Diversi sono gli spazi utilizzati dalla pubblicità per diffondere i propri
messaggi: Tv, radio, cinema, stampa e affissione sono i principali. I primi tre
possono essere considerati mezzi per pubblicità dinamiche, mentre gli ultimi due
sono mezzi per pubblicità stauche. Le prime immagini impongono allo spettatore
un tempo di fruizione che è interno al messaggio stesso e che a sua volta si
impone al tempo dell’individuo che guarda. Le rimanenti, viceversa, lasciano che
sia lo spettatore a decidere il tempo di osservazione e l’effetto ottico è
giocato su relazioni di stabilità, abitudine e novità che si susseguono nel
campo visivo.
La storia dell’immagine p va ricondotta, almeno inizialmente, alla storia del
manifesto che fu il primo ad avere specifiche caratteristiche pubblicitarie. Il
manifesto era già nato prima delle ricerche di Cheret e Lautrec che ne fecero un
riconosciuto mezzo espressivo con proprie regole; ma la programmazione della
moltiplicazione dell’immagine (sempre piú rapida con il perfezionarsi delle
tecniche litografiche), e il differente rapporto tra immagine e scrittura, sono
fatti nuovi rispetto al passato. La negazione del concetto di unicità
dell’immagine sviluppatosi di pari passo con la nascita, nella seconda metà
dell’Ottocento, della cultura metropolitana nata dall’industrialesimo, è poi
collegata allo sviluppo dell’illustrazione del libro (in particolare
dell’illustrazione popolare) e a quello delle affiches teatrali. L’illustrazione
aveva trovato nuovi stimoli con le opere di P. Gavarni e H. Daumier che
privilegiavano le immagini rispetto ai testi letterari; nelle affiches
s’inaugurava di pari passo l’autonomia del mezzo al quale veniva affidato il
compito di uniformare testo e immagine e nel contempo di creare interesse. Le
affiches teatrali, piú delle illustrazioni dei libri, segnarono la storia del
manifesto nella nuova funzione assegnata alle immagini dirette a un nuovo
pubblico: esse dovevano informare e pubblicizzare un’opera, erano esposte
all’aperto rivolgendosi a quella piccola e media borghesia che affollava le
platee dei caffè parigini.
Tra i primi manifesti pubblicitari va citato quello disegnato dall’americano J.
W. Morsen: Five celebrated clowns del 1856 (una Xilografia lunga 3,5 m), in cui
cinque clowns riempiono quasi tutto lo spazio mentre la scritta assumeva un
ruolo del tutto secondario. Jules Cheret ed Henry de Toulouse Lautrec furono i
primi artisti in Francia a eseguire veri e propri manifesti pubblicitari. Cheret
realizzò i suoi poster direttamente sulla pietra litografica dedicandosi
soprattutto alla pubblicizzazione di spettacoli teatrali dove diversamente
dall’esempio di Morsen, la scritta era un elemento inscindibile e parte
integrante dell’immagine. Cheret, infatti, pur essendo convinto della prevalenza
dell’immagine sul testo, parte dall’esigenza – come nei manifesti per le Folies
Bergères del 1881 o per l’Exposition Universelle des Arts Incoherentes del 1889
– di costruire entro i termini dell’immagine una sintesi di racconto derivata
dall’illustrazione popolare di romanzi in cui il testo è necessario
all’esplicazione delle immagini.
Meno accademica, la cultura di Toulouse Lautrec parte dallo studio approfondito
delle xilografie giapponesi e dal riferimento alla pittura di van Gogh e
Gauguin. Già con le sue prime opere, Divan Japonais (1892), Jane Avril (1893),
Babylone d’Allemagne (1894) si assiste a una netta rottura con il passato.
