5/13/2020

Caravaggio (Michelangelo Merisi, detto il) (Milano 1571 - Porto Ercole 1610)

La vita avventurosa, i litigi, le violenze, i processi, le fughe, la morte solitaria sulla spiaggia della Feniglia quando, prigioniero, tornava a Roma da Napoli; questi e altri dati biografici hanno contribuito a colorire di tinte romanzesche la figura di C. Intrecciando all’analisi dell’artista quella dell’uomo, la critica ha contribuito, fino almeno ai primi del Novecento, a dar vita all’immagine di C pittore ribelle, artista maledetto ed emarginato; il carattere rivoluzionario della sua arte, e polemico rispetto alla tradizione stilistica precedente, ha offerto il supporto a questa visione romanzata ed ha altresí provocato il silenzio o lo sfavore della critica classicista di Sei e Settecento. Ancora tra i suoi contemporanei l’artista godette di fama, e quando ancora il fenomeno C non poteva essere ignorato ma semmai criticato o minimizzato, troviamo le biografie estremamente accurate, quanto per lo piú tendenziose, di Baglione, Mancini e Bellori. Queste sono per noi la massima fonte di notizie sull’artista, ma anch’esse hanno contribuito a un’interpretazione scorretta della sua arte. Segue, nel XVII e XVIII sec., un ostinato silenzio; bisognerà attendere il 1951 perché l’attenzione di critica e pubblico si rivolga nuovamente all’artista: è questo l’anno della mostra dedicata a C e ai suoi seguaci, organizzata da R. Longhi, e al critico spetta il merito di aver nuovamente riaperto il capitolo sull’artista in termini nuovi, analizzando con passione e attenzione il problema del suo catalogo, della sua vicenda biografica, della sua formazione artistica, individuando e raggruppando tutta una serie di opere e copie fino ad allora sconosciute. Da quella data ad oggi le ricerche sono state proseguite con fervore e numerosi contributi critici hanno concorso a delimitare con sempre maggior nettezza sia il catalogo delle opere dell’artista sia la loro interpretazione.


La formazione

Michelangelo Merisi nasce nel 1571 (e non nel 1573 come finora si era creduto) con probabilità a Milano (Cinotti) e non a Caravaggio dove si trasferí con la famiglia nel 1578. Nel 1584 entra come apprendista, a Milano, nella bottega di Simone Peterzano che si impegna a tenerlo presso di sé per quattro anni. Nel maggio del 1592 il Merisi (allora ventenne) risulta ancora a Caravaggio e dunque la sua partenza per Roma (di cui riferisce il Mancini) dovette avvenire non prima della fine del ’92. In questi primi anni di apprendistato è probabile che il giovane C non si limitasse a seguire il Peterzano, ma girasse anche per i territori lombardi spingendosi fino in Veneto e osservasse le opere di Lotto, i bresciani Moretto e Romanino, Pordenone; e forse già a questi anni risalgono i primi contatti con gli ambienti religiosi riformati lombardi.

Il primo periodo romano

I primi anni a Roma (1593-95) vedono C alle prese con un difficile inserimento nell’ambiente artistico e delle committenze della città. I biografi parlano di un periodo di miseria in cui l’artista si prova a risiedere dapprima presso monsignor Pandolfo Puci di Recanati, per il quale eseguí alcune «copie di devozione»; quindi passò a bottega di un capocciante, Lorenzo Siciliano, facendovi «teste per un grosso l’una», mentre, una volta trasferitosi presso Antiveduto Grammatica, si mise a dipingere «mezze figure»; ancora un cambio di residenza, questa volta presso il piú noto Cavalier d’Arpino, da cui «fu applicato a dipinger fiori e frutti». Dopo un altro breve spostamento in casa di monsignor Fantin Petrignani, finalmente, nel 1595, incontra il pittore Prospero Orsi che lo introdurrà presso il cardinal Del Monte, suo primo importante committente. Dietro al quadro cosí desolante tramandato dai biografi e al poco conto che questi sembrano attribuire alle prime prove romane del Merisi, si cela in realtà una certa reticenza a considerare quadri che, per soggetto e stile, dovevano già apparire come fortemente innovativi, soprattutto se si tiene presente il carattere decorativo, celebrativo e accademico dell’arte ufficiale romana del tempo. Poche sono le opere rimasteci di questo periodo e la maggior parte di esse pone problemi di critica: ormai comunemente accettate come autografe il Giovane con canestra di frutta (Roma, Gall. Borghese; datata, in base all’inventario dei dipinti sequestrati al Cavalier d’Arpino, al periodo di permanenza del Merisi nella bottega del pittore) e il Bacchino malato (Roma, Gall. Borghese; restituito a C dal Longhi e identificato come possibile autoritratto del pittore dopo la degenza presso l’ospedale della Consolazione), piú problematiche risultano il Fanciullo che monda la pera (di cui si conoscono diverse copie di un originale oggi perduto), il Fanciullo morso da un ramarro (anch’esso noto attraverso copie) e il Giovane con i fiori (risultante nell’inventario Borghese del 1693, oggi perduto).

