La vita avventurosa, i litigi, le violenze, i processi, le
fughe, la morte solitaria sulla spiaggia della Feniglia quando,
prigioniero, tornava a Roma da Napoli; questi e altri dati
biografici hanno contribuito a colorire di tinte romanzesche
la figura di C. Intrecciando all’analisi dell’artista quella
dell’uomo, la critica ha contribuito, fino almeno ai primi
del Novecento, a dar vita all’immagine di C pittore ribelle,
artista maledetto ed emarginato; il carattere rivoluzionario
della sua arte, e polemico rispetto alla tradizione stilistica
precedente, ha offerto il supporto a questa visione romanzata
ed ha altresí provocato il silenzio o lo sfavore della critica
classicista di Sei e Settecento. Ancora tra i suoi contemporanei
l’artista godette di fama, e quando ancora il fenomeno
C non poteva essere ignorato ma semmai criticato
o minimizzato, troviamo le biografie estremamente accurate,
quanto per lo piú tendenziose, di Baglione, Mancini e
Bellori. Queste sono per noi la massima fonte di notizie
sull’artista, ma anch’esse hanno contribuito a un’interpretazione
scorretta della sua arte. Segue, nel XVII e XVIII sec.,
un ostinato silenzio; bisognerà attendere il 1951 perché l’attenzione
di critica e pubblico si rivolga nuovamente all’artista:
è questo l’anno della mostra dedicata a C e ai suoi seguaci,
organizzata da R. Longhi, e al critico spetta il merito
di aver nuovamente riaperto il capitolo sull’artista in termini
nuovi, analizzando con passione e attenzione il problema
del suo catalogo, della sua vicenda biografica, della sua formazione
artistica, individuando e raggruppando tutta una
serie di opere e copie fino ad allora sconosciute. Da quella
data ad oggi le ricerche sono state proseguite con fervore e
numerosi contributi critici hanno concorso a delimitare con
sempre maggior nettezza sia il catalogo delle opere dell’artista
sia la loro interpretazione.
La formazione
Michelangelo Merisi nasce nel 1571 (e non
nel 1573 come finora si era creduto) con probabilità a Milano
(Cinotti) e non a Caravaggio dove si trasferí con la famiglia
nel 1578. Nel 1584 entra come apprendista, a Milano,
nella bottega di Simone Peterzano che si impegna a tenerlo
presso di sé per quattro anni. Nel maggio del 1592 il
Merisi (allora ventenne) risulta ancora a Caravaggio e dunque
la sua partenza per Roma (di cui riferisce il Mancini) dovette
avvenire non prima della fine del ’92. In questi primi
anni di apprendistato è probabile che il giovane C non si limitasse
a seguire il Peterzano, ma girasse anche per i territori
lombardi spingendosi fino in Veneto e osservasse le opere
di Lotto, i bresciani Moretto e Romanino, Pordenone; e
forse già a questi anni risalgono i primi contatti con gli ambienti
religiosi riformati lombardi.
Il primo periodo romano
I primi anni a Roma (1593-95) vedono
C alle prese con un difficile inserimento nell’ambiente
artistico e delle committenze della città. I biografi parlano
di un periodo di miseria in cui l’artista si prova a risiedere
dapprima presso monsignor Pandolfo Puci di Recanati,
per il quale eseguí alcune «copie di devozione»; quindi
passò a bottega di un capocciante, Lorenzo Siciliano, facendovi
«teste per un grosso l’una», mentre, una volta trasferitosi
presso Antiveduto Grammatica, si mise a dipingere
«mezze figure»; ancora un cambio di residenza, questa
volta presso il piú noto Cavalier d’Arpino, da cui «fu applicato
a dipinger fiori e frutti». Dopo un altro breve spostamento
in casa di monsignor Fantin Petrignani, finalmente,
nel 1595, incontra il pittore Prospero Orsi che lo introdurrà
presso il cardinal Del Monte, suo primo importante committente.
Dietro al quadro cosí desolante tramandato dai
biografi e al poco conto che questi sembrano attribuire alle
prime prove romane del Merisi, si cela in realtà una certa reticenza
a considerare quadri che, per soggetto e stile, dovevano
già apparire come fortemente innovativi, soprattutto
se si tiene presente il carattere decorativo, celebrativo e accademico
dell’arte ufficiale romana del tempo. Poche sono le opere rimasteci di questo periodo e la maggior parte di esse
pone problemi di critica: ormai comunemente accettate
come autografe il Giovane con canestra di frutta (Roma, Gall.
