, Naldini, Allori, Santi di Tito, Maso da San Friano, Cavatori, Macchietti, Stradano e Zucchi).

Parma e l’Emilia

All’inizio del secolo, l’arte emiliana è dominata dal Correggio, i cui capolavori a Parma (Camera di San Paolo, 1519; cupola di San Giovanni Evangelista, 1520-23; cupola del duomo, 1524-30), per il gusto illusionistico e le originali invenzioni ispirarono i manieristi, prima di sedurre gli artisti del barocco e del rococò.
Allo stesso modo le sue soavi Madonne preludono alle ricerche del Parmigianino, la cui influenza doveva estendersi ben oltre i confini dell’Emilia, ove peraltro egli lasciò le sue opere più importanti, lo squisito camerino della Rocca di Fontanellato e la monumentale volta della Steccata a Parma. I suoi disegni, di raffinato virtuosismo, ed i suoi quadri impongono un nuovo tipo di bellezza, dalle forme allungate, dai ritmi sinuosi, prototipi di quella sua grazia tutta manierista (Madonna dal collo lungo: Firenze, Uffizi) che, ampiamente divulgata dalle incisioni, influenzò profondamente un’intera generazione di artisti.

Da quelle sue invenzioni derivano le opere di pittori di delicata sensibilità e non privi di originalità, come Michelangelo Anselmi, Girolamo Mazzola Bedoli, Lelio Orsi, Jacopo Bertoja; la loro arte unisce alla grazia la fantasia talvolta più bizzarra (Bertoja, Parma, Palazzo del Giardino).

Bologna fu tra le prime città ad accogliere il messaggio del Parmigianino, al quale era stata in un certo senso preparata dai seguaci di Raffaello (Innocenzo da Imola, Bagnacavallo,
Pupini) e di Lorenzo Costa, e dal soggiorno del Parmigianino stesso al suo ritorno da Roma (San Rocco: Bologna, San Petronio; la Vergine col Bambino, santa Margherita e altri santi: Bologna, pn). Nicolò dell’Abate ne dà prova nelle squisite decorazioni di Modena e soprattutto di Palazzo Poggi a Bologna (Sala dei Paesaggi, Sala dei Concerti), prima di «esportare» questa grazia nella lontana terra di Francia insieme al bolognese Francesco Primaticcio, uno dei primi decoratori del suo tempo, col quale si ritrova alla corte di Fontainebleau.

Più incisivamente segnato da Michelangelo, Pellegrino Tibaldi dipinge in Palazzo Poggi le impetuose Storie di Ulisse, con un virtuosismo intriso di humour, e in San Giacomo la grandiosa cappella del cardinal Poggi. Dopo di lui, un gran numero di artisti, forti anch’essi dell’esperienza romana, popolarono i palazzi e le chiese di immagini più sapienti che piacevoli, che si riallacciano all’ultima ondata del m, come Prospero Fontana, Ercole Procaccini, Lorenzo Sabbatini e Grazio Sammachini: nei loro quadri d’altare sono indubbiamente da riconoscere esiti talvolta tra i più importanti di questa cultura (Prospero Fontana, Pietà; Ercole Procaccini, Annunciazione: Bologna, pn). Accanto a questi artisti Bologna poteva vantare, già all’inizio del secolo, una personalità dotata di acuta espressività, cui meglio conviene l’area concettuale dell’«eccentrico» anziché del «manierista»; Amico Aspertini, che attinge a fonti diverse (in particolare all’antico) e la cui emotività e libertà espressiva sembrano a noi esprimere una moderna disperazione (Pietà: Bologna, San Petronio; oratorio di Santa Cecilia; San Giacomo Maggiore).

Venezia, Genova e Milano

È un altro merito degli studi moderni aver indagato il m nella pittura veneziana, prima giudicata estranea alle vicende della «maniera». Di fatto il nuovo stile, preparato dal Pordenone e da Lotto, è durevolmente presente a Venezia dopo il 1530: i soggiorni di Giovanni da Udine (1539), di Vasari, di Salviati (1541) ed infine di Federico Zuccari vi contribuiscono
ampiamente. Alla prima ondata manierista si riallaccia Giuseppe Porta detto Salviati, i cui rapporti con l’arte veneziana sono stati diversamente interpretati (decorazioni in gran parte distrutte, per esempio quella della villa Priuli presso Treviso, 1542, il cui programma decorativo anticipa quello di Zelotti e del Veronese a Soranza).

