Tecnica artistica basata sull’impiego di materie dure (vetro, marmo, terracotta,
pasta vitrea, smalto, talvolta conchiglie e madreperla) in forma di piccoli
elementi cubici o trapezoidali – tessere musive di vario colore che raggiungono
in alcuni casi dimensioni minutissime – accostati in genere secondo un disegno
precostituito e fissati alle strutture portanti mediante mastice o cementi. Per
le sue caratteristiche di durabilità e per l’alto potenziale decorativo, il m
s’adattò in modo efficace alla decorazione di vaste superfici di strutture
monumentali (vedi ad esempio i m del tempio della Fortuna Primigenea di Preneste
del I sec. a. C.) o come rivestimento principale di pavimenti (in particolare
nel mondo greco-romano) e di pareti interne ed esterne di edifici (scarse sono
le testimonianze nel mondo antico e fu in epoca bizantina che il m parietale
divenne tecnica prioritaria). La tecnica – in alcuni casi (opus sectile) in
stretto rapporto con le tarsie – per le sue particolari caratteristiche e la
difficoltà di progettazione e messa in opera si sviluppò in ambiti culturali
circoscritti.
Le testimonianze più antiche di un procedimento che ha una certa correlazione
con il m risalgono alla civiltà dei Sumeri (rivestimenti del tempio di Uruk del
XXIV sec. a. C.) ed in Mesopotamia (ritrovamenti documentano l’uso di coni di
terracotta inseriti nella massa muraria, la cui superficie visibile d’aspetto
circolare, veniva dipinta di nero, rosso, giallo dando luogo a disegni policromi
a Warka, 3500-3000 a. C.). Lo Stendardo di Ur (Londra, bm), scoperto in una
tomba del III millennio a. C. è il più antico esemplare conosciuto di m
portatile realizzato secondo la tecnica dell’opus sectile: le figure, disposte
in registri orizzontali, sono tagliate in pietra, madreperla e terracotta, poi
fissate su un supporto di legno con l’ausilio di una preparazione bituminosa.
Ancora tracce di decorazioni musive si hanno in Egitto, dove è riscontrabile la
presenza di incrostazioni in pasta vitrea colorata nella decorazione di templi e
palazzi; molto probabilmente in epoca ellenistica sotto il regno dei Tolomei si
trassero vantaggi dai progressi della lavorazione del vetro e sembra che proprio
dall’Egitto i m a pasta vitrea ed a smalto si diffusero in Siria, in Asia Minore
ed in Italia. Anche in Iran, fin dall’epoca elamitica, si conoscono esempi di
questa tecnica destinata a sviluppi originali durante il periodo islamico sotto
forma di m in ceramica smaltata: un tipo di tecnica che dalla regione uranica si
diffuse dal X sec. in India.
La maggior solidità rispetto ai dipinti e la possibilità di raggiungere,
attraverso l’accostamento di vari materiali generalmente di colore diverso,
effetti chiaroscurali e cromatici propri della pittura, ha spesso favorito
l’insorgere nella storia del m di atteggiamenti contrapposti e concorrenziali
nei confronti della stessa. Come sottolinea l’archeologo Jean Lassus «... anche
se i romani non se ne resero sempre conto, il m è un’arte a sé, diversa dalla
pittura», ma a suo avviso «i mosaicisti dovettero sempre scegliere tra due
atteggiamenti contrapposti. O la tecnica era un ostacolo da superare e l’opera
doveva giungere ad annullare nel risultato il suo stesso procedimento tecnico e
quindi mimetizzarsi con la pittura, o all’opposto presero coscienza della
diversità espressiva di tale tecnica considerandola un mezzo a sé che consentiva
ricerche ed effetti diversi dalla pittura». Questo atteggiamento trova conferme
nel tipo di elaborazione delle tessere stesse e dei vari modi di messa in opera;
infatti se nei più antichi, esse si configurano secondo un reticolo geometrico
compatto e regolare, nei m successivi va sviluppandosi un tipo di disposizione
che segue l’andamento della figurazione, presentandosi spiraliforme o curvilinea
fino ad imitare l’andamento delle pennellate della pittura nel XIII e XIV sec.
