Rappresentazione grafica di oggetti o figure, eseguita con materiali diversi e
su supporti di varia natura. Si parla di d per i contorni che definiscono la
forma dipinta. Nella storia dell’arte, a partire dal XVI sec., il d indica,
spesso, il momento progettuale dell’opera, l’elaborazione dell’idea. «In primo
luogo si chiama d l’idea di un quadro, che il pittore mette su carta o su tela
per giudicare l’opera che immagina [...]. Si chiamano (anche) d le giuste misure,
le proporzioni e i contorni, cne possono dirsi immaginari, degli oggetti
visibili» (Roger de Piles).
Il d può essere una prima definizione lineare, corsiva e sintetica dell’insieme
di una composizione (schizzo), oppure la notazione del movimento e delle linee
organiche di un modello (studio), oppure la definizione sommaria degli elementi
principali di una scena con figure o di un paesaggio; può essere anche
considerato un’opera in sé compiuta.
I seguenti termini tecnici specificano le varie categorie di d:
disegno come esercizio accademico: d da un rilievo o da un calco a tutto tondo
architettonico: d che rappresenta la pianta, la sezione o l’alzato di un
edificio; a tre matite: d a pietra d’Italia (o pietra nera) e a sanguigna
lumeggiata con gessetto bianco per la luce; a sfumo: d eseguito con un materiale
morbido e friabile che si può pareggiare con lo sfumino (pezzetto di carta
arrotolato); le ombre a carboncino sono sfumate; geometrico: d che riproduce le
proporzioni geometriche d’un oggetto; grafico: d di sezioni, piante, ecc.
applicato alle scienze esatte; a tratteggio: d le cui ombre sono rese mediante
tratteggi paralleli, a penna o a matita; d’imitazione: d eseguito per imparare a
riprodurre i contorni di figure, paesaggi e ornati; acquerellato: d ombreggiato
mediante inchiostro di china o colorato con pigmenti diluiti in acqua;
leucografico: d in bianco su fondo nero; lineare: d tecnico impiegato per
rappresentare ornamenti, oppure oggetti di interesse industriale; a mano libera:
d eseguito senza riga e compasso e trattato con grande libertà; dal vero: d da
un modello vivente o da un paesaggio reale; ombreggiato: d nel quale vengono
esaltate le ombre e le luci; picchiettato: d il cui contorno è traforato per
consentirne la duplicazione (spolvero); topografico: d che riproduce la
configurazione del terreno o il rilievo del suolo mediante curve di livello o
tratteggio; al tratto: d che presenta soltanto i profili delle figure.
L’evoluzione delle tecniche e dei vari procedimenti del d dipende strettamente
da quella dei particolari stili di ciascuna epoca e dai presupposti estetici
degli artisti disegnatori. Il carboncino È senza dubbio tra i procedimenti piú
antichi.
Fino al XV sec., il d era considerato soprattutto una fase preparatoria del
procedimento creativo. Il carboncino (carbone di salice o di tiglio), potendosi
facilmente cancellare e consentendo cosí le correzioni, venne impiegato fin
dall’antichità da parte degli artisti per realizzare l’abbozzo delle
composizioni murali a tempera o a fresco, o come procedimento di studio su
pannelli di bosso o di fico coperti da una preparazione (gesso o polvere d’osso
mescolati a colla di pelle). Solo verso la metà del XVI sec. s’intraprendono
ricerche per fissare il carboncino sul supporto. Si giunse, in seguito, ad
immergere il disegno stesso in un bagno d’acqua con aggiunta di gomma arabica, e
infine a polverizzare sul d una soluzione di gomma; alcuni d di scuola bolognese
del XVII sec., fissati secondo tali metodi, si sono conservati bene. Solo nel
XIX sec. il carboncino divenne una tecnica autonoma di d, grazie ad artisti come
Delacroix, Corot, Millet e piú tardi Seurat e Odilon Redon.
Le punte metalliche
Le punte in oro, rame, argento o piombo, già conosciute dai romani, sono state
l’unico strumento in uso fino all’inizio del XVI sec. per l’esecuzione di d dal
tratto molto netto. Tale tecnica, che sfrutta le proprietà ossidanti a contatto
con l’aria della traccia lasciata dalla punta metallica, esige una preparazione
preliminare del supporto, carta o pergamena, a base di colla e polvere d’osso.
Il tratto fine, di color bruno (argento e oro) o grigio (piombo), veniva
generalmente associato a lumeggiature in bianco, spesso su carta colorata. Tale
procedimento, che richiedeva grande sicurezza di mano (il tratto indelebile non
consentiva correzioni) fu utilizzato tanto dagli artisti fiorentini (Leonardo,
Verrocchio) quanto da grandi maestri tedeschi (Dürer); ma il carboncino venne
abbandonato fin dall’inizio del XVI sec. in favore di procedimenti meno
impegnativi, come la pietra d’Italia e la sanguigna (ambedue di origine minerale).
La pietra d’Italia, o pietra nera
La pietra d’Italia (scisto argilloso a grana fitta), comparsa nei d del
Pollaiolo, del Ghirlandaio e di Signorelli, venne ampiamente utilizzata da tutti
i grandi artisti del Cinquecento italiano (Raffaello, Leonardo, Michelangelo,
Tiziano, Tintoretto). Gli artisti del Nord – olandesi e fiamminghi –
l’adottarono nel XVII sec. (Ruisdael, Hobbema, Rubens, Van Dyck).
