5/12/2020

Disegno

Rappresentazione grafica di oggetti o figure, eseguita con materiali diversi e su supporti di varia natura. Si parla di d per i contorni che definiscono la forma dipinta. Nella storia dell’arte, a partire dal XVI sec., il d indica, spesso, il momento progettuale dell’opera, l’elaborazione dell’idea. «In primo luogo si chiama d l’idea di un quadro, che il pittore mette su carta o su tela per giudicare l’opera che immagina [...]. Si chiamano (anche) d le giuste misure, le proporzioni e i contorni, cne possono dirsi immaginari, degli oggetti visibili» (Roger de Piles).


Il d può essere una prima definizione lineare, corsiva e sintetica dell’insieme di una composizione (schizzo), oppure la notazione del movimento e delle linee organiche di un modello (studio), oppure la definizione sommaria degli elementi principali di una scena con figure o di un paesaggio; può essere anche considerato un’opera in sé compiuta.

I seguenti termini tecnici specificano le varie categorie di d:

disegno come esercizio accademico: d da un rilievo o da un calco a tutto tondo architettonico: d che rappresenta la pianta, la sezione o l’alzato di un edificio; a tre matite: d a pietra d’Italia (o pietra nera) e a sanguigna lumeggiata con gessetto bianco per la luce; a sfumo: d eseguito con un materiale morbido e friabile che si può pareggiare con lo sfumino (pezzetto di carta arrotolato); le ombre a carboncino sono sfumate; geometrico: d che riproduce le proporzioni geometriche d’un oggetto; grafico: d di sezioni, piante, ecc. applicato alle scienze esatte; a tratteggio: d le cui ombre sono rese mediante tratteggi paralleli, a penna o a matita; d’imitazione: d eseguito per imparare a riprodurre i contorni di figure, paesaggi e ornati; acquerellato: d ombreggiato mediante inchiostro di china o colorato con pigmenti diluiti in acqua; leucografico: d in bianco su fondo nero; lineare: d tecnico impiegato per rappresentare ornamenti, oppure oggetti di interesse industriale; a mano libera: d eseguito senza riga e compasso e trattato con grande libertà; dal vero: d da un modello vivente o da un paesaggio reale; ombreggiato: d nel quale vengono esaltate le ombre e le luci; picchiettato: d il cui contorno è traforato per consentirne la duplicazione (spolvero); topografico: d che riproduce la configurazione del terreno o il rilievo del suolo mediante curve di livello o tratteggio; al tratto: d che presenta soltanto i profili delle figure.

L’evoluzione delle tecniche e dei vari procedimenti del d dipende strettamente da quella dei particolari stili di ciascuna epoca e dai presupposti estetici degli artisti disegnatori. Il carboncino È senza dubbio tra i procedimenti piú antichi.

Fino al XV sec., il d era considerato soprattutto una fase preparatoria del procedimento creativo. Il carboncino (carbone di salice o di tiglio), potendosi facilmente cancellare e consentendo cosí le correzioni, venne impiegato fin dall’antichità da parte degli artisti per realizzare l’abbozzo delle composizioni murali a tempera o a fresco, o come procedimento di studio su pannelli di bosso o di fico coperti da una preparazione (gesso o polvere d’osso mescolati a colla di pelle). Solo verso la metà del XVI sec. s’intraprendono ricerche per fissare il carboncino sul supporto. Si giunse, in seguito, ad immergere il disegno stesso in un bagno d’acqua con aggiunta di gomma arabica, e infine a polverizzare sul d una soluzione di gomma; alcuni d di scuola bolognese del XVII sec., fissati secondo tali metodi, si sono conservati bene. Solo nel XIX sec. il carboncino divenne una tecnica autonoma di d, grazie ad artisti come Delacroix, Corot, Millet e piú tardi Seurat e Odilon Redon.

Le punte metalliche

Le punte in oro, rame, argento o piombo, già conosciute dai romani, sono state l’unico strumento in uso fino all’inizio del XVI sec. per l’esecuzione di d dal tratto molto netto. Tale tecnica, che sfrutta le proprietà ossidanti a contatto con l’aria della traccia lasciata dalla punta metallica, esige una preparazione preliminare del supporto, carta o pergamena, a base di colla e polvere d’osso. Il tratto fine, di color bruno (argento e oro) o grigio (piombo), veniva generalmente associato a lumeggiature in bianco, spesso su carta colorata. Tale procedimento, che richiedeva grande sicurezza di mano (il tratto indelebile non consentiva correzioni) fu utilizzato tanto dagli artisti fiorentini (Leonardo, Verrocchio) quanto da grandi maestri tedeschi (Dürer); ma il carboncino venne abbandonato fin dall’inizio del XVI sec. in favore di procedimenti meno impegnativi, come la pietra d’Italia e la sanguigna (ambedue di origine minerale).

La pietra d’Italia, o pietra nera

La pietra d’Italia (scisto argilloso a grana fitta), comparsa nei d del Pollaiolo, del Ghirlandaio e di Signorelli, venne ampiamente utilizzata da tutti i grandi artisti del Cinquecento italiano (Raffaello, Leonardo, Michelangelo, Tiziano, Tintoretto). Gli artisti del Nord – olandesi e fiamminghi – l’adottarono nel XVII sec. (Ruisdael, Hobbema, Rubens, Van Dyck).