Il procedimento di posa delle tessere ed il materiale usato per fissarle non fu
sempre identico e fu determinato dalle diverse applicazioni cui fu soggetto il
m: nei m pavimentali antichi greco-romani, ad esempio, veniva usato un miscuglio
di pozzolana, polvere di marmo o laterizio e calce spenta mescolata ad acqua,
mentre in epoca cristiana e bizantina il triplice strato del supporto e la
preparazione del vero e proprio letto di posa del m parietale trova stretta
parentela con la preparazione dell’affresco. Sia gli elementi multicolori di
forma più o meno regolare – quadrata, rettangolare, trapezoidale, triangolare –
chiamati dai greci abakiskoi, dai romani abaculi o tesserae o tesselae che
variano di misura da pochi mm a più di un cm quadrato – rastremati all’estremità
per consentirne il perfetto inserimento e favorire la necessaria rifrazione
della luce –, che l’indicazione delle varie tipologie del m ebbero diversa
denominazione a seconda del tipo di materiali e forme usati. Le fonti antiche
parlano di lithostrota (Plinio, Libro XXXVI della Naturalis Historia, «Lithostrota
coeptavere iam sub Siila»), termine usato in senso lato per indicare «pavimenti
a m di pietra» che si possono far risalire già alla cultura egea del periodo
neolitico (m di sassolini e conchiglie sono documentati a Creta). Alcuni
esemplari di queste pavimentazioni a ciottoli dell’antica Grecia – indicati come
opus alexandrinum – presentano disegni bianchi su fondo nero, mentre talvolta è
già presente l’elemento cromatico che costituirà il fondamentale carattere dei m
posteriori (rinvenimenti risalenti al V-IV sec. a. C. ad Olinto, Atene, Pireo,
Sparta, Morgantina in Sicilia, Corinto, Olimpia, Pellene, Tarso); questi m
presentano generalmente una decorazione tipica dell’ornamentazione
architettonica in uso con bordo ornato da elementi vegetali, viticci, girali e
meandri, al cui interno erano inserite scene di caccia o lotte tra animali
spesso tratte dai motivi della pittura vascolare. A Pella in Macedonia (m
raffigurante la Caccia al leone del IV sec. a. C.), la raffigurazione va
assumendo carattere plastico sottolineato dall’espediente del contorno delle
figure ed alcuni m raggiungono spiccati effetti pittorici. Lentamente, ai
ciottoli si sostituirono elementi maggiormente elaborati nella forma (cfr. m di
Asso), fino alla comparsa di tessere dal taglio raffinato e di vario materiale
in epoca ellenistica (cinque m rinvenuti ad Alessandria di cui uno a firma di
Sophilos).
Il primo m a tessere è documentato da una fonte letteraria (Ateneo, V libro del
Deipnosophistai), in cui è descritto il m che il re Cerone di Siracusa richiese
per ornare il ponte della sua nave (270-216 a. C.) composto da tessere di
diverso materiale anche semiprezioso in opus tessellatum. All’incirca a
quest’epoca deve risalire il citato opus tessellatum composto di tessere
marmoree documentate in particolare a Delo (Casa delle maschere, datata alla
seconda metà del II sec. a. C).
Tralasciando d’entrare nei particolari dell’interpretazione delle fonti, sembra
comunque che sia Plinio che Vitruvio (VII libro del De Architectural abbiano
indicato con lithostrota le varie specie di pavimentazioni a m sia in opus
sedile, che tessellatum o vermiculatum. Un esempio citato da Plinio – oltre ai
rinomati lithostrata con paesaggio nilotico del citato tempio di Preneste
(Palestrina) – è quello di Pergamo che fu sede di una importante scuola di
mosaicisti diretta da Sosos (cfr. Plinio, Naturalis Historia, XXXVI, 60,184: «L’artefice
più celebre di pavimenti a m fu Sosos, che a Pergamo fece il pavimento noto con
il nome di asaroton oecon, perché con tasselli piccoli e tinti di vari colori vi
aveva disegnato, come se vi fossero stati lasciati sopra, i rimasugli della
tavola ed altri rifiuti che abitualmente si spazzano via; c’è una stupenda
colomba che beve ed oscura l’acqua con l’ombra del capo, mentre altre prendono
il sole e si grattano sul bordo di un cantaro»).
Sempre all’età ellenistica possono essere ricondotti i m pavimentali della villa
venuta alla luce a piazza Vittoria a Palermo (si riscontra la presenza di un
soggetto con Alessandro simile a quello della casa del Fauno a Pompei) o quello
proveniente dalla villa di Rabat a Malta. Una nota chiarificatrice sulle diverse
tipologie di m si può trarre da Varrone nel Rerum Rusticarum (in, 2, 4) che
differenzia gli emblemata dai lithostrota; con il termine emblema venivano
indicati pannelli figurati spesso inseriti in una cornice costituita dall’opus
tessellatum e si presentavano come elementi a sé stanti, vere e proprie opere
d’arte dissimili dal contesto anche nella tecnica: l’opus vermiculatum, che più
di tutte si apparenta alla pittura – ad esempio a Delo sono state trovate al
centro delle pavimentazioni dei patii emblemata montati a parte su una lastra in
cotto o in ardesia e poi incorporati in una decorazione d’insieme geometrica,
realizzati con piccole tessere tagliate in pietre semipreziose e vetri colorati
con figurazione ispirata alla pittura vascolare (m di Dioniso a cavallo di una
pantera – in situ). Dagli studi archeologici risulta che gli emblemata venivano
prodotti a parte per essere poi inseriti nella cornice musiva in una forma il
cui fondo era costituito generalmente da una lastra marmorea contornata da
tavole di legno e ricoperta da uno strato di cemento; il procedimento facilitava
anche il trasporto di questi «quadri» musivi, prodotti per la gran parte in
Grecia. L’inserimento dell’emblema veniva attuato liberandolo dalle tavole di
legno perimetrali con il conseguente incastro del m nel pavimento preparato allo
scopo (questo tipo di procedimento trova conferme in numerosi pavimenta cfr. ad
esempio il m delle colombe a Villa Adriana a Tivoli).