Borghese; datata, in base all’inventario dei dipinti sequestrati
al Cavalier d’Arpino, al periodo di permanenza del
Merisi nella bottega del pittore) e il Bacchino malato (Roma,
Gall. Borghese; restituito a C dal Longhi e identificato come
possibile autoritratto del pittore dopo la degenza presso
l’ospedale della Consolazione), piú problematiche risultano
il Fanciullo che monda la pera (di cui si conoscono diverse copie
di un originale oggi perduto), il Fanciullo morso da un ramarro
(anch’esso noto attraverso copie) e il Giovane con i fiori
(risultante nell’inventario Borghese del 1693, oggi perduto).
In queste prime opere C, pur poggiando saldamente sulla
sua formazione lombarda, procede a uno stravolgimento
delle ormai canoniche classificazioni accademiche in merito
ai temi e al modo di trattarli, per concentrarsi, con un’energia
del tutto nuova, su pochi elementi tratti dalla realtà. Nasce
cosí la metafora dello specchio, di una pittura cioè «come
specchio della realtà o, per converso, la realtà vista allo
specchio da un occhio che sa inclinarlo quanto occorra al sentimento
dell’ora» (Longhi), ovvero di una realtà che il pittore
non si limita a copiare ma in cui esso stesso si specchia
caricandola, pur nel fermo proposito di rimanere fedele al
vero, di valenze simboliche e riferimenti culturali. E che dietro
all’attenzione quasi allucinata che il pittore dedica anche
ai piú piccoli particolari di quella verità, debbano esservi
un movente ideologico e una volontà morale, è idea su cui
la critica recente è piú volte tornata, sfatando il presunto carattere
popolare e ingenuo di questa prima produzione.
Cosí, in opere come il Bambino malato e il Fanciullo morso
da un ramarro, sono stati messi in evidenza i riferimenti alla
statuaria classica o alla teoria degli affetti particolarmente
diffusa al Nord. Piú in generale tutta la prima produzione è stata letta in chiave simbolica: come allegoria dei sensi
(Spear), come riflessione morale (Salerno), come allegoria
cristologica e dell’amore divino in riferimento al Cantico dei
Cantici (Calvesi); o infine vi si è visto il preciso intento, da
parte del Merisi, di riportare ad un tono medio soggetti solitamente
trattati in toni sublimi e idealizzati (Gregori). Nel
1595-96 si colloca una svolta importante per la vita e l’arte
del C: a questa data il pittore viene infatti introdotto, tramite
l’amico Prospero Orsi, presso Francesco Maria del
Monte, nel palazzo del quale si trasferirà, abitandovi per alcuni
anni.
Nel cardinale egli trovò un protettore di profonda
cultura, un uomo influente e ben inserito negli ambienti
politici e religiosi del tempo, capace di introdurlo in una cerchia
di committenti e protettori che rimarrà di fondamentale
importanza per lo sviluppo culturale e artistico del pittore.
Ma soprattutto nel Del Monte C trovò un appassionato
intenditore d’arte e un importante collezionista. In base
all’inventario della sua collezione pubblicato dal Frommell,
conosciamo con esattezza le opere del Merisi da questi possedute:
otto, di cui cinque certamente eseguite nel periodo
giovanile: il Concerto di giovani (New York, mma), il Suonatore
di liuto (Leningrado, Ermitage), San Francesco che riceve
le stimmate (Hartford, Wadsworth Atheneum), i Bari
(Forthworth Tex., Kimbell Art Museum) e la Buona ventura
(due versioni di cui una a Roma, Pinacoteca Capitolina,
e l’altra, forse di poco successiva, a Parigi, Louvre).
Le opere
di questo periodo rivelano un progressivo sviluppo dell’arte
di C che, sotto gli stimoli culturali del suo committente,
tende progressivamente ad una maggior complessità di temi
e ad uno stile piú idealizzante. Su una matrice ancora fortemente
lombarda (Moretto, Savoldo e Peterzano) si inseriscono
spunti classicheggianti, come l’indugiare sui panneggi,
l’inserimento di figure piú astratte (l’angelo del San Francesco
che riceve le stimmate o l’Eros del Concerto di giovani)
di una bellezza efebica (Suonatore di liuto). Parallelamente
vengono proposte tematiche piú elaborate: soggetti espressamente
allegorici (il Concerto di giovani che, con l’introduzione
di Eros, si lega al binomio amore-musica di ascendenza
veneta), la tematica musicale (ancora il Concerto di giovani
e il Suonatore di liuto) e, per la prima volta, un soggetto
religioso (San Francesco che riceve le stimmate; infine, nella
Buona ventura e nei Bari, l’artista affronta scene piú com-
plesse in cui alla tranche de vie si accompagna un più sottile
studio psicologico. Ancora per il Del Monte dipinse, secondo
la testimonianza del Bellori, il soffitto del Casino nel
Giardino Ludovisi, utilizzato dal cardinale per esperimenti
scientifici e alchemici. Il dipinto (ad olio su muro), rappresentante
Giove, Nettuno e Plutone, per il cattivo stato di conservazione
ha posto problemi alla critica che non è unanime
nel riconoscervi l’autografia caravaggesca; propendono per
un’attribuzione al C: M. Calvesi che, in relazione alla funzione
del Casino e agli interessi scientifici del cardinale, ne
dà una lettura in chiave alchemica; M. Gregori, che vi riconosce
l’influsso della formazione lombarda; Spezzaferro, che
lo pone in relazione agli studi prospettici coltivati dal Del
Monte e dal fratello Guidobaldo; Salerno.