In queste prime opere C, pur poggiando saldamente sulla sua formazione lombarda, procede a uno stravolgimento delle ormai canoniche classificazioni accademiche in merito ai temi e al modo di trattarli, per concentrarsi, con un’energia del tutto nuova, su pochi elementi tratti dalla realtà. Nasce cosí la metafora dello specchio, di una pittura cioè «come specchio della realtà o, per converso, la realtà vista allo
specchio da un occhio che sa inclinarlo quanto occorra al sentimento dell’ora» (Longhi), ovvero di una realtà che il pittore non si limita a copiare ma in cui esso stesso si specchia caricandola, pur nel fermo proposito di rimanere fedele al vero, di valenze simboliche e riferimenti culturali. E che dietro all’attenzione quasi allucinata che il pittore dedica anche ai piú piccoli particolari di quella verità, debbano esservi un movente ideologico e una volontà morale, è idea su cui la critica recente è piú volte tornata, sfatando il presunto carattere popolare e ingenuo di questa prima produzione.

Cosí, in opere come il Bambino malato e il Fanciullo morso da un ramarro, sono stati messi in evidenza i riferimenti alla statuaria classica o alla teoria degli affetti particolarmente diffusa al Nord. Piú in generale tutta la prima produzione è stata letta in chiave simbolica: come allegoria dei sensi (Spear), come riflessione morale (Salerno), come allegoria cristologica e dell’amore divino in riferimento al Cantico dei Cantici (Calvesi); o infine vi si è visto il preciso intento, da parte del Merisi, di riportare ad un tono medio soggetti solitamente trattati in toni sublimi e idealizzati (Gregori). Nel 1595-96 si colloca una svolta importante per la vita e l’arte del C: a questa data il pittore viene infatti introdotto, tramite l’amico Prospero Orsi, presso Francesco Maria del Monte, nel palazzo del quale si trasferirà, abitandovi per alcuni anni.

Nel cardinale egli trovò un protettore di profonda cultura, un uomo influente e ben inserito negli ambienti politici e religiosi del tempo, capace di introdurlo in una cerchia di committenti e protettori che rimarrà di fondamentale importanza per lo sviluppo culturale e artistico del pittore. Ma soprattutto nel Del Monte C trovò un appassionato intenditore d’arte e un importante collezionista. In base all’inventario della sua collezione pubblicato dal Frommell, conosciamo con esattezza le opere del Merisi da questi possedute: otto, di cui cinque certamente eseguite nel periodo giovanile: il Concerto di giovani (New York, mma), il Suonatore di liuto (Leningrado, Ermitage), San Francesco che riceve le stimmate (Hartford, Wadsworth Atheneum), i Bari (Forthworth Tex., Kimbell Art Museum) e la Buona ventura (due versioni di cui una a Roma, Pinacoteca Capitolina, e l’altra, forse di poco successiva, a Parigi, Louvre).

Le opere di questo periodo rivelano un progressivo sviluppo dell’arte di C che, sotto gli stimoli culturali del suo committente, tende progressivamente ad una maggior complessità di temi e ad uno stile piú idealizzante. Su una matrice ancora fortemente lombarda (Moretto, Savoldo e Peterzano) si inseriscono spunti classicheggianti, come l’indugiare sui panneggi, l’inserimento di figure piú astratte (l’angelo del San Francesco che riceve le stimmate o l’Eros del Concerto di giovani) di una bellezza efebica (Suonatore di liuto). Parallelamente vengono proposte tematiche piú elaborate: soggetti espressamente allegorici (il Concerto di giovani che, con l’introduzione di Eros, si lega al binomio amore-musica di ascendenza veneta), la tematica musicale (ancora il Concerto di giovani e il Suonatore di liuto) e, per la prima volta, un soggetto religioso (San Francesco che riceve le stimmate; infine, nella Buona ventura e nei Bari, l’artista affronta scene piú com- plesse in cui alla tranche de vie si accompagna un più sottile studio psicologico. Ancora per il Del Monte dipinse, secondo la testimonianza del Bellori, il soffitto del Casino nel Giardino Ludovisi, utilizzato dal cardinale per esperimenti scientifici e alchemici. Il dipinto (ad olio su muro), rappresentante Giove, Nettuno e Plutone, per il cattivo stato di conservazione ha posto problemi alla critica che non è unanime nel riconoscervi l’autografia caravaggesca; propendono per un’attribuzione al C: M. Calvesi che, in relazione alla funzione del Casino e agli interessi scientifici del cardinale, ne dà una lettura in chiave alchemica; M. Gregori, che vi riconosce l’influsso della formazione lombarda; Spezzaferro, che lo pone in relazione agli studi prospettici coltivati dal Del Monte e dal fratello Guidobaldo; Salerno.