La sanguigna

Conosciuta fin dall’antichità, consentiva d’introdurre nel d una notazione di colore, adatta a lumeggiare le carni, ed è in tal senso che venne impiegata da Fouquet, nel Quattrocento, nei suoi ritratti; e poi, nel XVIII sec., con la tecnica detta «delle tre matite». Di fatto il d a sanguigna propriamente detto, quello cioè che si vale soltanto di questo materiale sia per definire i contorni che per notare i volumi e le ombre, compare a Firenze, i d di Leonardo risalenti agli anni 1470-80 ne sono un esempio prestigioso. Tale procedimento ebbe successo immenso durante il XVI, XVII e XVIII sec., tanto in Italia quanto in Francia e nei paesi nordici. Pochi artisti dell’Ottocento se ne avvalsero, eccetto Renoir.

L’inchiostro

Parallelamente a tutti questi procedimenti, il d a inchiostro e a penna (strumento prediletto dagli orientali) oppure a pennello, non ha mai smesso di essere impiegato fino ai giorni nostri. Nel medioevo, d a penna accompagnavano spesso i testi (Selterio di Utrecht, IX sec.: Utrecht, Bibl. dell’università) o consentivano di fissare modelli (Taccuino di Villard de Honnecourt: Parigi, bn). Ben presto, al contorno lineare ottenuto con la penna d’oca (o con un pennello fine) si diffuse l’uso di disegnare con pennelli diversi per spessore e con bistro (bruno), inchiostro di china (nero) e nell’Ottocento, seppia (tonalità bruna piú fredda del bistro), che consentivano la resa delle ombre e, giocando sul tono della carta lasciata intatta, della luce. Inoltre, l’artista aveva la possibilità di impiegare lumeggiature bianche (di solito a tempera). Tutti i grandi artisti, da Leonardo, Raffaello e Michelangelo a Matisse e Picasso, passando per Rembrandt, Poussin e Delacroix, si servirono di tali tecniche. Di origine piú recente sono i pastelli, i gessetti, la matita a grafite.

Il pastello

Venne presto impiegato in Francia da Fouquet, Jean e François Clouet, i Dumonstier; poi, nel XVI sec., in Italia (Barocci), ma la sua maggior fortuna risale al XVIII sec., con i ritratti di Rosalba Carriera, La Tour e Perroneau; per l’Ottocento vanno citati Degas, Toulouse-Lautrec, Odilon Redon.

La grafite

L’impiego della grafite inglese, di origine minerale, che deve il nome al riflesso metallico del segno lasciato sulla carta, fu divulgato nel Seicento dai fiamminghi e dagli olandesi (D. Teniers, Cuyp). Questa grafite venne rimpiazzata nell’Ottocento da quella artificiale, inventata dal chimico francese Nicolas-Jacques Conté (1755-1805) e impiegata da David e poi da Ingres; da allora essa è divenuta la tecnica piú diffusa utilizzata per gli studi e gli abbozzi da Delacroix, Corat, Degas.

Nel campo del collezionismo e della connoisseurship il d ha assai presto costituito un settore specialistico e autonomo: il Libro de’ disegni di Giorgio Vasari (diverse centinaia di fogli raccolti in volumi, successivamente dispersi e confluiti in importanti sedi museali: Uffizi, Louvre, Albertina, British Museum, Christ Church di Oxford e altre), e il cosiddetto Codice riunito da padre Sebastiano Resta (oggi a Milano, Ambrosiana) tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII sec., sono esempi di collezionismo «mirato» ad una storia dell’arte tramite il disegno. Gli studi del Richardson (1719), quelli del Mariette sulla coll. Crozat (1741), di Dézallier d’Argenville e un sempre maggior gusto per i disegni, nel Settecento contribuiscono a un piú dichiarato apprezzamento del d come opera autonoma e non esclusivamente finalizzata alle arti «maggiori». In questa direzione già muoveva nel secolo precedente Filippo Baldinucci (1673), quando sosteneva che si dovessero «intender col nome di opere non solo le pitture, ma anche i disegni... e fino a’ primi pensieri o schizzi»..

Ai nostri giorni, dopo le ricerche di F. Wickoff, B. Berenson, O. Fischel, H. Tietz, i moderni studi sulla teoria, metodologia e storiografia del disegno mirano a superare il semplice criterio della classificazione e della catalogazione in favore di una trattazione storico-geografica, pur mantenendo alla base il problema dell’attribuzione e dell’individuazione dello stile, come già indicato da B. Degenhart (1937, autore anche di un monumentale corpus dei disegni italiani dal 1300 al 1450), e come recentemente ha precisato C. Mombeig Goguel (1988). Sostanziali contributi nel campo della connoisseurship e soprattutto sul disegno italiano si devono a P. E. Popham (il Cinquecento), W. Wiztum, Philip Pouncey (Cinquecento e Seicento) e a Luigi Grassi, autore – oltre che di studi monografici – di indagini sulla teoria del d e di trattazioni storico-critiche.

Quasi tutti i musei moderni includono rilevanti sezioni di grafica. Ricordiamo soltanto, per importanza storica e ricchezza di collezioni, il British Museum (Londra), l’Albertina (Vienna), la Pierpont Morgan Library (New York), il Louvre (Parigi), la Biblioteca reale di Torino, il Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi a Firenze, l’Istituto nazionale della grafica a Roma, l’Ambrosiana a Milano e le collezioni reali inglesi di Windsor Castle.