Capolavoro del
periodo giovanile è il Bacco (Firenze, Uffizi); il quadro venne
riscoperto dal Longhi che lo datò tra le prime opere del
C, mentre il Mahon lo considerò opera che apre la fase matura
del pittore (1595-96 o ’96-97); quest’ultima datazione
è per lo piú seguita dalla critica odierna (Frommell suppone
che il quadro provenisse originariamente dalla collezione Del
Monte). Come nelle opere precedenti, C parte da un’osservazione
realistica del suo modello, dalle guance paonazze e
dalle unghie sporche, indugia sulla natura morta in primo
piano descrivendo con minuzia le diverse qualità della frutta,
le mele bacate, le foglie secche; ma accanto a questa fedeltà
al vero emerge una spinta idealizzante che si risolve attraverso
il riferimento alla statuaria classica; cosicché le fattezze
molli ed efebiche del giovane Dioniso, piú che da intendersi
come allusioni a messaggi omoerotici, possono essere
paragonate a rappresentazioni del dio di età tardoantica.
La tensione idealizzante si accompagna a una carica simbolica
riassunta in quel gesto di offrire il calice che ha fatto
supporre un riferimento al sincretismo paleocristiano tra iconografia
dionisiaca e quella del Cristo redentore (Calvesi,
1971). Ancora chiaramente decifrabile, in quest’opera, è
l’influenza della formazione bresciana, soprattutto nella resa
plastica ottenuta con il ricorso a forti contrasti di colore
e nella luce morbida che avvolge i corpi e le cose e li modella:
caratteristica, questa, propria di tutte le opere giovanili
del Merisi.
«Da cui [il d’Arpino] fu applicato a dipinger fiori e frutti sì
bene contraffatti, che da lui vennero a frequentarsi à quella maggior vaghezza, che tanto oggi diletta». Di questa produzione
giovanile di nature morte non ci resta nulla se si eccettuano
i tre quadri (due a Roma, Gall. Borghese, e uno a
Hartford, Wadsworth Atheneum) raggruppati da F. Zeri in
base all’inventario dei dipinti sequestrati al d’Arpino e sui
quali tuttavia la critica è divisa (alcuni studiosi propendono
per un’attribuzione all’Accademia dei Crescenzi; le tre Nature
morte sono state esposte nel 1985, con incerta attribuzione
al C, nella mostra The Age of Caravaggio: New York,
mma). Documento certo e straordinario di questa attività
dell’artista è la Canestra di frutta (Milano, Ambrosiana), opera
appartenuta a F. Borromeo (menzionata nel codicillo testamentario
del 1607 e descritta nell’atto di donazione della
raccolta all’Ambrosiana) che probabilmente la acquistò direttamente
dal C e non, come prima si credeva, tramite il
Del Monte (la lettera comprovante il dono da parte dei Del
Monte si riferiva in realtà ad orologi; d’altra parte il Borromeo
era presente a Roma fino al 1601 (Calvesi, 1973)). Il
genere della natura morta, di origine nordico-fiamminga, si
andava diffondendo in Italia (particolarmente al Nord), trovando
proprio nel Borromeo e Del Monte due appassionati
sostenitori. Tuttavia, rispetto ai prototipi nordici, la Canestra
di C possiede una prodigiosa sinteticità di visione, lo stile
e la composizione ne fanno un «ritratto» di pari dignità
con rappresentazioni di personaggi («e il C disse che tanta
manifattura gli era fare un quadro buono di fiori come di figure», scrive il Bellori). La visione lenticolare dei particolari
non diviene mai descrizione grazie a una studiatissima
composizione che si fonda su contrapposizioni di colori; la
natura, colta nella sua flagrante realtà, rivela se stessa e il significato
simbolico di cui è investita.
Tra il 1598 e il 1599
C vede allargarsi notevolmente il giro delle sue committenze,
è in questi anni che riceve i primi incarichi importanti e
la sua fama comincia a circolare tra gli ambienti romani. Le
opere di questo periodo non rivelano un percorso coerente
ma sperimentazioni diverse in concomitanza con prove che
vedono l’artista impegnato in composizioni piú complesse.