Capolavoro del periodo giovanile è il Bacco (Firenze, Uffizi); il quadro venne riscoperto dal Longhi che lo datò tra le prime opere del C, mentre il Mahon lo considerò opera che apre la fase matura del pittore (1595-96 o ’96-97); quest’ultima datazione è per lo piú seguita dalla critica odierna (Frommell suppone che il quadro provenisse originariamente dalla collezione Del Monte). Come nelle opere precedenti, C parte da un’osservazione realistica del suo modello, dalle guance paonazze e dalle unghie sporche, indugia sulla natura morta in primo piano descrivendo con minuzia le diverse qualità della frutta, le mele bacate, le foglie secche; ma accanto a questa fedeltà al vero emerge una spinta idealizzante che si risolve attraverso il riferimento alla statuaria classica; cosicché le fattezze molli ed efebiche del giovane Dioniso, piú che da intendersi come allusioni a messaggi omoerotici, possono essere paragonate a rappresentazioni del dio di età tardoantica. La tensione idealizzante si accompagna a una carica simbolica riassunta in quel gesto di offrire il calice che ha fatto supporre un riferimento al sincretismo paleocristiano tra iconografia dionisiaca e quella del Cristo redentore (Calvesi, 1971). Ancora chiaramente decifrabile, in quest’opera, è l’influenza della formazione bresciana, soprattutto nella resa plastica ottenuta con il ricorso a forti contrasti di colore e nella luce morbida che avvolge i corpi e le cose e li modella:
caratteristica, questa, propria di tutte le opere giovanili del Merisi.

«Da cui [il d’Arpino] fu applicato a dipinger fiori e frutti sì bene contraffatti, che da lui vennero a frequentarsi à quella maggior vaghezza, che tanto oggi diletta». Di questa produzione giovanile di nature morte non ci resta nulla se si eccettuano i tre quadri (due a Roma, Gall. Borghese, e uno a Hartford, Wadsworth Atheneum) raggruppati da F. Zeri in base all’inventario dei dipinti sequestrati al d’Arpino e sui quali tuttavia la critica è divisa (alcuni studiosi propendono per un’attribuzione all’Accademia dei Crescenzi; le tre Nature morte sono state esposte nel 1985, con incerta attribuzione al C, nella mostra The Age of Caravaggio: New York, mma). Documento certo e straordinario di questa attività dell’artista è la Canestra di frutta (Milano, Ambrosiana), opera appartenuta a F. Borromeo (menzionata nel codicillo testamentario del 1607 e descritta nell’atto di donazione della raccolta all’Ambrosiana) che probabilmente la acquistò direttamente dal C e non, come prima si credeva, tramite il Del Monte (la lettera comprovante il dono da parte dei Del Monte si riferiva in realtà ad orologi; d’altra parte il Borromeo era presente a Roma fino al 1601 (Calvesi, 1973)). Il genere della natura morta, di origine nordico-fiamminga, si andava diffondendo in Italia (particolarmente al Nord), trovando proprio nel Borromeo e Del Monte due appassionati sostenitori. Tuttavia, rispetto ai prototipi nordici, la Canestra di C possiede una prodigiosa sinteticità di visione, lo stile e la composizione ne fanno un «ritratto» di pari dignità con rappresentazioni di personaggi («e il C disse che tanta manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure», scrive il Bellori). La visione lenticolare dei particolari non diviene mai descrizione grazie a una studiatissima composizione che si fonda su contrapposizioni di colori; la natura, colta nella sua flagrante realtà, rivela se stessa e il significato simbolico di cui è investita.

