5/14/2020

Critica d’arte

In senso stretto: genere letterario specifico, la cui tarda comparsa coincide con la ripresa, nel XVIII sec., della regolare organizzazione di esposizioni pubbliche. I Salons di Diderot ne sono il prototipo per eccellenza.
Il critico d’arte si contrappone qui allo storico (prende partito e spesso cerca di influenzare la produzione contemporanea) e al teorico (di cui può utilizzare i principi, ma in una prospettiva che tiene sempre conto dell’individualità concreta dell’opera).
In senso lato: qualsiasi commento su un’opera contemporanea o del passato. La c d’a può allora integrarsi ad altre discipline (estetica, poetica o teoria artistica, storia dell’arte) o ad altri generi (poesia, invenzione romanzesca, biografia, saggio, corrispondenza diario).
I suoi inizi vanno ricercati in un procedimento letterario coltivato dai Greci col nome di ekphrasis, di cui viene spesso citata come primo esempio la descrizione omerica dello scudo di Achille. Quale che sia l’ampiezza che si conferisce al termine, qualsiasi c d’a implica un giudizio, esplicito o meno, sull’opera considerata; il fatto di parlarne è in se stesso una scelta. Cosí, si sono potuti qualificare come «atti critici» (Longhi) l’acquisto, il furto, la falsificazione, la copia, il restauro o la distruzione di opere d’arte; mentre Panofsky vedeva nell’attribuzione l’essenza stessa di una comprensione critica, quella del «conoscitore», definito «storico dell’arte muto». Sia che voglia essere francamente normativa, sia invece oggettivamente analitica, la critica si riferisce inevitabilmente a una scala di valori e ad una certa concezione dell’opera d’arte. Vale a dire, non esiste critica innocente (già la semplice descrizione fa appello alla nozione di imitazione e presuppone una prima lettura, dunque un’interpretazione), e qualsiasi commento a un quadro impegna necessariamente un gusto, una prassi o una dottrina artistica, una visione della storia e un’estetica che, sia pure sottintesa, non può che rinviare a un’ontologia implicita, anzi a un’ideologia.
Qualsiasi critica è dunque datata, in quanto si radica in un determinato contesto socioculturale che le ha suggerito sia le norme di riferimento sia le categorie di analisi. Donde l’interesse della storia della critica come ramo d’una «storia dello spirito», nonché come disciplina ausiliaria della storia dell’arte. E se lo studio dei commenti antichi è prezioso per restituire la situazione e gli intenti delle opere d’arte del passato, ne viene che qualsiasi buona critica non può essere che storica, cosí come qualsiasi storia dell’arte valida è tenuta ad essere critica, e le due attività convergono al limite verso una presa di coscienza che mira ad assumere la distanza tra due entità relative, quella dell’opera entro il suo ambiente e quella del critico entro il proprio. La scoperta di quest’interdipendenza, nonché la riflessione costante, dal secolo scorso in poi, dell’opera d’arte stessa, che tende essa stessa ad assumere una dimensione critica, hanno favorito l’approfondimento recente di una doppia questione concernente lo status (natura, scopi, doveri, limiti) e la storia di un genere che, peraltro, il moltiplicarsi delle manifestazioni artistiche e la diffusione della stampa periodica e dell’editoria avevano contribuito a volgarizzare.
L’interesse per tali problemi, cristallizzato sulle prime intorno ad alcuni centri (a Vienna: J. von Schlosser; in Germania: A. Dresdner; in Italia: L. Venturi e la rivista «L’Arte»; in Francia: A. Fontaine; in Inghilterra: D. Malion, A. Blunt, E. Gombrich; negli Stati Uniti: F. P. Chambers, E. Panofsky, R. W. Lee), sembra oggi generalizzarsi (P. Grate, R. Klein, J. Thuillier, B. Teyssèdre, N. Ivanoff, L. Grassi, G. Previtali, P. Barocchi, M. Bazandall, A. Brookner, U. Kultermann, J. Dobai).

Gli esordi: l’antichità

La possibilità d’una c d’a presuppone, da parte di chi la scrive, una certa considerazione per gli artisti. Il suo avvento passa dunque attraverso l’emancipazione dello status sociale del pittore e dello scultore, per lungo tempo relegati nell’anonimato o disprezzati in quanto praticanti un mestiere manuale e retribuito. A tale disdegno da parte delle «arti liberali» si aggiunse la diffidenza dei filosofi, che svalutavano il sensibile a favore dell’intelligibile e preferivano la verità all’illusione, l’essere all’apparenza. Infine, la difficoltà precipua della c d’a era l’eterogeneità dei linguaggi (far corrispondere parole a immagini); pertanto il suo successo dipende da un certo numero di conoscenze tecniche, nonché dall’elaborazione di una terminologia specifica.