Accanto a quadri ancora di soggetto mitologico (la Medusa
(Firenze, Uffizi), opera appartenuta al Del Monte che ne fece
dono al granduca di Toscana, e Narciso (Roma, gnaa),
opera ignorata dalle fonti e restituita al C dal Longhi ma di
discussa attribuzione) il pittore affrontò la sacra rappresentazione (Riposo dalla fuga in Egitto: Roma, Gall. Doria) e il
quadro d’azione (Giuditta che decapita Oloferne (Roma,
gnaa), da identificarsi con un quadro eseguito per O. Costa).
In quadri come il Riposo dalla fuga in Egitto (in cui piú
volte è stata sottolineata l’ascendenza lombarda e lottesca e
sono stati individuati rapporti con opere di Annibale Carracci
e J. Caraglio), la Maddalena penitente (Roma, Gall. Doria)
e Narciso prevale l’intonazione malinconica e meditativa,
sottolineata dalle figure rinchiuse in un circolo, come assorte
in un dialogo silenzioso con se stesse e dalla luce che
le illumina fino a raggiungerle nello spirito. Nella Medusa e
nella Giuditta, invece, il dramma esplode in una mimica
espressiva, nell’azione violenta, colta al suo culmine, e annuncia
quella tematica «dell’urlo» che troverà sviluppo nelle
opere seguenti. Opera ancora tra il sacro e il profano è il
San Giovanni Battista (Roma, Pinacoteca Capitolina; eseguito
per Ciriaco Mattei), dove il soggetto religioso viene trattato
con estrema sinteticità di simboli (tanto che alcuni critici
hanno voluto addirittura mettere in dubbio che si tratti
di un soggetto sacro), mentre su tutto prevale un senso di letizia
fisica e spirituale. Tenendo presenti alcune peculiarità
stilistiche, come la presenza di moduli manieristici (il ricordo
degli ignudi michelangioleschi) e l’ispessirsi della zona
d’ombra (quell’ingagliardirsi degli scuri, come lo definí il
Bellori), l’opera è solitamente datata al 1599-1600, in prossimità
dei laterali di San Luigi dei Francesi.
Le grandi commissioni sacre
Nel luglio del 1599, probabilmente
per intercessione del suo potente protettore, C riceve
la commissione dei due quadri laterali per la Cappella
Contarelli in San Luigi dei Francesi; nel dicembre 1600 le
due grandi tele, rappresentanti la Vocazione di san Matteo (a
destra) e il Martirio di san Matteo (a sinistra), erano già collocate
sul posto. Nella Vocazione C mette in scena, quasi tra
quinte di teatro, alcuni gabellieri intenti a contare il denaro,
mentre sulla destra, accompagnato da un forte fascio di
luce – luce di grazia e salvazione – fa ingresso il Cristo e al
suo seguito san Pietro che ne ripete il gesto solenne di chiamata
(esami radiografici hanno dimostrato che la figura del
santo, simbolo della Chiesa portatrice della parola di Cristo
e della grazia divina, fu aggiunta dall’artista in un secondo
momento). Il Martirio ebbe, come testimoniano gli esami radiografici,
un’esecuzione piú elaborata in successive redazioni fino a quella finale in cui l’artista riuscì a comporre mirabilmente
la concitazione dei fedeli radunati nella chiesa,
con il dramma in fieri dell’uccisione del santo. Gli astanti si
ritraggono ai lati del quadro mentre la scena di martirio è
collocata al centro e illuminata da una luce intensa che colpisce
san Matteo e si riflette sul corpo del suo carnefice. Servendosi
di numerosi suggerimenti tratti da quadri di Tintoretto,
Annibale Carracci, Raffaello e Michelangelo, il pittore
dà vita ad una composizione macchinosa in cui vengono
rielaborati e assimiliati moduli manieristici.
Piú complessa
la vicenda della pala d’altare della Cappella, con San Matteo
e l’angelo, di cui C eseguì due differenti versioni (la prima
acquistata dal marchese Giustiniani, già a Berlino, è andata
distrutta). I documenti infatti non parlano delle due diverse
versioni, ma semplicemente riferiscono della decisione
presa dagli esecutori testamentari del Contarelli di sostituire
la statua del San Matteo di J. Colabaert con un dipinto
del C (febbraio 1602) e del saldo al pittore avvenuto nel settembre
1602. In base a questi dati la critica non è concorde
nella datazione del primo San Matteo (il Longhi lo datava agli
anni giovanili, 1602 per la Cinotti, 1600-1601 per Calvesi,
1599 per Spezzaferro), mentre certamente il secondo fu eseguito
nel 1602. La vicenda della prima versione è riferita dal
Bellori, che la pone a capo di tutta una serie di opere rifiutare
al pittore a causa della loro presunta indecorosità; nel
San Matteo, in particolare, avevano offeso i tratti rudi e contadineschi
della figura «che non haveva aspetto di santo».