Tra il 1598 e il 1599 C vede allargarsi notevolmente il giro delle sue committenze, è in questi anni che riceve i primi incarichi importanti e la sua fama comincia a circolare tra gli ambienti romani. Le opere di questo periodo non rivelano un percorso coerente ma sperimentazioni diverse in concomitanza con prove che vedono l’artista impegnato in composizioni piú complesse. Accanto a quadri ancora di soggetto mitologico (la Medusa (Firenze, Uffizi), opera appartenuta al Del Monte che ne fece dono al granduca di Toscana, e Narciso (Roma, gnaa), opera ignorata dalle fonti e restituita al C dal Longhi ma di
discussa attribuzione) il pittore affrontò la sacra rappresentazione (Riposo dalla fuga in Egitto: Roma, Gall. Doria) e il quadro d’azione (Giuditta che decapita Oloferne (Roma, gnaa), da identificarsi con un quadro eseguito per O. Costa).

In quadri come il Riposo dalla fuga in Egitto (in cui piú volte è stata sottolineata l’ascendenza lombarda e lottesca e sono stati individuati rapporti con opere di Annibale Carracci e J. Caraglio), la Maddalena penitente (Roma, Gall. Doria) e Narciso prevale l’intonazione malinconica e meditativa, sottolineata dalle figure rinchiuse in un circolo, come assorte in un dialogo silenzioso con se stesse e dalla luce che
le illumina fino a raggiungerle nello spirito. Nella Medusa e nella Giuditta, invece, il dramma esplode in una mimica espressiva, nell’azione violenta, colta al suo culmine, e annuncia quella tematica «dell’urlo» che troverà sviluppo nelle opere seguenti. Opera ancora tra il sacro e il profano è il San Giovanni Battista (Roma, Pinacoteca Capitolina; eseguito per Ciriaco Mattei), dove il soggetto religioso viene trattato
con estrema sinteticità di simboli (tanto che alcuni critici hanno voluto addirittura mettere in dubbio che si tratti di un soggetto sacro), mentre su tutto prevale un senso di letizia fisica e spirituale. Tenendo presenti alcune peculiarità stilistiche, come la presenza di moduli manieristici (il ricordo degli ignudi michelangioleschi) e l’ispessirsi della zona d’ombra (quell’ingagliardirsi degli scuri, come lo definí il Bellori), l’opera è solitamente datata al 1599-1600, in prossimità dei laterali di San Luigi dei Francesi.

Le grandi commissioni sacre

Nel luglio del 1599, probabilmente per intercessione del suo potente protettore, C riceve la commissione dei due quadri laterali per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi; nel dicembre 1600 le due grandi tele, rappresentanti la Vocazione di san Matteo (a destra) e il Martirio di san Matteo (a sinistra), erano già collocate sul posto. Nella Vocazione C mette in scena, quasi tra quinte di teatro, alcuni gabellieri intenti a contare il denaro, mentre sulla destra, accompagnato da un forte fascio di luce – luce di grazia e salvazione – fa ingresso il Cristo e al suo seguito san Pietro che ne ripete il gesto solenne di chiamata (esami radiografici hanno dimostrato che la figura del santo, simbolo della Chiesa portatrice della parola di Cristo e della grazia divina, fu aggiunta dall’artista in un secondo momento). Il Martirio ebbe, come testimoniano gli esami radiografici, un’esecuzione piú elaborata in successive redazioni fino a quella finale in cui l’artista riuscì a comporre mirabilmente la concitazione dei fedeli radunati nella chiesa, con il dramma in fieri dell’uccisione del santo. Gli astanti si ritraggono ai lati del quadro mentre la scena di martirio è collocata al centro e illuminata da una luce intensa che colpisce san Matteo e si riflette sul corpo del suo carnefice. Servendosi di numerosi suggerimenti tratti da quadri di Tintoretto, Annibale Carracci, Raffaello e Michelangelo, il pittore dà vita ad una composizione macchinosa in cui vengono rielaborati e assimiliati moduli manieristici.