Una seconda ondata manierista è caratterizzata a Venezia dalle grandi decorazioni di Palazzo Ducale: soffitto della Sala X, della camera dei «Tre Cai» (1553-54), della Scala d’Oro (1559-1560), i cui fini elementi a stucco sono di gusto romano-mantovano. A Roma lo stesso Tiziano, colpito innanzitutto dai capolavori michelangioleschi, modifica profondamente la sua maniera: il soffitto della Salute (1543-44 ca.) ne è la dimostrazione più netta, così come alcuni grandi quadri d’altare, in particolare il Cristo coronato di spine (1542 ca.: Parigi, Louvre), nel quale rivive l’esempio del Laocoonte, una delle sculture antiche più studiate dai manieristi.

Al m è totalmente legata anche l’opera del Tintoretto, che aspira ad emulare Michelangelo in cicli giganteschi, ove la sua fantasia visionaria si avvale di un disegno audace, di un cromatismo vibrante e di violenti contrasti di luce. Egli crea un universo irreale dove è sempre presente un tratto personale di forte emotività (Venezia, Scuola di San Rocco; decorazione del Palazzo Ducale). Da parte sua il Veronese adatta il proprio m agli splendori di nobili residenze, di cui egli si afferma come il più fulgido decoratore; dalla sua pittura stesa con gioiosa fluidità, in una gamma armoniosa e chiara, nascono figure visibilmente toccate dalla grazia del Parmigianino. Egli esalta anche uno dei temi cari al m, il paesaggio di fantasia o di rovine, che impreziosisce con inesausta fantasia (Villa Maser).

Dal Parmigianino, inoltre, deriva Andrea Schiavone: il suo stile rapidamente schizzato serba in pittura il fascino e la freschezza del primo momento creativo, partecipando di quel virtuosismo grafico che è un carattere tipico del m. L’arte di Parmigianino spiega anche la formazione dei Bassano (Jacopo Bassano, Decapitazione di san Giovanni Battista: Copenhagen, smfk), prima che essi si volgano al genere dei quadri di soggetto contadino che li rese celebri. Ricerche più recenti, confluite fra l’altro nella mostra Da Tiziano a El Greco (1981), hanno approfondito aspetti del m a Venezia e sottolineato il ruolo di personalità come Paris Bordon, Giovanni de Mio, Lambert Sustris, Battista Franco: un ambiente di eccezionale vitalità che sul finire degli anni Sessanta vide anche la partecipazione di El Greco.

Lo studio delle correnti manieriste negli altri centri italiani è anch’esso una conquista della critica moderna (Genova con Luca Cambiaso, Napoli con Roviale Spagnolo, Milano e la Lombardia con Gaudenzio Ferrari e, più tardi nel XVII sec. con gli inizi, ancora in ambito tardomanierista, di Cairo, Morazzone, Tanzio da Varallo). A Cremona, la pittura è dominata dai Campi (Antonio, Vincenzo, Bernardino), eredi di Giulio, che mettono a frutto le componenti mantovana e parmense presenti nella sua ultima maniera, e le cui relazioni con Milano sono di particolare rilievo: specie per Bernardino, che vi dimorò fra il 1550 e il 1556. L’ultimo pittore di Cremona che si riallaccia alla «maniera», evolvendo però più tardi nel senso della riforma dei Carracci è Giovan Battista Trotti, detto il Malosso.

Diffusione internazionale del m.

A partire dal 1530, quasi tutta l’Europa è segnata dal m: qui è possibile solo indicare, per ciascuna area, alcuni aspetti particolari, richiamando gli artisti più significativi.

Spagna

Dominata all’inizio dall’influsso di Ghirlandaio e del Francia, la Spagna si apre al rinascimento italiano (Leonardo, Michelangelo, Raffaello), e la sua ammirazione si rivolge sulle prime ad alcuni maestri. Sebastiano del Piombo, le cui opere sono ben conosciute e copiate, ispira uno stile monumentale profondamente religioso (Vicente Masip, Pietà: cattedrale di Segorbe). Una corrente più moderna si forma attorno agli artisti che hanno soggiornato in Italia e alcuni dei quali, come Alonso Berruguete, furono un vero e proprio fermento per la formazione della maniera. Questi pittori creano immagini di singolare libertà, come Pedro de Campaña (Adorazione dei pastori: Berlino, sm, gg), o come il bizzarro Pedro Machuca, le cui Madonne sembrano quasi riflettere quelle di Leonardo in uno specchio deformato. Troppo originali per piacere, sono state lungamente meno apprezzate del patetico Morales, interprete della devozione popolare in uno dei temi tradizionali, la Pietà. La rivalutazione di Berruguete, Campaña e Machuca è dovuta alla critica recente ed al suo intento di collocare a Firenze la nascita della maniera.