Rispetto alla seconda versione il quadro di Berlino pone l’accento
sull’origine umile dell’Evangelista analfabeta che guarda
con meraviglia la sua mano, materialmente guidata
dall’angelo, scrivere i versi ebraici del Vangelo. Nella redazione
definitiva, invece, viene piuttosto sottolineata – mediante
il computo digitale dell’angelo – la priorità del vangelo
di Matteo rispetto a quelli successivi; allo stile plastico
ed energico della prima invenzione succedono un’intonazione
piú classicista, uno stile piú composto e ufficiale ma
anche piú freddo. Appena terminati i laterali di San Luigi,
nel settembre 1600, il Merisi riceve un secondo incarico importante:
i due dipinti (Crocefissione di san Pietro e Caduta
di Saulo) per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo.
La commissione riguardava due tavole mentre i due quadri,
consegnati già nel novembre 1601, sono eseguiti su tela.
Nell’arco di un anno C eseguì quindi due versioni dello stesso
soggetto (le prime, su tavola, vennero rifiutate – secondo
Mancini – e ritirate dal cardinal Sannesio). La prima redazione
della Caduta di Saulo (coll. Odescalchi-Balbi; attribuita
a C da Argan e in cui alcuni critici hanno visto un’opera
giovanile indipendente dai laterali della Cappella Cerasi)
fu rifiutata forse per quel precipitarsi troppo ardito del Cristo
in carne ed ossa sul corpo del Santo; essa presenta, soprattutto
se confrontata con quella definitiva, uno stile ancora
legato alle esperienze giovanili (nel suo carattere marcatamente
lombardo) e, allo stesso tempo, il ricorso a moduli
manieristici che l’avvicinano al Martirio di san Matteo. I
due quadri oggi nella cappella segnano un ulteriore sviluppo
nel percorso artistico del C, pienamente risolta vi appare la
tematica luministica avviata nei quadri precedenti, di una
luce simbolica e rivelatrice. La composizione, rigidamente
impostata su diagonali, blocca il dramma colto nel suo momento
culminante.
Intorno a questi due altissimi capolavori
la critica ha radunato una serie di opere in cui si riflette
ili segno della maturità stilistica dell’artista: al periodo della
Cappella Contarelli (per analogie con il primo San Matteo)
se non prima, al 1600 è datata la Cena in Emmaus (Londra,
ng) nella quale il Cristo risorto appare nell’inconsueta
iconografia, di ascendenza lombarda, di giovane imberbe,
con probabile allusione alla vita eterna di cui è promessa. Al
1603 ca., in base a documenti, risalirebbe invece il Sacrificio
di Isacco (Firenze, Uffizi) mentre certamente tra il 1602
e il 1603 si colloca l’Amore vittorioso (Berlino, Staatliches
Museum, eseguito per il marchese Giustiniani). Si tratta ancora
di un’immagine di letizia, come già nel San Giovannino,
di una letizia pagana questa volta (tanto da essere stato
per questo variamente interpretato come «amore profano»
o «amore virtuoso»).
Ormai la fama di C è al suo culmine e
un nuovo contributo ad essa è dato dalla Deposizione
(1602-1604: Roma, pv) che l’artista eseguì per la chiesa degli
oratoriani di Santa Maria in Vallicella, su commissione
di Pietro Vittrice. Nell’opera sono riassunte e massimamente
espresse le caratteristiche dello stile maturo del C (avviatosi
nei laterali di San Luigi ma ancor piú in quelli della Cappella
Cerasi): vi si ritrova il movimento bloccato dagli assi
della composizione in scorci arditi, l’evidenza plastica dei
corpi e delle cose che emergono dal buio in toni accesi di colore, l’invenzione infine di un nuovo classicismo fatto di essenzialità
e di una solennità che nasce dalla realtà stessa, nel
momento in cui questa viene rivelata dalla luce (l’armonia
di quest’opera strappò parole di lode persino all’intransigente
Bellori). E ancora una volta si tratta di una realtà fatta
di sentimenti e affetti studiatissimi e di significati non allusi
o sottintesi ma semplicemente riassunti nel pietrone su
cui poggia l’intero gruppo – la pietra su cui nascerà la Chiesa
– e che la mano di Cristo sembra indicare.