Piú complessa la vicenda della pala d’altare della Cappella, con San Matteo e l’angelo, di cui C eseguì due differenti versioni (la prima acquistata dal marchese Giustiniani, già a Berlino, è andata distrutta). I documenti infatti non parlano delle due diverse versioni, ma semplicemente riferiscono della decisione presa dagli esecutori testamentari del Contarelli di sostituire la statua del San Matteo di J. Colabaert con un dipinto del C (febbraio 1602) e del saldo al pittore avvenuto nel settembre 1602. In base a questi dati la critica non è concorde nella datazione del primo San Matteo (il Longhi lo datava agli anni giovanili, 1602 per la Cinotti, 1600-1601 per Calvesi, 1599 per Spezzaferro), mentre certamente il secondo fu eseguito nel 1602. La vicenda della prima versione è riferita dal Bellori, che la pone a capo di tutta una serie di opere rifiutare al pittore a causa della loro presunta indecorosità; nel San Matteo, in particolare, avevano offeso i tratti rudi e contadineschi della figura «che non haveva aspetto di santo». Rispetto alla seconda versione il quadro di Berlino pone l’accento sull’origine umile dell’Evangelista analfabeta che guarda con meraviglia la sua mano, materialmente guidata dall’angelo, scrivere i versi ebraici del Vangelo. Nella redazione definitiva, invece, viene piuttosto sottolineata – mediante il computo digitale dell’angelo – la priorità del vangelo di Matteo rispetto a quelli successivi; allo stile plastico ed energico della prima invenzione succedono un’intonazione piú classicista, uno stile piú composto e ufficiale ma anche piú freddo. Appena terminati i laterali di San Luigi, nel settembre 1600, il Merisi riceve un secondo incarico importante: i due dipinti (Crocefissione di san Pietro e Caduta di Saulo) per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo. La commissione riguardava due tavole mentre i due quadri, consegnati già nel novembre 1601, sono eseguiti su tela.

Nell’arco di un anno C eseguì quindi due versioni dello stesso soggetto (le prime, su tavola, vennero rifiutate – secondo Mancini – e ritirate dal cardinal Sannesio). La prima redazione della Caduta di Saulo (coll. Odescalchi-Balbi; attribuita a C da Argan e in cui alcuni critici hanno visto un’opera giovanile indipendente dai laterali della Cappella Cerasi) fu rifiutata forse per quel precipitarsi troppo ardito del Cristo
in carne ed ossa sul corpo del Santo; essa presenta, soprattutto se confrontata con quella definitiva, uno stile ancora legato alle esperienze giovanili (nel suo carattere marcatamente lombardo) e, allo stesso tempo, il ricorso a moduli manieristici che l’avvicinano al Martirio di san Matteo. I due quadri oggi nella cappella segnano un ulteriore sviluppo nel percorso artistico del C, pienamente risolta vi appare la tematica luministica avviata nei quadri precedenti, di una luce simbolica e rivelatrice. La composizione, rigidamente impostata su diagonali, blocca il dramma colto nel suo momento culminante.

Intorno a questi due altissimi capolavori la critica ha radunato una serie di opere in cui si riflette ili segno della maturità stilistica dell’artista: al periodo della Cappella Contarelli (per analogie con il primo San Matteo) se non prima, al 1600 è datata la Cena in Emmaus (Londra, ng) nella quale il Cristo risorto appare nell’inconsueta iconografia, di ascendenza lombarda, di giovane imberbe, con probabile allusione alla vita eterna di cui è promessa. Al 1603 ca., in base a documenti, risalirebbe invece il Sacrificio di Isacco (Firenze, Uffizi) mentre certamente tra il 1602 e il 1603 si colloca l’Amore vittorioso (Berlino, Staatliches Museum, eseguito per il marchese Giustiniani). Si tratta ancora di un’immagine di letizia, come già nel San Giovannino, di una letizia pagana questa volta (tanto da essere stato per questo variamente interpretato come «amore profano» o «amore virtuoso»).

Ormai la fama di C è al suo culmine e un nuovo contributo ad essa è dato dalla Deposizione (1602-1604: Roma, pv) che l’artista eseguì per la chiesa degli oratoriani di Santa Maria in Vallicella, su commissione di Pietro Vittrice. Nell’opera sono riassunte e massimamente espresse le caratteristiche dello stile maturo del C (avviatosi nei laterali di San Luigi ma ancor piú in quelli della Cappella Cerasi): vi si ritrova il movimento bloccato dagli assi della composizione in scorci arditi, l’evidenza plastica dei corpi e delle cose che emergono dal buio in toni accesi di colore, l’invenzione infine di un nuovo classicismo fatto di essenzialità e di una solennità che nasce dalla realtà stessa, nel momento in cui questa viene rivelata dalla luce (l’armonia di quest’opera strappò parole di lode persino all’intransigente Bellori). E ancora una volta si tratta di una realtà fatta di sentimenti e affetti studiatissimi e di significati non allusi o sottintesi ma semplicemente riassunti nel pietrone su cui poggia l’intero gruppo – la pietra su cui nascerà la Chiesa – e che la mano di Cristo sembra indicare.