Più in generale nell’antichità furono in uso tecniche musive assai diverse: dal
primitivo e semplice pavimento che presenta un insieme di piccoli elementi
irregolari chiari e scuri (sassolini o ciottoli), su fondo unito in genere rosso,
alla sua evoluzione in area romana con l’opus signinum (cocciopesto) – di
origine greca ed usato esclusivamente per le pavimentazioni era costituito da
schegge di porfido o marmo inserite a caso su una base di terracotta macinata e
calce colorata di rosso-, all’opus segmentatum con inserimenti marmorei colorati,
fino a giungere alle tecniche più elaborate, in particolare le tre principali
dette opus sectile, opus vermiculatum ed opus tessellatum. L’opus sectile –
usato in genere per la decorazione di pareti – era costituito da crustae di
pietre dure e marmi di varia grandezza, forma e colore tagliate secondo i
contorni del soggetto rappresentato realizzando superfici che si avvicinano nel
risultato alla pittura per grandi macchie di colore. Nell’opus tessellatum
venivano invece utilizzate tessere pressocché cubiche o rettangolari di varia
dimensione a seconda della loro funzione; prevalentemente dicromico (in bianco e
nero), ma talvolta vi compaiono inserimenti di colore (rosso, giallo, verde) per
effetti particolari. Questi due tipi di m sembrano strettamente dipendenti, ed è
probabile che l’opus tessellatum – sviluppatesi appieno nel I sec. a. C. –
derivi dall’evoluzione dell’abacus greco di forma quadrata, usato per l’opus
sectile a scacchiera detto opus pavimentum, in abaculus o tesserula o tessella
che ricorda l’antecedente anche nella disposizione simmetrica delle tessere.
Diverso è il discorso per l’opus vermiculatum, tecnica probabilmente originatasi
in Oriente (cfr. in Egitto, pannello del Museo Egizio di Torino); la principale
differenza consta nel tipo di forma delle tessere: disposte in file
dall’andamento curvilineo, esse sono di forma diversa, spesso minutissima; i
materiali usati sono piuttosto ricercati: marmo, lapislazzuli, diaspro,
cornalina, alabastro, agata, onice, frammenti di pasta di vetro. La preziosità
della materia, la raffinatezza del taglio e la ricchezza della policromia che
consentivano di ottenere risultati assai vicini alla pittura, ne fanno un vero e
proprio parallelo dell’arte pittorica, cosa avvalorata dal fatto che questo tipo
di m venne utilizzato principalmente per gli emblemata. Dal vermiculatum deriva
anche l’opus musivum chiamato anche metalla ed usato per il m parietale.
L’uso dei m pavimentali ebbe vasta diffusione; nel mondo romano, il m introdotto
a Roma all’epoca della terza guerra punica (metà del II sec. a. C.: cfr. Plinio,
Naturalis Historia, Libro XXXVI), riscosse straordinario favore durante l’Impero
e venne utilizzato in tutte le sue forme: pavimenti, rivestimenti murali,
emblemata a decorazione figurata o geometrica. La tecnica più comune fu quella
dell’opus tessellatum e dal I sec. a. C. alla prima età imperiale hanno
grandissima diffusione gli emblemata ed i pavimenta improntati al pittoricismo
della tradizione ellenistica. I migliori esempi provengono da Pompei con
rappresentazioni di scene di animali, nature morte, scene pittoriche (vedi il
famoso pannello della Battaglia di Alessandro contro i Persiani, intorno al 100
a. C., proveniente dalla Casa del Fauno, ora al mn di Napoli), soggetti (Napoli,
mn) in rapporto con la corrente baroccheggiante di Pergamo precedenti alla
tendenza neoattica e classicheggiante, e quelli ritrovati nel sito del Tempio
della Fortuna eretto da Silla. Grande rilevanza artistica rivestono i m sparsi
un po’ ovunque nelle province dell’impero (si ricordano i m di Zilter; Vienne;
Ampurias in Spagna; di Lucera in Italia).