Il primo artista spagnolo che interessò gli studiosi del m è El Greco. Dvorák ha insistito in particolare su questa appassionante personalità, poiché l’indipendenza e il misticismo che la caratterizzano gli apparivano altamente emblematiche dello spiritualismo della maniera. Si è anche tentato di avvicinare l’arte di El Greco al barocco; i suoi quadri audacemente composti (Sepoltura del conte di Orgaz: Toledo, Santo Tomé), dai colori stranamente freddi, talvolta lividi, evocano un mondo irreale, ove personaggi dai corpi inverosimilmente
allungati esprimono la più intensa sofferenza, l’estasi e la fede. Il clima di tensione spirituale dell’opera di El Greco è di una intensità senza pari nella pittura del suo tempo.

Inghilterra

L’arte di corte, che è uno tra gli aspetti significativi del m, favorita dalle condizioni storiche, attinse nell’Inghilterra nel xvi sec. uno splendore di cui purtroppo oggi non ci resta gran che, poiché la maggior parte delle opere sono scomparse. In realtà, l’Inghilterra appare, all’inizio del rinascimento, singolarmente in ritardo rispetto al resto d’Europa. Enrico VIII chiamò artisti stranieri, e in particolare i fiamminghi, rinomati per la eccellenza della tecnica, e gli italiani considerati gli autentici creatori dell’arte contemporanea. Il suo tentativo fu quello di acclimatare in Inghilterra il m romano e fiorentino avvalendosi di artisti come Toto di Nunziato d’Antonio, Bartolomeo Penni e Nicolas Belin di Modena, il quale introdusse a corte anche lo stile decorativo di Fontainebleau e i cui progetti (Louvre, Cabinet des dessins) mostrano un interessante adattamento dei motivi di Rosso e del Primaticcio. Si riallacciano al m internazionale alcuni fiamminghi (Scrots, Eworth) che, richiamando i toni algidi e la tipica tavolozza di Floris e Jan Metsys, dipinsero complicate allegorie e mitologie.

Se gli italiani hanno svolto un ruolo fondamentale nella decorazione, i fiamminghi hanno dominato l’arte del ritratto, sviluppatasi considerevolmente durante il regno di Elisabetta: si sono allora diffusi generi tipicamente inglesi, come i ritratti allegorici dei sovrani, specie di icone profane con finalità politiche, e, nel campo della miniatura, le creazioni raffinate di Nicolas Hilliard e di Isaac Oliver: esempi perfetti del gusto manierista per l’infinitamente piccolo.

Francia

Uno dei centri manieristici più importanti si sviluppò a Fontainebleau, grazie all’intelligente politica artistica dei sovrani. Non soltanto, come Francesco I, essi seppero circondarsi di artisti italiani (Rosso, Primaticcio), ma riunirono anche attorno a sé raccolte prestigiose di opere d’arte, la cui presenza a Fontainebleau fu fondamentale per la nascita del nuovo stile. Questo giunge alla perfezione nel celebre Castello, ove venne elaborata, all’inizio sotto la direzione degli italiani, un’arte decorativa di così spiccata originalità da essere denominata «la maniera francese». La Galleria di Francesco I mostra tutta la complessità formale ed iconografica di quest’arte di corte, altri esempi della quale sono ancora la Camera della Duchessa d’Etampes e il Salone da ballo. Rosso e Primaticcio, coadiuvati da collaboratori di classe (Luca Penni, Nicolò dell’Abate), affrontarono tutti i generi e si imposero nella decorazione di ispirazione mitologica, nel nudo e nel paesaggio.

Ampiamente diffuso attraverso le incisioni, impiegato anche negli arazzi, il nuovo stile di Fontainebleau ebbe un successo cui si sottrassero pochi artisti francesi (i Cousin, François Clouet). Imitata nei castelli (Oiron), la decorazione a stucchi e ad affreschi di Fontainebleau venne spesso, per economia, tradotta in sola pittura (Ecouen). L’evoluzione dell’inquadramento ornamentale, la cui importanza è spesso maggiore di quella della scena principale, è caratteristica dello stile bellifontain e riscosse un successo che si estese alle tecniche più diverse (armi, libri, miniature, mobili, oreficeria). Disegnatori di raro talento (Delaune) seguirono felicemente questa moda, e così anche alcuni incisori (J. Androuet du Cerceau). Fu inoltre coniato, in stretto rapporto con i modelli offerti dalla corte e con il contributo di grandi pittori come François Clouet, il tipo del ritratto mitologico, con personaggi a mezza figura, di un raffinato erotismo (Dama alla toletta: Museo di Digione).