L’immagine è ridotta a profilo, il chiaroscuro eliminato, il colore usato per
determinare le gerarchie, i particolari sono solo accennati. La scritta è in
funzione dell’immagine, ridotta di volta in volta a formare la base o lo sfondo
di un sistema che evidenzia soprattutto le figure. La comprensione è affidata
alle sole immagini, metafore del messaggio. Con il manifesto pubblicitario, tra
il 1890 e il 1900, si misurarono anche altri grandi artisti del momento – Pierre
Bonnard, Felix Vallotton, Maurice Denis, Jacques Villon – ma senza apportare
novità particolari.
Una delle figure piú stimolanti del periodo è sicuramente Alphons Maria Mucha
che in alcune opere degli anni Novanta (La trappistine, Salon des cent) realizzò
dei testi fondamentali per la successiva cultura del manifesto, operando sulla
stilizzazione dei contorni e utilizzando il testo scritto come base
dell’equilibrio geometrico del messaggio figurale. Ma la conciliazione tentata
sullo scorcio del secolo tra cultura dell’immagine e cultura letteraria non
riuscì a risolvere la dicotomia esistente tra testo e immagine, problema
centrale della funzione della immagine p nel mondo della comunicazione di massa.
Fu il clima dell’espressionismo a porre nuovi problemi, la funzione
dell’immagine nel contesto urbano venne rivoluzionata da artisti come Heckel,
Kirchner, Kokoschka, Schiele che determinarono questa rottura: il manifesto
espressionista tedesco non è piú una pagina di libro, né una rappresentazione
della realtà, ma una «enfatizzazione simbolica di alcuni elementi di un modello»
(A. C. Quintavalle, 1977) divenendo nel contempo mezzo di persuasione e di
creazione di consenso, identificandosi successivamente con quel momento di presa
di coscienza nazionale tedesca, come uno dei mezzi di comunicazione ideologica
prioritari.
Anche in America, in Inghilterra, in Italia, sia pur differenziandosi per
riferimenti culturali e scelte iconologiche, i manifesti vennero utilizzati per
la propaganda. Un’esperienza fondamentale per la storia del manifesto e della
pubblicità in generale, è stata quella del Bauhaus (1919) dove furono definiti i
rapporti tra arte e industria. Dal clima del Bauhaus usciranno i manifesti
scientifico-surrealisti di Herbert Bayer e quelli legati al razionalismo
astratto di Moholy-Nagy che influenzeranno prima la grafica europea e poi quella
nord-americana. I temi pubblicizzati dai manifesti sono spettacoli, prodotti del
progresso industriale, biciclette, automobili, carburanti. La forma estetica è
quella della cultura figurativa dell’avanguardia. La rivoluzione nella grafica
del Bauhaus non è semplicemente formale, non è un fatto limitato all’invenzione
di alcuni caratteri, all’applicazione di un metodo di composizione che
ridistribuisce il testo nella pagina o all’applicazione della fotografia, ma di
una vera rivoluzione del valore della scrittura. I caratteri sono progettati in
relazione alla loro funzione.
Al di fuori del clima del Bauhaus, in Europa domina, tra gli anni Venti e Trenta,
la cultura post-cubista che in Germania trova uno dei suoi rappresentanti in
McKnight Kauffer. In Francia o pubblicitario piú noto è Cassandre; il suo Nord-Express
del 1927 mostra chiaramente il richiamo alla radice post-cubista, mentre
Dubo-Dubon-Dubonnet del 1934 unisce componenti diverse: la semplificazione
d’immagine post-cubista, la successione significante che è propria del fumetto,
l’impiego della scrittura come elemento strutturante dell’immagine.
In Svizzera, invece, con Herbert Matter, il riferimento primo è la cultura
surrealista. Con la seconda guerra mondiale il manifesto diviene soprattutto
strumento di propaganda politica – stampa e radio lo accompagnano. I manifesti
trascrivono in immagini le ideologie dei paesi in guerra e la composizione
estetica volge decisamente al realismo. Opere significative sono quelle di Ben
Shahan negli Stati Uniti, di Karl Golb in Germania e di Boccasile in Italia.