Tra il 1603 e
1605 si distribuiscono una serie di opere di difficile ricostruzione
critica: al 1603 è solitamente datato il San Francesco
in meditazione (in relazione al prestito di un saio fatto al
pittore dal Gentileschi; la critica è tuttavia divisa nell’attribuire
l’autografia all’esemplare di Roma – Santa Maria della
Concezione – o a quello di Carpineto Romano). Il motivo
della malinconica meditazione sul tema del memento mori
viene riaffrontato anche nel San Gerolamo penitente (Barcellona,
Museo di Monserrat; di attribuzione non concordemente
accettata, datato al 1605-1606 ca.) e nel San Gerolamo
scrivente (Roma, Gall. Borghese; di uguale datazione).
Lo stesso sentimento prevale anche nel San Giovanni Battista
(1603 ca.: Roma, gnaa), mentre si fa drammatico, per il
violento contrasto chiaroscurale, nel San Giovanni Battista
di Kansas City (am). Intorno al 1604-1605 (come risulta da
documenti recentemente rinvenuti da R. Barbiellini Amidei)
C eseguí per il monsignor Massimi un’Incoronazione di
spine (identificata da M. Gregori con il quadro oggi a Prato,
Cassa di Risparmio e Depositi) e un Ecce Homo (con probabilità
si tratta del dipinto reso noto dal Longhi; Genova,
Galleria comunale di palazzo Rosso; due versioni di un diverso
Ecce Homo in collezioni romane sono forse derivate
da una successiva versione eseguita sempre per il Massimi
(Calvesi)).
L’ultima fase romana e la fuga
Seguono, improvvisi, anni
difficili per il pittore che vede le sue opere criticate e rifiutate;
viene coinvolto in un’aggressione; e, infine, l’uccisione
di un avversario al gioco gli procura la condanna capitale
e lo costringe a una precipitosa fuga da Roma (29 maggio
1606). Entro il marzo 1606 C aveva eseguito la Madonna di
Loreto (iniziata forse già nel 1604 quando il pittore è documentato
nelle Marche, a Tolentino) per la Cappella Cavalletti
in Sant’Agostino. La Madonna, di una bellezza statuaria, appare sulla soglia della sua casa offrendo se stessa e il
Bambino all’adorazione dei due umili pellegrini; la sua figura
che emerge dall’ombra sembra quasi quella di «un’antica
statua che, al calore di quell’umile devozione, si stia rincarnando
e facendosi viva» (Longhi). La scelta tematica doveva
risultare ardita: il pittore sembra infatti invitarci ad osservare
l’evento sacro con gli occhi un po’ stupiti dei fedeli
piú poveri, a sentire la sua religiosità attraverso e in comunione
con quei due pellegrini dai piedi sporchi. E le critiche
questa volta non furono risparmiate; puntualmente registrate
dal Bellori esse si appuntavano sui piedi fangosi dei
due devoti, sui loro abiti sdruciti: «e per queste leggerezze
in riguardo delle parti che una gran pittura aver dee, dè popolani
ne fu fatto estremo schiamazzo». Ma la pala piacque
ai committenti che nel marzo del 1606 la collocarono sull’altare
della cappella.
Diversa fu la vicenda delle due opere seguenti:
la Madonna dei palafrenieri e la Morte della Madonna.
La prima, eseguita per l’altare di Sant’Anna dei Palafrenieri
in San Pietro (1605-1606; oggi a Roma, Gall. Borghese),
rimase nella basilica per soli due giorni, dopo i quali venne
ritirata per passare ben presto nella collezione del cardinal
Borghese. La Morte della Madonna (Parigi, Louvre), eseguita
per la Cappella Cherubini in Santa Maria della Scala poco
prima della fuga da Roma, inaugura una nuova fase della
pittura di C destinata e svilupparsi nelle opere successive
del periodo napoletano. Il corpo della Vergine, disteso su
una semplice tavola, è attorniato dagli apostoli e dalla Maddalena,
ritratti in diverse espressioni di dolore (in cui è ancora
uno studio sulla resa degli affetti); il grande spazio lasciato
vuoto, nella parte superiore del quadro, e il rosso fiammeggiante
del drappo, amplificano l’effetto corale della scena.
La pala fu immediatamente respinta dal clero perché
«aveva fatto con poco decoro la Madonna gonfia e con gambe
scoperte» (Baglione) o per «havervi troppo imitato una
Donna morta gonfia» (come riferisce ancora una volta il Bellori).
I due rifiuti, a parte la pretesa mancanza di decoro addotta
dai biografi, sono indice di un clima fattosi ostile intorno
al pittore (probabilmente anche in seguito all’elezione
del nuovo papa Paolo V, di orientamenti religiosi ostili
nei confronti delle correnti riformistiche e pauperistiche a
cui C era invece legato) e che, a seguito dell’omicidio di cui
questi si rese colpevole, divenne in breve insopportabile, tanto da costringerlo a riparare nei feudi Colonna a Zagarolo.