Accanto al m policromo in ambito romano si sviluppano altre tipologie decorative
come ad esempio i motivi a reticolato, «griglie e combinazioni di quadrati,
rombi e triangoli della Casa del Labirinto di Pompei o il tipo di pavimentazione
dicromica in bianco e nero definita «severa» usata per la decorazione di
ambienti termali (motivi marini ma anche il tema dei giochi sono i soggetti
favoriti, m delle Terme di Caracalla), una tipologia che anche durante il
periodo antonino ed adrianeo raggiunse alti livelli di realizzazione (si ricorda
uno dei migliori esempi costituito dal m della Villa Adriana di Ostia).
Se la tradizione ellenistica sembra prolungarsi fin al VI sec. con la scuola
antiochena e la scuola byzacena che produsse i m delle terme di Traiano ed il
thiasos marino di Acholla, nel mondo romano durante il tardo impero l’uso del m
si estese anche alla decorazione di vaste superfici raggiungendo risultati di
grande ricchezza cromatica e profusione di motivi figurativi (cfr. il m della
villa imperiale di Piazza Armerina databile al VI o IV sec.; m delle terme di
Aquileia del 250 ca.; di Dyonisos a Treviri; dei Giochi di Bellerofonte a Reims,
di Perseo e Andromeda a Tarragona). Ma dal periodo severo alla Tetrarchia si
assiste ad una progressiva schematizzazione degli elementi figurati che da luogo
ad un tipo di decorazione esclusivamente piana che esclude ogni rapporto con la
mimesi pittorica e realistica dei precedenti esempi. Se il gusto per lo
sfavillio e lo splendore di queste «pitture di pietra» perse
progressivamente-volgarizzandosi– le squisite qualità dovute all’elaborazione di
squadre di artisti rinomati, spesso provenienti dai centri ellenistici, l’uso
del m pavimentale verrà lentamente sostituito tra il IV e VI sec., nel mondo
cristiano, dall’uso del m parietale in larga scala.
Anche se non ebbe lo stesso tipo di sviluppo che nel mondo antico, cospicue
sopravvivenze di m pavimentali o derivazioni da questi, sono comunque
documentale nel mondo cristiano sia ad Oriente che ad Occidente; in particolare
un tipo di tecnica, derivante dall’opus sectile e più propriamente definibile
come intarsio marmoreo, venne comunemente usata sia a Bisanzio che
nell’Occidente medievale. Vanno ricordati a questo proposito i cosiddetti «m
cosmateschi», rivestimenti pavimentali e più raramente parietali composti di
piccoli elementi in marmo e pietra dura ritagliati secondo forme geometriche e
assemblati secondo composizioni a stella. Sono comunque da ricordare ancora nel
VII sec. pavimentazioni a m nella Palestina e nelle zone circostanti che
inseriscono nel repertorio decorativo anche elementi geografici e cosmografici.
In Occidente oltre alle testimonianze di decorazioni pavimentali geometriche (Grado;
Francia a Saint-Quentin nel IXsec.), sopravvivenze della tradizione sono
documentate nell’Europa tra l’XI e XIII sec.: in Francia (Saint-Denis; Reims),
nella Renania (Colonia, San Gereone), nel nord dell’Italia (Casale Monferrato;
Pavia, San Michele; Ravenna, San Giovanni Battista), nel centro a Pesaro,
Montecassino e nel sud (Otranto; in Sicilia), presentando tipologie figurative
assai ricche; oltre ai temi classici del periodo paleocristiano e bizantino, è
documentata la presenza di temi profani, soggetti enciclopedici riferibili non
solo alla geografia e cosmografia, ma anche alla raffigurazione delle Arti
liberali e dei Vizi e Virtù, e talvolta con inserimenti di temi storici e
leggende.
Il termine opus musivum o metalla indicava un tipo di tecnica in cui venivano
utilizzati cubi di smalto e pasta vitrea che si diversificava dal pavimentum
tessellatum e dal opus» sectile, designando probabilmente in modo esclusivo il m
parietale; la particolarità della tecnica risulta anche dalla considerazione in
cui veniva tenuta (cfr. l’Edictus praetiis di Diocleziano in cui il musearius –
artigiano addetto ai m di pasta vitrea – era maggiormente considerato rispetto
al Lapidarius – artigiano addetto ai m di pietra pavimentali). Pur conservandosi
quasi esclusivamente m pavimentali, sotto l’impero romano si fece uso anche di m
parietali più direttamente dipendenti dai modelli pittorici, con l’aggiunta di
pietre semipreziose, marmi e pasta vitrea (esempi del ii, iii e iv sec. sono
stati ritrovati a Pompei, Ercolano, Tivoli, Ostia, nicchia con il dio Silvano
ora al Museo Lateranense di Roma). Il musivum parietale, probabile sviluppo
dell’opus vermiculatum, era considerato più affine alla pittura: nello stesso
Plinio (Naturalis Historia, libro XXXVI, 64,189), il rivestimento parietale a m
è equiparato alla decorazione cromatica delle pareti in stucco e pittura. L’uso
della pasta vitrea non era comunque sconosciuto nell’antichità (in Egitto sono
presenti elementi invetriati di colore verdastro nella piramide di Sakkarah);
Plinio documenta esempi di m a pasta vitrea (Naturalis Historia, libro XXXVI,
64,189: «Quindi i pavimenti a m, scacciati dal suolo, si estesero fin sulle
volte e furono fatti di vetro. Anche questa è un’invenzione recente»), ma un
riferimento esplicito, lo si trova solo nel libro del monaco Teofilo (De
Diversis artibus, libro II, cap. xii), in cui è citata la presenza di materie
vitree negli antichi edifici pagani in piccole tessere quadrate e colorate (bianco,
rosso, nero, azzurro, giallo). Inoltre la presenza di elementi di materia vitrea
è attestata in pavimenti greci e romani (Delo, Casa delle Maschere, II sec. a.