Nel dopoguerra si assiste a una inversione di tendenza in campo pubblicitario:
se, infatti, fino a quel momento erano stati i governi a indirizzare le
mitologie di massa e a determinare la direzione del consenso, nel dopoguerra
essi rinunziarono a questa funzione lasciando spazio alla libera iniziativa nel
campo dell’immagine e della pubblicità, stimolati dalla linea di tendenza già
operante negli States. Dal manifesto, che era stato ancora nelle due guerre il
mezzo principale per la diffusione dell’immagine p – accompagnato solo dalla
radio – si
passa rapidamente all’uso dei settimanali e dei cartelloni stradali. In ambito
statunitense si cominciano anche a elaborare dei particolari sistemi di
persuasione che si avvalevano delle tecniche studiate da sociologi e psicologi.
Ma l’importanza del manifesto come creatore e diffusore dell’immagine p diminuí
moltissimo soprattutto con l’avvento della pubblicità televisiva. Con la
televisione la pubblicità si fa racconto, il messaggio si svolge nel tempo, le
immagini non sono piú fisse ma mobili, il fruitore non deve solo guardare ma
anche ascoltare. Nello stesso tempo il mondo della pubblicità si arricchisce di
nuove competenze; fino a quel momento il fotografo era quasi l’unico
collaboratore, esterno all’agenzia, che avesse un ruolo di rilievo; adesso,
anche registi, producer, creatori di jingle e scenografi assumono ruoli di primo
piano. Il set diviene il luogo d’elezione per la pubblicità degli anni ’70 e
’80: piú del 50 per cento della spesa pubblicitaria è rivolta infatti al mezzo
televisivo, mentre di gran lunga minori sono gli investimenti su quotidiani,
periodici, affissioni, radio e cinema. Del resto, la televisione, con la sua
grande capacità di copertura (numero di individui che si suppone di poter
raggiungere) è senz’altro il mezzo piú adatto alla diffusione del messaggio
pubblicitario. Ogni mezzo, infatti, viene valutato anche in base al rapporto tra
il costo complessivo dell’operazione e il numero di persone che si ritiene possa
raggiungere (rapporto costo-contatto). Nel caso della televisione, anche se i
costi sono particolarmente elevati, il numero di persone che ogni giorno sono
potenzialmente raggiungibili è talmente elevato da compensare largamente le
spese. L’efficacia della pubblicità televisiva è inoltre determinata dalla
possibilità di arrivare al fruitore non solo attraverso la vista ma anche
attraverso l’udito; in questo modo, la possibilità che il messaggio giunga a
destinazione si raddoppia.
Mentre nel cinema l’immagine p ha caratteristiche simili a quelle televisive pur
avendo a disposizione tempi piú lunghi e possibilità di lizzare effetti
sofisticati, il ruolo svolto dall’immagine p in riviste e giornali è molto
diverso basandosi oltre che sullo slogan, sul preponderante spazio dato alla
parte scritta che deve informare e illustrare le qualità del prodotto
pubblicizzato.
La storia dell’immagine p in Italia
La pubblicità in Italia nasce verso la fine dell’Ottocento; i giornali dedicano
l’ultima pagina ai piccoli annunci, sui tram a cavalli vengono applicati i primi
cartelli pubblicitari ed è il momento in cui nascono le prime imprese di
affissione. Nel 1836 A. Manzoni fondò la prima concessionaria italiana che
curava le inserzioni per un certo numero di giornali, e nel
1881 venne creata da A. Montorfano l’IGAP (Istituto Grafica e Affissioni
Pubblicitarie) che pose le fondamenta per la diffusione del manifesto. Così come
in Europa, anche in Italia i primi pubblicitari provenivano dall’ambiente
artistico. Leonetto Cappiello ad esempio arrivò al manifesto dopo aver
conosciuto vasta notorietà come ritrattista e caricaturista, pittori come
Fortunato Depero e Marcello Nizzoli si dedicarono anche alla pubblicità.