La voga dello stile «miniatura» (Delaune) e quella delle allegorie sofisticate (Caron) proseguono fino alla fine del secolo; mentre negli ultimi anni, sotto Enrico IV, un m tardivo, fortemente influenzato dal m nordico e dallo stile dei decoratori precedenti, e in particolare dell’epoca di Enrico II, rinnovava tecniche e soggetti, facendo splendere di nuove seduzioni il vecchio castello. Influenzati dai fiamminghi oltre che dagli italiani, Dubreil, Dubois, Fréminet riprendono con maggior pesantezza, semplificandola, la decorazione a stucchi e ad affreschi; la loro maniera, più colorata, si accosta al m internazionale; mentre i soggetti sono ripresi da nuove fonti (poemi greci e italiani). Questa seconda scuola di Fontainebleau ha prodotto uno dei capolavori del m francese, la decorazione della cappella della Trinità nel Castello di Fontainebleau.

Scuole del Nord (Fiandre, Olanda, Germania)

Le personalità eccezionali di Bosch e Bruegel dominano il secolo e pongono un problema tutto particolare. È stata qualificata come manierista la pittura di Anversa verso il 1520,
etichetta che fu talvolta criticata severamente, benché la preziosa fattura e la coquetterie dei personaggi lo richiamino davvero spesso alla mente (manieristi di Anversa). Infatti questi maestri (Engebrechtsz) annunciano sia la pittura italianizzante di Pieter Coecke van Aelst o di uno Scoreli, affascinato dall’Antico e dall’Italia, sia l’eclettismo di un Heemskerck.

I romanisti, le cui esperienze furono anticipate da Gossaert, sono dominati da Frans Floris, che assimilò la cultura italiana, sorretto da un forte temperamento e immune dall’accademismo in cui sfortunatamente si impantanò la sua scuola. Anche in Michiel Coxcie o Lambert Lombard la lezione italiana è perfettamente assimilata, e così pure in Maerten de Vos. Quanto a Lambert e Friedrich Sustris, prescindendo da particolari aspetti tecnici, la loro cultura è interamente italiana, come italiano divenne anche Pietro Candido (Pieter de Witte). Per quasi tutti questi artisti il modello italiano è infatti fondamentale, e lo stesso per Goltzius, ma non intaccherà le qualità principali del realismo nordico: le opere di soggetto mitologico presentano così un sorprendente contrasto coi ritratti.

Di conseguenza l’originalità dei maestri dei Paesi Bassi si fa luce in alcuni temi tradizionali di quella cultura, e particolarmente nel paesaggio (Coninxloo, Savery, prima dei Bril) o nella natura morta (Hoefnagel). In centri molto attivi, come Haarlem o Utrecht, si elabora verso la fine del secolo, per influsso della scuola di Parma, un’arte elegante e appassionata (Cornelisz van Haarlem, Wtewael, Bloemaert).

Tipicamente manieristi sono i colori dissonanti, la mimica ricercata di questi pittori, che si distinguono anche per una grande delicatezza di esecuzione, che talvolta sembra annunciare l’arte del XVIII sec.

In Germania, se Dürer ed Holbein restano estranei al m, la «scuola del Danubio «che raggruppava artisti diversi (d’altronde senza rapporti con la regione danubiana), da Cranach a Wolf Huber, vi si riallaccia per l’irrealismo fantastico dei suoi paesaggi: i nudi di Cranach hanno un accento singolarmente erotico, che il pittore si compiace di rafforzare ulteriormente avvolgendoli in veli trasparenti o adornandoli di sontuosi gioielli. Egli riprende motivi da composizioni italiane, ma li dipinge con un rigore di disegno e una freddezza ancora gotica, che conferiscono loro un fascino singolare. Alcuni di questi caratteri e un ductus irreprensibile danno una speciale impronta anche all’opera dello svizzero Niklaus Manuel Deutsch.

Un focolare di tardo m particularmente brillante si costituì a Praga alla corte di Rodolfo II, che sull’esempio di Francesco I seppe riunire artisti di prestigio e una ricchissima collezione.
Il bizzarro, l’erotico, il prezioso vennero qui apprezzati ancor più che a Fontainebleau, e – sotto il pennello di Spranger, Heintz, Hans van Aachen – giungono a vertici di seduzione talvolta un po’ ostentata: i loro risultati erano stati preparati dalle esperienze di Karel van Mander e di Speckaert a Roma. È tuttavia innegabile che davanti alle loro opere si resta soggiogati da una qualità di invenzione che annuncia il barocco e il rococò e dalla ineguagliabile raffinatezza dell’esecuzione (Spranger, Ercole e Onfale: Vienna, km).