Tra il 1603 e 1605 si distribuiscono una serie di opere di difficile ricostruzione critica: al 1603 è solitamente datato il San Francesco in meditazione (in relazione al prestito di un saio fatto al pittore dal Gentileschi; la critica è tuttavia divisa nell’attribuire l’autografia all’esemplare di Roma – Santa Maria della Concezione – o a quello di Carpineto Romano). Il motivo della malinconica meditazione sul tema del memento mori viene riaffrontato anche nel San Gerolamo penitente (Barcellona, Museo di Monserrat; di attribuzione non concordemente accettata, datato al 1605-1606 ca.) e nel San Gerolamo scrivente (Roma, Gall. Borghese; di uguale datazione). Lo stesso sentimento prevale anche nel San Giovanni Battista (1603 ca.: Roma, gnaa), mentre si fa drammatico, per il violento contrasto chiaroscurale, nel San Giovanni Battista di Kansas City (am). Intorno al 1604-1605 (come risulta da documenti recentemente rinvenuti da R. Barbiellini Amidei) C eseguí per il monsignor Massimi un’Incoronazione di spine (identificata da M. Gregori con il quadro oggi a Prato, Cassa di Risparmio e Depositi) e un Ecce Homo (con probabilità si tratta del dipinto reso noto dal Longhi; Genova, Galleria comunale di palazzo Rosso; due versioni di un diverso Ecce Homo in collezioni romane sono forse derivate da una successiva versione eseguita sempre per il Massimi (Calvesi)).

L’ultima fase romana e la fuga

Seguono, improvvisi, anni difficili per il pittore che vede le sue opere criticate e rifiutate; viene coinvolto in un’aggressione; e, infine, l’uccisione di un avversario al gioco gli procura la condanna capitale e lo costringe a una precipitosa fuga da Roma (29 maggio 1606). Entro il marzo 1606 C aveva eseguito la Madonna di Loreto (iniziata forse già nel 1604 quando il pittore è documentato nelle Marche, a Tolentino) per la Cappella Cavalletti in Sant’Agostino. La Madonna, di una bellezza statuaria, appare sulla soglia della sua casa offrendo se stessa e il Bambino all’adorazione dei due umili pellegrini; la sua figura che emerge dall’ombra sembra quasi quella di «un’antica statua che, al calore di quell’umile devozione, si stia rincarnando e facendosi viva» (Longhi). La scelta tematica doveva risultare ardita: il pittore sembra infatti invitarci ad osservare l’evento sacro con gli occhi un po’ stupiti dei fedeli piú poveri, a sentire la sua religiosità attraverso e in comunione con quei due pellegrini dai piedi sporchi. E le critiche
questa volta non furono risparmiate; puntualmente registrate dal Bellori esse si appuntavano sui piedi fangosi dei due devoti, sui loro abiti sdruciti: «e per queste leggerezze in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, dè popolani ne fu fatto estremo schiamazzo». Ma la pala piacque ai committenti che nel marzo del 1606 la collocarono sull’altare della cappella.

Diversa fu la vicenda delle due opere seguenti: la Madonna dei palafrenieri e la Morte della Madonna. La prima, eseguita per l’altare di Sant’Anna dei Palafrenieri in San Pietro (1605-1606; oggi a Roma, Gall. Borghese), rimase nella basilica per soli due giorni, dopo i quali venne ritirata per passare ben presto nella collezione del cardinal Borghese. La Morte della Madonna (Parigi, Louvre), eseguita per la Cappella Cherubini in Santa Maria della Scala poco prima della fuga da Roma, inaugura una nuova fase della pittura di C destinata e svilupparsi nelle opere successive del periodo napoletano. Il corpo della Vergine, disteso su una semplice tavola, è attorniato dagli apostoli e dalla Maddalena, ritratti in diverse espressioni di dolore (in cui è ancora uno studio sulla resa degli affetti); il grande spazio lasciato vuoto, nella parte superiore del quadro, e il rosso fiammeggiante del drappo, amplificano l’effetto corale della scena. La pala fu immediatamente respinta dal clero perché «aveva fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe scoperte» (Baglione) o per «havervi troppo imitato una Donna morta gonfia» (come riferisce ancora una volta il Bellori).

I due rifiuti, a parte la pretesa mancanza di decoro addotta dai biografi, sono indice di un clima fattosi ostile intorno al pittore (probabilmente anche in seguito all’elezione del nuovo papa Paolo V, di orientamenti religiosi ostili nei confronti delle correnti riformistiche e pauperistiche a cui C era invece legato) e che, a seguito dell’omicidio di cui questi si rese colpevole, divenne in breve insopportabile, tanto da costringerlo a riparare nei feudi Colonna a Zagarolo. A poco prima della fuga o subito dopo (poiché le fonti la dicono inviata da Zagarolo al marchese Patrizi) risale la Cena in Emmaus (Milano, Brera) in cui viene ripreso lo schema compositivo di quella giovanile di Londra, ma con differenze stilistiche che la datano a questi ultimi momenti romani. Certamente al periodo del soggiorno presso i Colonna è databile la Maddalena in estasi (citata dalle fonti e di cui si conoscono numerose copie di un originale perduto).