Tra i protagonisti della storia della pubblicità in Italia vanno citati Leonetto
Cappiello e Marcello Dudovich; il primo lavorò soprattutto a Parigi, dove si
trasferì nel 1898. Fu definito l’inventore del «manifesto marchio» di rapida
comunicazione e alta memorabilità. Il secondo, dal 1888 fu attivo soprattutto a
Milano per le Officine Ricordi. I destinatari delle sue pubblicità sono gli
uomini del suo stesso ambiente: un mondo colto e borghese che poteva apprezzare
la qualità delle sue immagini e che non aveva problemi di spesa. In questa prima
fase, l’operatore pubblicitario non era toccato da vincoli né obblighi, era
lasciato libero di dare spazio alla propria immaginazione senza dover scendere a
compromessi.
Sullo scorcio del secolo il manifesto cominciò ad avere anche una certa fortuna
editoriale. Nel 1899 sulla rivista «Le arti applicate» viene presentata una
rassegna di manifesti.
Ai primi del Novecento a Milano e a Genova vengono fatte le prime mostre dei
lavori pubblicitari, e nel contempo escono anche i primi libri sull’argomento:
L’arte della reclame di Bernet, L’arte del persuadere di G. Prezzolini. Nel
primo decennio del Novecento, grazie ad alcune grandi concessionarie vennero
attuate le prime campagne pubblicitarie sull’intero territorio nazionale: quella
della Pirelli fu tra le piú importanti. In queste prime immagini p il prodotto
pubblicizzato svolge un ruolo di secondo piano ed è utilizzato come
oggetto-simbolo aggiunto all’atmosfera di lusso che viene rappresentata, senza
acquisire una propria autonomia. Il prodotto fa parte del decoro borghese, ne è
il simbolo e la
stilizzazione. Inoltre, non vi sono toni aggressivi o competitivi, non vi sono
slogan, né veri e propri personaggi mancando in realtà quell’aspetto
concorrenziale assunto nel secondo dopoguerra dalle proposte del mercato.
Nel periodo fascista coesistono gli ultimi manifesti in stile liberty e i primi
della nuova propaganda fascista. Nel 1926 Guido Mazzali fonda «L’Ufficio Moderno»
rivista che riunì molti dei pubblicitari del tempo. Nel 1928 una agenzia
pubblicitaria americana, la Erwin Wasey, apre a Milano; sul suo modello, e nel
giro di pochi anni, ne nascono molte, tutte italiane. Nel 1930 a Roma e nel 1931
a Milano si svolgono il 1° e il 2° Congresso della Pubblicità; viene messo in
discussione il manifesto del passato che non teneva realmente conto delle
esigenze del fruitore – iniziano i primi studi sul target ed è in questo momento
che al grafico si affianca il lavoro del fotografo. Nei lavori dei pubblicitari
attivi nel periodo pre-bellico, come F. Seneca, S. Pezzati, M. Nizzoli, G.
Boccasile, D. Villani, all’enfasi coloristica tipica delle immagini p precedenti
si sovrappone una griglia compositiva geometrizzante. Nel
dopoguerra in Italia va affermandosi rapidamente il modello industriale
statunitense, basato sul grande consumo di beni d’uso quotidiano come le cucine
economiche, lavatrici,
prodotti di pulizia come detersivi, cere e di bellezza, mentre nel contempo la
martellante campagna pubblicitaria per la benzina indica l’apparire di un nuovo
e mitico soggetto di mercato destinato a un largo consumo: l’automobile.
D’altronde il fervore stesso dell’economia italiana provoca l’interesse del
capitale statunitense: la Lintas nel 1948 e la Thompson nel 1951 aprono le loro
Agenzie in Italia. Con l’America arrivano gli studi di marketing e le ricerche
motivazionali che mettono la parola fine all’improvvisazione artigianale e alle
pretese artistiche degli esordi; piú
dell’immagine, ora, è lo slogan che conta.