C. ca.; Pompei; Ercolano; Ostia, Casa dei Sette Savi). Tra i citati esempi
antichi di musivum parietale, nessuno presenta però la grandezza ed il tipo di
sviluppo tecnico riscontrabile nella produzione cristiana. La base della
preparazione non si presentava spesso pareggiata in modo uniforme come per i
pavimenti; il m del resto veniva sfruttato per la sua essenza frammentaria che
ben si adattava alle strutture curve di absidi ed absidiole e le tessere erano
disposte in modo irregolare in modo da permettere una variata rifrazione della
luce. L’effetto da raggiungere era determinato da un tipo di ricezione
complessiva, d’insieme, e non particolare; i colori si diversificarono dagli
esempi precedenti e vennero utilizzati materiali che risultassero splendenti e
leggibili anche in ambienti poco illuminati; si fece uso dell’oro per gli sfondi
o dell’azzurro (lapislazzuli nel Mausoleo di Galla Placidia) e fu in voga l’uso
di colori a contrasto con l’inserimento di elementi semipreziosi per ravvivare
l’insieme.
Lo stile variò di pari passo con gli svolgimenti dei fatti figurativi,
presentando riferimenti alla cultura classicheggiante ellenistica evidente nel
rendimento plastico della figurazione, l’impronta realistica dello stile romano,
fino a trovare a Ravenna un punto di contatto con la tradizione astrattiva
orientale-bizantina. Si utilizzarono per lo più tessere di pasta vitrea di vario
formato a seconda della loro funzione (più piccole e spesso di marmo per i volti
e la resa degli incarnati), oltre alla terracotta o madreperla usate per i
particolari (cfr. m di San Vitale: il Corteo delle Vergini). L’oro e l’argento,
usati in gran profusione, venivano utilizzati in foglia insieme ad un sottile
strato di pasta vitrea trasparente, colato ancora caldo e poi cotto insieme alla
foglia metallica.
Durante l’epoca bizantina i colori raggiunsero un altissimo grado di
elaborazione delle possibilità tonali, si pensi ad esempio ai toni di blu usati
nei m di Santa Sofia a Costantinopoli o all’uso di tessere di colore misto. Un
primo nucleo di m ancora legati alla tradizione classica proviene da Roma; tra i
primi è da citare quello di Santa Costanza che presenta figurazioni dionisiache
su fondo bianco rispecchianti gli assarota pavimentali, mentre nelle nicchie
compaiono la traditio legis e la traditio clavium improntate, in contrasto con
il resto del complesso, ad uno stile più espressionistico. Il m absidale più
antico, connotato dall’impronta realistica dell’arte romana, è quello di Santa
Pudenziana risalente allo scorcio del IV sec.; risalenti al V sec. e di grande
interesse sono quelli dell’arco trionfale della basilica di Santa Maria Maggiore
che presentano uno stile più ieratico rispetto a quelli di Santa Pudenziana,
mentre nei m della navata va rivelandosi l’influsso di archetipi miniati.
Sviluppi ulteriori sono dati dal m dei Santi Cosma e Damiano parallelo a quello
di San Teodoro; quelli di San Martino ai Monti e San Lorenzo fuori le mura.
Nell’Italia meridionale alcuni esempi di m si conservano nel battistero di San
Giovanni in fonte (Napoli) a cavallo del IV-V sec. vicino a quello di Santa
Costanza, a Santa Maria Capua Vetere (cappella di Santa Matrona in San Prisco) e
ad Otranto. Nell’Italia del nord sono da ricordare i m di Milano (San Aquilino,
della metà del V sec.; San Vittore in cielo d’oro, posteriore), ed Albenga (metà
del V sec.). Diverso è il discorso per i m ravennati (Ravenna) punto d’incontro
tra la tradizione greco-romana ed il nuovo apporto bizantino. I m più antichi
sono quelli del Mausoleo di Galla Placidia del 430 ca. improntati ad uno stile
realistico come anche quelli del battistero neoniano, più tardi, mentre vanno
assumendo caratteri astrattizzanti i m del battistero degli Ariani della fine
del V sec., seguiti poi dalla decorazione interna a m in Sant’Apollinare Nuovo
databile all’incirca alla metà del vi sec. – e San Vitale.