Il primo soggiorno napoletano

A fine 1606 C prende la via di Napoli; appena giunto nella città, già nel settembre 1606 l’artista pone mano alla grande pala delle Sette opere di Misericordia (Napoli, Pio Monte della Misericordia) portandola a compimento in breve tempo (gennaio 1607). Il tema vi viene affrontato seguendo un’iconografia laica, di origine medievale (di piú larga diffusione al Nord) in cui le sette opere vengono riunite in un’unica scena. Il complesso problema iconografico e compositivo, che richiedeva il rispetto delle tre unità di luogo tempo e azione, viene risolto dall’artista riunendo in un vicolo buio di Napoli un’umanità tutta intenta a sostenersi pietosamente e rivelandola con la violenta illuminazione della luce divina. In alto, separata dagli uomini ma partecipe delle loro vicende, la divinità si fa presente con l’apparizione della Madonna (aggiunta in un secondo tempo), accompagnata dal vorticoso volteggiare e dallo sbatter d’ali degli angeli. Su tutto prevale un profondo senso di compassione umana e religiosa, su cui si proietta
probabilmente la stessa vicenda biografica dell’artista desideroso di redimersi dal suo peccato attraverso le buone opere, secondo l’insegnamento della Chiesa.

Poco documentata è invece un’altra grande pala del periodo napoletano (ma secondo alcuni iniziata già negli ultimi anni romani (Hinks, 1953); o a Zagarolo (Hess, 1954). Friedländer e Hinks supponevano
che l’opera rimanesse incompiuta e venisse terminata da altri con l’aggiunta del ritratto del donatore): la Madonna del Rosario. Destinata ad una chiesa dell’ordine domenicano (vista la presenza dei santi Domenico e Pietro Martire; probabilmente per San Domenico Maggiore a Napoli dove i Carafa-Colonna, protettori del C, avevano una loro cappella (Calvesi, 1985, l’opera venne in seguito acquistata per la chiesa di San Paolo ad Anversa, su iniziativa di un gruppo di pittori tra i quali Rubens. Come nella Madonna di Loreto la Vergine appare ritratta con le fattezze di un simulacro, ma tra di essa e la folla di fedeli (per i quali C ricordò l’Elemosina di sant’Antonio del Lotto) si interpongono i due santi domenicani, rappresentanti della Chiesa mediatrice della grazia. Ancora al primo periodo napoletano risalgono: la Flagellazione (Napoli, Capodimonte) eseguita nel 1607 per San Domenico Maggiore, e per la quale il pittore si ispirò a modelli romani (Sebastiano del Piombo in San Pietro in Montorio e Peterzano in Santa Prassede); il David di Vienna (km, di discussa attribuzione e datazione) e la Salomè di Londra.

Malta

A fine 1607 C lascia Napoli per Malta: nell’isola cercava un rifugio alla persecuzione della legge e sperava in riconoscimenti ufficiali. Con questa speranza in animo il pittore si mise a dipingere il Ritratto di Adolf de Wignacourt, gran maestro dell’ordine dei Cavalieri di Malta, opera che gli valse il conferimento del cavalierato (cfr. Baglione e Bellori, che parla di due ritratti). Uno dei due ritratti è stato identificato con quello oggi a Parigi, Louvre (Dobson e Friedländer). Il carattere rigido della composizione e l’anacronismo dell’armatura di foggia superata (risalente agli anni 1570-80) ha tuttavia indotto alcuni critici a contestarne l’attribuzione, mentre altri lo riconducono al carattere celebrativo e ufficiale del dipinto, forse destinato a commemorare una vittoria militare. Per il secondo ritratto citato dal Bellori è stata proposta invece l’identificazione con quello conservato a Firenze (Pitti; cfr. Gregori). I tratti somatici del gran maestro si ritrovano anche nel San Gerolamo della Valletta (Cattedrale), sintetica e drammaticissima immagine del santo scrivente, illuminato da una luce che piú che modellare sembra quasi mangiarne la figura. Con la Decollazione del Battista (eseguita per la Compagnia della Misericordia di San Giovanni; oggi alla Valletta, Cattedrale) C tocca l’apice di questa drammaticità; il tragico evento si svolge in uno spazio chiuso e immoto, portato a compimento dai gesti meccanici e come bloccati degli esecutori. Esso è presentato dall’artista in tutta la sua brutalità, senza alcuna risonanza emotiva; cosicché la firma del pittore, ottenuta con il fiotto di sangue sgorgante dal capo del Battista, assume il ruolo sinistro di commento e manifesta la piena identificazione del Merisi che nel quadro rispecchia la sua personale vicenda. Ad analogo clima emotivo si ricollega l’Amorino dormiente (Firenze, Pitti) in cui il soggetto pagano è volto in cupo e serio memento mori (Cinotti). Ma anche a Malta la fortuna del C cessa bruscamente a causa di problemi con la giustizia (un diverbio con un «cavaliere di giustizia» secondo i biografi, ma forse l’arrivo, nell’isola, della notizia del bando capitale al quale era condannato). Incarcerato nello stesso anno in cui aveva ricevuto le piú alte onorificenze, il pittore fugge alla volta della Sicilia.