A poco prima della fuga o subito dopo (poiché le fonti la dicono
inviata da Zagarolo al marchese Patrizi) risale la Cena
in Emmaus (Milano, Brera) in cui viene ripreso lo schema
compositivo di quella giovanile di Londra, ma con differenze
stilistiche che la datano a questi ultimi momenti romani.
Certamente al periodo del soggiorno presso i Colonna è databile
la Maddalena in estasi (citata dalle fonti e di cui si conoscono
numerose copie di un originale perduto).
Il primo soggiorno napoletano
A fine 1606 C prende la via
di Napoli; appena giunto nella città, già nel settembre 1606
l’artista pone mano alla grande pala delle Sette opere di Misericordia
(Napoli, Pio Monte della Misericordia) portandola
a compimento in breve tempo (gennaio 1607). Il tema vi
viene affrontato seguendo un’iconografia laica, di origine
medievale (di piú larga diffusione al Nord) in cui le sette opere
vengono riunite in un’unica scena. Il complesso problema
iconografico e compositivo, che richiedeva il rispetto delle
tre unità di luogo tempo e azione, viene risolto dall’artista
riunendo in un vicolo buio di Napoli un’umanità tutta
intenta a sostenersi pietosamente e rivelandola con la violenta
illuminazione della luce divina. In alto, separata dagli
uomini ma partecipe delle loro vicende, la divinità si fa presente
con l’apparizione della Madonna (aggiunta in un secondo
tempo), accompagnata dal vorticoso volteggiare e dallo
sbatter d’ali degli angeli. Su tutto prevale un profondo
senso di compassione umana e religiosa, su cui si proietta
probabilmente la stessa vicenda biografica dell’artista desideroso
di redimersi dal suo peccato attraverso le buone opere,
secondo l’insegnamento della Chiesa.
Poco documentata
è invece un’altra grande pala del periodo napoletano (ma
secondo alcuni iniziata già negli ultimi anni romani (Hinks,
1953); o a Zagarolo (Hess, 1954). Friedländer e Hinks supponevano
che l’opera rimanesse incompiuta e venisse terminata
da altri con l’aggiunta del ritratto del donatore): la
Madonna del Rosario. Destinata ad una chiesa dell’ordine domenicano
(vista la presenza dei santi Domenico e Pietro
Martire; probabilmente per San Domenico Maggiore a Napoli
dove i Carafa-Colonna, protettori del C, avevano una
loro cappella (Calvesi, 1985, l’opera venne in seguito acquistata
per la chiesa di San Paolo ad Anversa, su iniziativa di
un gruppo di pittori tra i quali Rubens. Come nella Madonna di Loreto la Vergine appare ritratta con le fattezze di un
simulacro, ma tra di essa e la folla di fedeli (per i quali C ricordò
l’Elemosina di sant’Antonio del Lotto) si interpongono
i due santi domenicani, rappresentanti della Chiesa mediatrice
della grazia. Ancora al primo periodo napoletano risalgono:
la Flagellazione (Napoli, Capodimonte) eseguita nel
1607 per San Domenico Maggiore, e per la quale il pittore
si ispirò a modelli romani (Sebastiano del Piombo in San Pietro
in Montorio e Peterzano in Santa Prassede); il David di
Vienna (km, di discussa attribuzione e datazione) e la Salomè
di Londra.
Malta
A fine 1607 C lascia Napoli per Malta: nell’isola cercava
un rifugio alla persecuzione della legge e sperava in riconoscimenti
ufficiali. Con questa speranza in animo il pittore
si mise a dipingere il Ritratto di Adolf de Wignacourt,
gran maestro dell’ordine dei Cavalieri di Malta, opera che
gli valse il conferimento del cavalierato (cfr. Baglione e Bellori,
che parla di due ritratti). Uno dei due ritratti è stato
identificato con quello oggi a Parigi, Louvre (Dobson e
Friedländer). Il carattere rigido della composizione e l’anacronismo
dell’armatura di foggia superata (risalente agli anni
1570-80) ha tuttavia indotto alcuni critici a contestarne
l’attribuzione, mentre altri lo riconducono al carattere celebrativo
e ufficiale del dipinto, forse destinato a commemorare
una vittoria militare. Per il secondo ritratto citato dal
Bellori è stata proposta invece l’identificazione con quello
conservato a Firenze (Pitti; cfr. Gregori). I tratti somatici
del gran maestro si ritrovano anche nel San Gerolamo della
Valletta (Cattedrale), sintetica e drammaticissima immagine
del santo scrivente, illuminato da una luce che piú che
modellare sembra quasi mangiarne la figura. Con la Decollazione
del Battista (eseguita per la Compagnia della Misericordia
di San Giovanni; oggi alla Valletta, Cattedrale) C tocca
l’apice di questa drammaticità; il tragico evento si svolge
in uno spazio chiuso e immoto, portato a compimento dai
gesti meccanici e come bloccati degli esecutori. Esso è presentato
dall’artista in tutta la sua brutalità, senza alcuna risonanza
emotiva; cosicché la firma del pittore, ottenuta con
il fiotto di sangue sgorgante dal capo del Battista, assume il
ruolo sinistro di commento e manifesta la piena identificazione
del Merisi che nel quadro rispecchia la sua personale
vicenda. Ad analogo clima emotivo si ricollega l’Amorino
dormiente (Firenze, Pitti) in cui il soggetto pagano è volto in
cupo e serio memento mori (Cinotti). Ma anche a Malta la
fortuna del C cessa bruscamente a causa di problemi con la
giustizia (un diverbio con un «cavaliere di giustizia» secondo
i biografi, ma forse l’arrivo, nell’isola, della notizia del
bando capitale al quale era condannato). Incarcerato nello
stesso anno in cui aveva ricevuto le piú alte onorificenze, il
pittore fugge alla volta della Sicilia.