La realizzazione tecnica è influenzata dall’affresco ampiamente praticato per la
decorazione degli interni di chiese, come hanno notato sia P. Toesca che F.
Forlati. È ormai provato che gli antichi mosaicisti – dopo aver eseguito sullo
strato di preparazione che faceva da supporto disegni d’insieme trovati sia a
Ravenna che a Monreale – realizzavano in colore pieno, sull’ultimo strato di
preparazione costituito da polvere di marmo e calce, la scena da rappresentare
che veniva tradotta immediatamente in m dall’artista e dagli aiuti prima che la
preparazione seccando si solidificasse. Ci si trova dunque in presenza di una
pittura a fresco, trasformata però in rivestimento murario inalterabile,
composto da tessere di marmo e smalti. Questa tecnica, praticata in Veneto a
Murano e Torcello, venne utilizzata in tutta l’Italia ed in particolare a
Firenze in due importanti monumenti: il battistero di San Giovanni (XIII sec.)
ed il m dell’abside di San Miniato al Monte (risalente al 1297) rappresentante
il tipico tema della tradizione bizantina, con il Cristo Pantocrator.
Stretta somiglianza, pur nella diversità d’impronta, hanno i m prodotti
nell’Oriente cristiano. Qui, la forte correlazione simbolica tra architettura
chiesastica ed immagine, regola la decorazione musiva bizantina secondo un
canone iconografico che inserirà dal VI sec. in poi poche varianti (nell’XI e
XII sec. ai principali modelli iconografici del Pantocrator circondato dai
Profeti nella cupola e alle raffigurazioni della vita di Cristo nelle vele e
della Vergine nel catino absidale, si aggiunge il coro degli apostoli e la
rappresentazione degli Evangelisti nei pennacchi; cfr. Nea Moni di Chio). Le
parti a m si accompagnano alla decorazione ad incrostazioni marmoree e a larghi
campi di tessere d’oro, giungendo a risultati di grande luminosità ed effetto
cromatico. L’uso di avvolgere pressocché interamente le pareti delle chiese con
m, sviluppatosi già nel V sec. (un esempio di decorazione integrale rimane
durante il periodo iconoclasta l’interno di Santa Prassede a Roma: cappella di
San Zeno dell’817-24), conobbe massimo splendore nell’epoca «classica» dal 900
al XII sec. ca. con il profondersi, nella decorazione, di elementi narrativi
particolareggiati. Il m non cessò d’esercitare la sua funzione fino al XIV sec.
(cfr. m di Daphni; Santa Sofia a Salonicco; Santa Irene a Costantinopoli; Porta
Panagia e Qahriyye Giami a Costantinopoli); accanto alla decorazione delle
chiese si eseguirono, in specie durante il periodo dei Paleologhi, icone
portatili che forse possono farsi risalire già all’XI sec. Questo tipo di m, a
differenza di quelli su pannello da inserire in seguito in contesti prefissati (iconostasi),
erano vere e proprie tavole a sé stanti le cui tessere venivano fissate da cera
o mastice; le dimensioni potevano variare fino a raggiungere dimensioni
estremamente ridotte (6 x 1o cm) con tessere musive minutissime (1x2 mm). Questo
tipo di tecnica miniaturistica, che ricorda gli emblemata del periodo
ellenistico, raggiunse la perfezione nel primo periodo della dinastia dei
Paleologhi (icona di San Giovanni Battista, nella coll. Dumbarton Oaks: ciclo
delle Dodici Feste: Firenze, Museo dell’Opera del Duomo).
Alla produzione bizantina si ricollegano a vario titolo numerosi cicli medievali
occidentali e delle zone limitrofe (m di Santa Sofia a Kiev del XI sec.: Cupola
della Roccia a Gerusalemme del 691-92 risalente al periodo Ommayade);
nell’Italia del sud, nella Sicilia normanna riferimenti bizantini si
accompagnano a caratteristiche estranee allo stile greco-ortodosso (m di
Messina; Palermo, m del XII sec. della cappella Palatina, di Santa Maria
dell’Ammiraglio, la Zisa; Monreale); ma ancora a Roma si formarono scuole di
mosaicisti locali sotto l’influsso bizantino. Caratteri bizantini conservano
ancora – oltre al gruppo di m del VI e VIII sec. (Santi Nereo ed Achilleo; Santa
Prassede; Santa Maria in Domnica; San Marco e l’episodio più strettamente
costantinopolitano dei m dell’oratorio di Giovanni VII, 205-207) – i m del xii e
xiv sec. (absidi di San Clemente, Santa Maria in Trastevere, Santa Maria
Maggiore).