La sanguigna
Conosciuta fin dall’antichità, consentiva d’introdurre nel d una
notazione di colore, adatta a lumeggiare le carni, ed è in tal senso che venne
impiegata da Fouquet, nel Quattrocento, nei suoi ritratti; e poi, nel XVIII
sec., con la tecnica detta «delle tre matite». Di fatto il d a sanguigna
propriamente detto, quello cioè che si vale soltanto di questo materiale sia per
definire i contorni che per notare i volumi e le ombre, compare a Firenze, i d
di Leonardo risalenti agli anni 1470-80 ne sono un esempio prestigioso. Tale
procedimento ebbe successo immenso durante il XVI, XVII e XVIII sec., tanto in
Italia quanto in Francia e nei paesi nordici. Pochi artisti dell’Ottocento se ne
avvalsero, eccetto Renoir.
L’inchiostro
Parallelamente a tutti questi procedimenti, il d a inchiostro e a penna (strumento
prediletto dagli orientali) oppure a pennello, non ha mai smesso di essere
impiegato fino ai giorni nostri. Nel medioevo, d a penna accompagnavano spesso i
testi (Selterio di Utrecht, IX sec.: Utrecht, Bibl. dell’università) o
consentivano di fissare modelli (Taccuino di Villard de Honnecourt: Parigi, bn).
Ben presto, al contorno lineare ottenuto con la penna d’oca (o con un pennello
fine) si diffuse l’uso di disegnare con pennelli diversi per spessore e con
bistro (bruno), inchiostro di china (nero) e nell’Ottocento, seppia (tonalità
bruna piú fredda del bistro), che consentivano la resa delle ombre e, giocando
sul tono della carta lasciata intatta,
della luce. Inoltre, l’artista aveva la possibilità di impiegare lumeggiature
bianche (di solito a tempera). Tutti i grandi artisti, da Leonardo, Raffaello e
Michelangelo a Matisse e Picasso, passando per Rembrandt, Poussin e Delacroix,
si servirono di tali tecniche. Di origine piú recente sono i pastelli, i
gessetti, la matita a grafite.
Il pastello
Venne presto impiegato in Francia da Fouquet, Jean e François Clouet, i
Dumonstier; poi, nel XVI sec., in Italia (Barocci), ma la sua maggior fortuna
risale al XVIII sec., con i ritratti di Rosalba Carriera, La Tour e Perroneau;
per l’Ottocento vanno citati Degas, Toulouse-Lautrec, Odilon Redon.
La grafite
L’impiego della grafite inglese, di origine minerale, che deve il nome al
riflesso metallico del segno lasciato sulla carta, fu divulgato nel Seicento dai
fiamminghi e dagli olandesi (D. Teniers, Cuyp). Questa grafite venne rimpiazzata
nell’Ottocento da quella artificiale, inventata dal chimico francese
Nicolas-Jacques Conté (1755-1805) e impiegata da David e poi da Ingres; da
allora essa è divenuta la tecnica piú diffusa utilizzata per gli studi e gli
abbozzi da Delacroix, Corat, Degas.
Nel campo del collezionismo e della connoisseurship il d ha assai presto
costituito un settore specialistico e autonomo: il Libro de’ disegni di Giorgio
Vasari (diverse centinaia di
fogli raccolti in volumi, successivamente dispersi e confluiti in importanti
sedi museali: Uffizi, Louvre, Albertina, British Museum, Christ Church di Oxford
e altre), e il cosiddetto Codice riunito da padre Sebastiano Resta (oggi a
Milano, Ambrosiana) tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII sec., sono esempi
di collezionismo «mirato» ad una storia dell’arte tramite il disegno. Gli studi
del Richardson (1719), quelli del Mariette sulla coll. Crozat (1741), di
Dézallier d’Argenville e un sempre maggior gusto per i disegni, nel Settecento
contribuiscono a un piú dichiarato apprezzamento del d come opera autonoma e non
esclusivamente finalizzata alle arti «maggiori». In questa direzione già muoveva
nel secolo precedente Filippo Baldinucci (1673), quando sosteneva che si
dovessero «intender col nome di opere non solo le pitture, ma anche i disegni...
e fino a’ primi pensieri o schizzi»..
Ai nostri giorni, dopo le ricerche di F. Wickoff, B. Berenson, O. Fischel, H.
Tietz, i moderni studi sulla teoria, metodologia e storiografia del disegno
mirano a superare il semplice
criterio della classificazione e della catalogazione in favore di una
trattazione storico-geografica, pur mantenendo alla base il problema
dell’attribuzione e dell’individuazione dello stile, come già indicato da B.
Degenhart (1937, autore anche di un monumentale corpus dei disegni italiani dal
1300 al 1450), e come recentemente ha precisato C. Mombeig Goguel (1988).
Sostanziali contributi nel campo della connoisseurship e soprattutto sul disegno
italiano si devono a P. E. Popham (il Cinquecento), W. Wiztum, Philip Pouncey
(Cinquecento e Seicento) e a Luigi Grassi, autore – oltre che di studi
monografici – di indagini sulla teoria del d e di trattazioni storico-critiche.
Quasi tutti i musei moderni includono rilevanti sezioni di grafica. Ricordiamo
soltanto, per importanza storica e ricchezza di collezioni, il British Museum (Londra),
l’Albertina (Vienna), la Pierpont Morgan Library (New York), il Louvre (Parigi),
la Biblioteca reale di Torino, il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi a
Firenze, l’Istituto nazionale della grafica a Roma, l’Ambrosiana a Milano e le
collezioni reali inglesi di Windsor Castle.