Un’esperienza tutta italiana è stata quella di «Carosello» – dal 3 febbraio 1957
al 1° gennaio 1977 – che fece entrare in modo stabile la pubblicità nella vita
degli italiani. Fu un’invenzione della Rai per regolare la pubblicità televisiva
(allora appena agli inizi) cercando una formula che costituisse un punto
d’incontro tra le esigenze degli inserzionisti e quella del pubblico. Ogni
pubblicità aveva a disposizione 2 minuti e 15 secondi; 135 secondi dovevano
essere dedicati a uno spettacolo non pubblicitario e solo gli ultimi 30 secondi
al messaggio. L’esperimento si concluse per volere degli stessi inserzionisti
che pagavano cifre troppo elevate per l’organizzazione dei «Caroselli» in
confronto al tempo dedicato
al vero e proprio messaggio pubblicitario.
Negli anni Sessanta furono le grandi agenzie internazionali a prendere il
sopravvento; gli studi e le piccole agenzie cessarono di avere un ruolo di
rilievo. In questo periodo la pubblicità viene preparata con bozzetti su carta
(layout); la visibilità del prodotto è ottenuta con l’uso del mezzo fotografico.
L’abilità dell’art director si misura sulla capacità di guidare il lavoro del
fotografo. Nello stesso periodo cominciano però anche a uscire una serie di
libri che si schierano contro la logica della produzione e del consumo (La folla
solitària di D. Riesman del 1956 o I persuasori occulti di V. Packard del 1958).
Con la crisi economica degli anni Settanta poi le grandi agenzie si spaccano,
sorgono le prime strutture indipendenti che offrono ricerche e servizi, mentre
negli anni Ottanta con la caduta del monopolio Rai e l’apertura delle reti
private, l’investimento pubblicitario si sposta decisamente a favore della
televisione.
Analisi dell’immagine p su stampa
Lo scopo di ogni immagine p è quello di creare attenzione. Essa è ricercata
attraverso la combinazione di diversi fattori come: la scelta del tipo di
illustrazione, l’uso del colore, la scelta della forma, l’armonia
dell’illustrazione con la scritta. Nella maggioranza dei casi i prodotti vengono
illustrati con immagini realistiche mentre le immagini astratte – se pur
utilizzate quando si ricercano effetti di sorpresa o novità – sono meno
impiegate perché non mettono in atto quel processo di proiezione, necessario
perché scaturisca il desiderio
di acquisto. Il colore è uno degli elementi piú importanti per richiamare
attenzione; a parità di condizioni è favorito un annuncio a piú colori rispetto
a uno in bianco e nero o a un solo colore. In generale sono preferite le
composizioni di tipo geometrico alle forme naturali o fantastiche. Le
illustrazioni servono anche a guidare l’occhio verso lo slogan o sull’eventuale
testo; le immagini sono composte in modo tale da mantenere l’occhio all’interno
dello spazio pubblicitario mentre sono evitate composizioni che conducono lo
sguardo all’esterno dello spazio previsto. Un altro fattore importante nel
determinare attenzione è l’elemento novità. Esso è ottenuto giocando su diversi
fattori come: una disposizione particolare dell’illustrazione nella pagina,
accentuando gli ornamenti, i colori o i contorni o trovando soluzioni originali
nei chiaroscuri o nei dettagli, ecc.