In Sicilia

Il periodo siciliano (1608-1609) è caratterizzato da continui spostamenti di città in città durante i quali riesce ad eseguire quattro pale: il Seppellimento di santa Lucia (Siracusa, Santa Lucia), la Resurrezione di Lazzaro (per la chiesa dei crociferi di Messina; oggi a Messina, mn), l’Adorazione dei pastori (ivi; per la chiesa dei cappuccini di Messina) e la Natività. Nel Seppellimento di santa Lucia e nella Resurrezione di Lazzaro (oggi molto rovinati) viene portato fino alle estreme conseguenze lo stile già messo alla prova nella Decollazione del Battista di Malta: una fattura rapida, a tocchi e sbavature e una luce corrosiva che rileva, strappandoli al buio, solo pochissimi particolari essenziali; mentre l’accento torna, ossessivo, sull’irreversibilità della morte. Ancora due opere di ardua ricostruzione critica, e variamente riferite al periodo siciliano o già a quello maltese, sono l’Annunciazione (Nancy, mba) e il Cavadenti (Firenze, Gall. e deposito di Palazzo di Montecitorio; di discussa attribuzione, l’autografia è sostenuta decisamente dalla Gregori).

Il secondo soggiorno napoletano

«Ma per esser perseguitato dal suo nemico, convenegli tornare alla città di Napoli, e quivi ultimamente essendo da colui giunto, fu nel viso cosí fattamente ferito, che per li colpi quasi non si riconosceva»
(Baglione). Alla fine dell’estate del 1609 C riprende dunque la via di Napoli con lo stato d’animo del fuggiasco braccato; ma qui non tardano a raggiungerlo i sicari che lo feriscono gravemente (questi sono stati identificati dai biografi antichi negli emissari dell’ordine maltese; di recente è stata fatta l’ipotesi che il Merisi fosse stato raggiunto e fatto prigioniero dagli Spagnoli; con un’imbarcazione spagnola – una feluca –, infatti, egli venne portato a Porto Ercole poco prima di morire (Calvesi, 1985)). Le notizie biografiche e i documenti sulle opere di questo periodo si fanno sempre piú confusi: la «mezza figura di Erodiade con la testa di Battista» citata dal Bellori (che la dice eseguita per il gran maestro di Malta, forse per sollecitarne il perdono) è stata identificata con la Salomè di Madrid (Palazzo reale); certamente al secondo periodo napoletano appartiene il David (Roma, Gall. Borghese), quadro in cui si specchia, in toni cupi e allucinati, il dramma personale dell’artista (che si ritrasse nelle sembianze di Golia) e in cui si riconosce il caratteristico stile dell’ultimo C. Al maggio 1606 è documentato il Martirio di sant’Orsola (Napoli, Banca Commerciale); infine, il San Giovanni Battista che C portò con sé nel suo viaggio di ritorno verso Roma, e che il vicerè di Napoli rivendicò dopo la morte del pittore, è solitamente identificato, per ragioni stilistiche, con il San Giovanni Battista della Gall. Borghese.

Opera di discussa datazione è invece la Crocifissione di sant’Andrea (Cleveland, am; datata da alcuni al primo, da altri al secondo periodo napoletano). Cupe e drammatiche, caratterizzate tutte da una meditazione disperata sulla morte, queste ultime opere sembrano accompagnare i tormenti esistenziali dell’artista e preannunciarne il triste destino: nel luglio 1610, mentre tornava a Roma sperando nella grazia (possibile per l’intercessione del cardinale F. Gonzaga), durante una sosta a Porto Ercole, C muore; la grazia arriverà, ma troppo tardi.