Botteghe miste in cui sono attive maestranze bizantine ed occidentali
caratterizzano le più antiche decorazioni a m di Venezia, centro che dal IX al
XII sec. va acquisendo una sua autonoma fisionomia politica esemplata dal
progetto decorativo della chiesa di San Marco, durato fino al XIV sec. (4500
metri di m). Qui l’iniziale eterogeneità ed incoerenza stilistica in cui si
fondono diversi influssi delle province orientali (frammento della Deposizione,
1094: Museo Marciano) giunge ad una compiuta elaborazione locale nel 1200
inserendo richiami al linguaggio gotico occidentale (Orazione nell’orto, lato
sud del braccio occidentale). L’impronta delle maestranze (chiamate a Roma da
Onorio III per i m di San Paolo fuori le mura) e dei modelli veneziani è
riscontrabile nell’entroterra e nella fascia dalmata: a Ravenna (m del 1112
dalla basilica Ursiana distrutta nel 1734, conservati nel Museo Arcivescovile);
Ferrara; Aquileia (cattedrale, m della prima metà del xii sec.); Torcello (cattedrale);
Zara (San Crisogono, fine XII sec.); Trieste (San Giusto, XIII sec.); Parenzo
(basilica eufrasiana, 1277).
Proprio tra il XII e XIV sec. sia a Roma che a Firenze (m del Battistero;
Cimabue, m dell’abside del duomo di Siena) si sviluppò una scuola autonoma di
mosaicisti che come nel caso del Torriti e Cavallini partendo dagli esempi
bizantini uniformò lo stile del m alle nuove tendenze pittoriche (va ricordato
il m della Navicella di San Pietro di Gioito; o i m inseriti nella facciata
tripartita del duomo di Orvieto, rifatti tuttavia in epoca moderna) fino a che
alla fine del XIII sec. il m non si arrese completamente al nuovo gusto del
racconto affrescato ed alla spazialità gotica.
La tradizione della decorazione a m si prolunga nel XV sec. ed è legata agli
interventi nei cantieri medievali di San Marco a Venezia dove lavorano Paolo
Uccello (documentato nel 1425 come «magistro musayci» e Andrea del Castagno (lunetta
a m con San Giorgio, 1440-50: nella sagrestia), i quali ebbero sicuramente modo
di familiarizzarsi con questa tecnica attuata a Firenze nel cantiere di Or San
Michele – si ricorda al proposito che il tabernacolo della statua di San
Giovanni Battista del Ghiberti comprendeva nel timpano «una mezza figura di uno
profeta di musaicho». Più avanti nel secolo il recupero tecnico del m fu
motivato non solo dalla necessità di restauro degli antichi edifici fiorentini
come il battistero – dove lavorò Baldovinetti (m dell’arco della Porta Nord,
1453; m della Porta del Paradiso, 1455), ma s’inserì nel programma umanistico di
recupero delle forme classiche già evidente in Donatello (cattedrale di Prato,
1428-38; Cantoria del duomo, 1433-39) che ebbe, stando al Vasari, una «rinascita»
al tempo di Lorenzo de’ Medici «il quale, come persona di spirito e speculatore
delle memorie antiche, cercò di rimettere in uso quello che molti anni era stato
nascosto; e perché si dilettava delle pitture et delle sculture, non potette
ancora non dilettarsi del musaico» (Vasari, Vita di Gherardo, ed. Milanesi, III,
p. 237). Il revival appoggiato dagli ambienti umanistici, non da ultimo per la
pretesa «fiorentinità» della tecnica (cfr. gli elogi di Giotto mosaicista del
Landino e dell’Alberti), ebbe il suo momento di gloria non solo quale
decorazione di strutture monumentali, ma anche come riproposizione di «quadri di
musaicho» (cfr. m con Busto di san Pietro, della bottega del Ghirlandaio, 1490
ca.: Firenze, mn del Bargello).