In Sicilia
Il periodo siciliano (1608-1609) è caratterizzato
da continui spostamenti di città in città durante i quali riesce
ad eseguire quattro pale: il Seppellimento di santa Lucia
(Siracusa, Santa Lucia), la Resurrezione di Lazzaro (per la
chiesa dei crociferi di Messina; oggi a Messina, mn), l’Adorazione
dei pastori (ivi; per la chiesa dei cappuccini di Messina)
e la Natività. Nel Seppellimento di santa Lucia e nella Resurrezione
di Lazzaro (oggi molto rovinati) viene portato fino
alle estreme conseguenze lo stile già messo alla prova nella
Decollazione del Battista di Malta: una fattura rapida, a
tocchi e sbavature e una luce corrosiva che rileva, strappandoli
al buio, solo pochissimi particolari essenziali; mentre
l’accento torna, ossessivo, sull’irreversibilità della morte. Ancora
due opere di ardua ricostruzione critica, e variamente
riferite al periodo siciliano o già a quello maltese, sono l’Annunciazione
(Nancy, mba) e il Cavadenti (Firenze, Gall. e deposito
di Palazzo di Montecitorio; di discussa attribuzione,
l’autografia è sostenuta decisamente dalla Gregori).
Il secondo soggiorno napoletano
«Ma per esser perseguitato
dal suo nemico, convenegli tornare alla città di Napoli, e
quivi ultimamente essendo da colui giunto, fu nel viso cosí
fattamente ferito, che per li colpi quasi non si riconosceva»
(Baglione). Alla fine dell’estate del 1609 C riprende dunque
la via di Napoli con lo stato d’animo del fuggiasco braccato;
ma qui non tardano a raggiungerlo i sicari che lo feriscono
gravemente (questi sono stati identificati dai biografi antichi
negli emissari dell’ordine maltese; di recente è stata fatta
l’ipotesi che il Merisi fosse stato raggiunto e fatto prigioniero
dagli Spagnoli; con un’imbarcazione spagnola – una
feluca –, infatti, egli venne portato a Porto Ercole poco prima
di morire (Calvesi, 1985)). Le notizie biografiche e i documenti
sulle opere di questo periodo si fanno sempre piú
confusi: la «mezza figura di Erodiade con la testa di Battista» citata dal Bellori (che la dice eseguita per il gran maestro di Malta, forse per sollecitarne il perdono) è stata identificata
con la Salomè di Madrid (Palazzo reale); certamente
al secondo periodo napoletano appartiene il David (Roma,
Gall. Borghese), quadro in cui si specchia, in toni cupi
e allucinati, il dramma personale dell’artista (che si ritrasse
nelle sembianze di Golia) e in cui si riconosce il caratteristico
stile dell’ultimo C. Al maggio 1606 è documentato il
Martirio di sant’Orsola (Napoli, Banca Commerciale); infine,
il San Giovanni Battista che C portò con sé nel suo viaggio di
ritorno verso Roma, e che il vicerè di Napoli rivendicò dopo
la morte del pittore, è solitamente identificato, per ragioni
stilistiche, con il San Giovanni Battista della Gall. Borghese.
Opera di discussa datazione è invece la Crocifissione
di sant’Andrea (Cleveland, am; datata da alcuni al primo, da
altri al secondo periodo napoletano). Cupe e drammatiche,
caratterizzate tutte da una meditazione disperata sulla morte,
queste ultime opere sembrano accompagnare i tormenti
esistenziali dell’artista e preannunciarne il triste destino: nel
luglio 1610, mentre tornava a Roma sperando nella grazia
(possibile per l’intercessione del cardinale F. Gonzaga), durante
una sosta a Porto Ercole, C muore; la grazia arriverà,
ma troppo tardi.