Natura dell’illustrazione
Il pubblicitario dispone essenzialmente di tre tipi di illustrazioni: la
fotografia, disegni pieni, disegni al tratto. Generalmente è la fotografia la
piú utilizzata perché piú reale e naturale. La scelta del disegno o della
fotografia è relativa ai seguenti fattori: 1) al tipo e qualità della stampa; è
preferita una buona riproduzione al tratto a una cattiva riproduzione della
mezza
tinta. La buona qualità della stampa è una condizione che porta alla scelta
della foto; 2) allo scopo dell’illustrazione. Se l’illustrazione ha lo scopo di
convincere i fruitori o di attirare la loro attenzione si utilizza,
generalmente, la fotografia; se essa ha lo scopo di far comprendere o di agire
sulla memoria, il disegno, anche schematico, è il mezzo prescelto; 3) al
soggetto dell’illustrazione. Figure umane, oggetti, animali, possono essere
ripresi secondo accorgimenti che li rendono piú o meno fotogenici (anche in base
alla bravura dell’operatore o del ritoccatore). Ma, se il soggetto
dell’illustrazione presenta difficoltà di ripresa, è preferito il disegno a
mezza tinta; 4) all’elaborazione dell’illustrazione. L’intervento della macchina
fotografica non esclude quello dell’artista; verso il 1880 E. e J. Concourt
avevano già scoperto come si coloravano le foto in camera oscura. Questa tecnica
è usata anche da molti pubblicitari di oggi per ottenere immagini fedeli ma
singolari e stupefacenti nel contempo.
L’impaginazione
L’impaginazione è lo scheletro di ogni pubblicità, attribuisce a ogni elemento
del testo e a ogni illustrazione uno spazio proprio, a seconda del loro grado
d’importanza. L’impaginazione è il mezzo attraverso il quale si rende armonico
il rapporto tra l’immagine e il testo.
L’impaginazione è soggetta ai seguenti fattori: 1) fattori riguardanti il testo;
ogni testo assume un significato differente a seconda delle parole che vogliono
essere evidenziate;
2) fattori inerenti all’illustrazione; la dimensione e lo spazio assegnato alle
illustrazioni di un annuncio pubblicitario è relativo alle funzioni che esse
svolgono;
3) fattori inerenti alla disponibilità di spazio;
4) fattori relativi alla necessità che l’annuncio abbia caratteri di novità,
continuità, originalità.
Insieme alla scelta delle immagini è di gran rilievo anche la scelta dei
caratteri tipografici. In un annuncio pubblicitario possono essere utilizzati
due generi di caratteri: quelli tipografici e quelli disegnati. I primi sono dei
caratteri studiati da specialisti che li vendono sotto forma di caratteri colati
da una matrice. I secondi sono dei caratteri disegnati e riprodotti direttamente
mediante fotolito. I primi sono standardizzati, i secondi possono dar luogo a
qualsiasi variante. I caratteri, a loro volta, sono soggetti ai seguenti criteri
di selezione: 1) la loro semplicità; devono essere sempre estremamente
leggibili; 2) la dimensione (esiste una dimensione ottimale per ciascuna parte
del testo); 3) la frequenza (esistono distanze ottimali tra carattere e
carattere che facilitano e invogliano la lettura); 4) l’orientamento. È dato
dall’inclinazione del testo rispetto alla linea orizzontale. Il grado di
obliquità di una sequenza di caratteri è relativa al tipo di effetto che si
vuole produrre su chi guarda.
Analisi delle immagini p su impianti di affissione cosí come le immagini p
create per la stampa anche quelle create per gli impianti di affissione sono
immagini statiche. Ma, mentre la pubblicità su stampa può essere guardata per il
tempo che si desidera e ad una distanza ravvicinata, i cartelloni pubblicitari –
posti lungo le strade delle città o lungo le grandi vie di collegamento –
vengono necessariamente osservati durante uno spostamento e comunque da lontano;
il destinatario, l’uomo della strada, potrà dedicare alla visione del messaggio
solo il tempo che gli è consentito dalla velocità del suo mezzo di locomozione
(piedi, macchina, ciclomotore, autobus, ecc.) o dal flusso di traffico; per
vincere la competizione che la città – con la sua sterminata quantità di
messaggi visivi – impone, il manifesto pubblicitario gioca soprattutto sulla
forza dell’impatto visivo e sulla sinteticità del messaggio. Il testo viene
inserito in un manifesto solo quando l’immagine non è sufficientemente
esplicativa; in questo caso si utilizzano frasi brevi e di tipo imperativo. Le
immagini
coprono generalmente quasi tutto il campo visivo e sono stagliate su fondi
neutri.