Se alla fine del XV sec. l’episodio revivalistico sembra concludersi a Firenze,
Roma e Venezia saranno i centri in cui la tecnica sopravviverà, in particolare
nei due cantieri del Vaticano e di San Marco. A Venezia «quella maniera di
pittura che è quasi dimessa in tutti gli altri luoghi, si mantien viva dal
serenessimo senato di Vinezia; cioè il mosaico, perciocché di questo è stato
quasi buona principal cagione Tiziano» (Vasari, Vita di Tiziano, ed. Milanesi,
VII, p. 466) e si perpetuerà ancora con i m di San Marco per i quali fornirono i
cartoni oltre al citato Tiziano, il Veronese, Tintoretto, L. Volto, S. Ricci
radicandosi poi a Roma intorno al cantiere di San Pietro. A Roma l’utilizzo del
m documentato negli antecedenti delle incrostazioni di pasta vitrea negli
Appartamenti Borgia con Pinturicchio, e nelle Stanze Vaticane (soffitto della
Stanza della Segnatura), andrà perdendo la sua autonomia espressiva a favore di
una piatta imitazione della pittura fino a venir considerato una «pittura fatta
di pietra «(cfr. disegni forniti da Raffaello a Luigi De Pace – uno dei rari
artisti specializzati in questa tecnica – per la volta della cappella Chigi in
Santa Maria del Popolo). In epoca tardo-manierista, collegato al revival
paleocristiano nasce il centro di lavorazione del m: lo Studio Vaticano del m
attivo ancora oggi sotto l’impulso del progetto decorativo della basilica
Vaticana, il cui primo episodio fu il parato musivo della cappella Gregoriana
per il quale fornì i cartoni Girolamo Muziano (1578-1580); seguirono poi
interventi su cartoni di Cesare Nebbia, il Pomarancio, il Cavalier d’Arpino che
ne diresse anche i lavori ed ancora nel XVII sec. si segnalano, tra i vari
artisti che collaborarono con cartoni, Maratta e Ciro Ferri.
L’attività dello Studio Vaticano – che ebbe tra i vari direttori anche Pier
Leone Ghezzi tra il 1743 ed il 1755 – nei sec. XVIII e XIX si assunse il compito
di copiare in m le tele delle cappelle della basilica soggette alla rovinosa
azione dell’umidità (copia in m della Trasfigurazione di Raffaello su cartone di
S. Pozzi, 1759-67) e proprio nel Settecento la sperimentazione del laboratorio
diede vita a notevoli progressi tecnici (studi del chimico A. Mattioli sulle
possibilità d’applicazione di paste vitree opache di infinite gradazioni di
tinte) che furono applicati alla produzione di m «in piccolo» secondo il gusto
laico del neoclassicismo (cfr. m di Giove di Otricoli, sulla tabacchiera donata
da Pio VII a Giuseppe Bonaparte, Roma, Museo Napoleonico), trovando vasto spazio
nel mercato romano quali «oggetti» richiesti dai viaggiatori stranieri.
Nel XX sec. il m è tornato in auge quale espressione plastica e decorativa,
ritrovando un suo spazio nell’ornamentazione architettonica. Fin dai primi anni
del secolo il pittore austriaco Gustav Klimt scelse questa tecnica per
realizzare due grandi pitture murali nel palazzo Stoclet costruito a Bruxelles
da Josef Hoffmann. A Barcellona, Gaudì coprì di frammenti di ceramica costituiti
da detriti di vario genere le strutture del parco Güel (1906-14). Gino Severini
rispolverò la tecnica del m a partire dai m ravennati creando intorno a sé in
Francia una scuola dalla quale si svilupperanno le realizzazioni dei pittori
Chagall, Beaudin, Singer, Louttre, Irene Zack, Aurelia Val. Ancora in Italia
negli anni Venti del XX sec. di pari passo con la riscoperta dell’affresco ed il
recupero della tradizione, Sironi e Severini, in particolare, ne esaltarono le
capacità tecniche: «L’attuale rinascita decorativa, evidente ed in atto, se non
proclamata, dimostrerà che le possibilità del m non sono esaurite. E non è
affatto necessario che il m ritrovi le patine d’oro, il glorioso mistico
splendore dell’arte bizantina. Sarà sufficiente dare la dimostrazione di aver
capita la grande lezione» (Sironi nell’articolo Racemi d’oro del 1935 ora in
Scritti editi ed inediti, Milano 1980). Proprio in quegli anni la legge del 2
per cento (stanziamento particolare accordato ai lavori decorativi nelle opere
d’edilizia pubblica), aprirà possibilità all’impiego monumentale del m che nei
risultati il più delle volte deludenti, sarà improntato ad un classicismo
paludato, volgarizzazione dell’imperante retorica della romanità (tra gli altri,
cfr. il Foro Italico: Fontana su progetto di Paniconi & Peliconi, m di Angelo
Canevari); al m si rivolsero anche artisti come L. Fontana, che, sulla scorta
delle ricerche futuriste combinarono tecnica musiva e scultura (Il Gallo, 1948:
Roma, gnam). In Francia il m conobbe un rinnovamento dopo la seconda guerra
mondiale con la legge dell’1 per cento (simile negli intenti alla legge fascista
degli anni Trenta); vennero così realizzate le grandi pareti di F. Rieti
dall’architetto Emile Aillaud, di Ubac (Facoltà di scienze di Orsay), di
Bissière (Facoltà di lettere di Bordeaux-Pessac).