Tutto ciò spiega forse perché i primi tentativi siano stati spesso intrapresi dagli artisti stessi, come lo scultore Xenocrate, principale fonte di Plinio il Vecchio. Ma se la critica dei «professionisti» ha il merito di un certo tecnicismo, il suo orientamento teorico, anzi pedagogico, rischia di conferirle una caratteristica normativa; e la codificazione dei «canoni» (Prassitele), la definizione di modelli ideali (Apelle, Lisippo, poi Fidia) o di criteri dogmatici (verità dell’imitazione, armonia delle proporzioni numeriche) dovevano portarla, del tutto naturalmente, a concepire l’evoluzione come progresso e decadenza.

Con lo svilupparsi del mercato, col costituirsi di collezioni, con l’interesse per le arti visive della filosofia antica (Aristotele) e col moltiplicarsi dei viaggi (Pausania), compare una
critica di amatori profani, spesso letterati, per i quali l’interesse di un quadro sta piú nel contenuto (soggetto) che nella modalità della rappresentazione (forma). Donde i primi conflitti tra artisti e critici, e la comparsa della disputa sulla competenza (Zeusi). Inoltre, la speculazione sulla corrispondenza tra arte e letteratura (Aristotele, Quintiliano, Cicerone, Orazio: ut pictura poesis), ponendo ancora l’accento sulla «storia» figurata, incoraggia la pratica dell’ekphrasis (Callistrato, Ovidio, Luciano, i Filostrati, ecc.), e conferisce ai commenti un carattere narrativo o descrittivo, che avrà anch’esso vita dura.

L’antichità non conobbe la c d’a stricto sensu, poiché nessun autore si pose a render conto di opere del suo tempo. D’altro canto, tutti i testi che qui c’interessano sono inseriti in
generi non specifici (trattato, biografia, guida geografica, romanzo, ecc.). Ma, benché normativa o descrittiva, la riflessione antica sull’opera d’arte ha preparato gli strumenti della futura c d’a. Certo, la terminologia resta embrionale, ma si delineano i concetti, si precisano le categorie: «mimesis» (Platone, Aristotele), verosimiglianza e convenienza, bellezza (ma il campo estetico e quello artistico non sono ancora esplicitamente legati), edonismo, utilitarismo, mistica del numero, ecc.). Verso la fine dell’antichità sembra che gli ultimi ostacoli siano rimossi quando, nel contesto dello stoicismo e del neoplatonismo, si sviluppa la nozione di «fantasia», antenata di quella di «immaginazione» e segno di un riconoscimento della creatività dell’artista.

L’intermezzo medievale

Ma il quasi-monopolio della chiesa nell’organizzazione della produzione artistica, comportando un brusco mutamento delle condizioni socio-culturali, doveva presto bloccare l’emancipazione teorica del genio inventivo e ritardare di piú di un millennio la nascita di una c d’a vera e propria. Infatti, rinasce l’antica segregazione, che il medioevo sistematizzerà codificando le arti meccaniche, ove i pittori d’altronde solo col tempo troveranno posto, restando sulle prime di nuovo confinati nell’anonimato, e poi venendo tardivamente raccolti nelle ghilde professionali, accanto talvolta ai droghieri. Quando questi artigiani prenderanno in mano la penna, sarà solo per trasmettere procedimenti tecnici, ricette del mestiere; e gli unici scritti dedicati alla pittura saranno, per molto tempo, «manuali» di bottega (Eraclio, Schedula del monaco Teofilo, Hermeneia del Monte Athos, ecc.).

Inoltre tutta la metafisica
teologica tendeva a sviluppare un contesto pochissimo propizio al riconoscimento dell’opera d’arte come valore sui generis: diffidenza iconoclastica, ascetismo e svalutazione del mondo terreno, manícheismo dello spirito contrapposto alla materia sviano l’attenzione dalla singola, concreta forma, verso un contenuto trascendentale ed esclusivo di cui il clero si riserva la chiave. Per questo le poche notazioni critiche positive che emergono nella letteratura medievale, e che E. de Bruyne ha brillantemente reperito, assumono talvolta carattere quasi clandestino, e sono da cogliere, spesso fra le righe, in testi assai dispersi: mentre si perpetuano forme ereditate dall’antichità, come l’ekphrasis (descrizione di monumenti cristiani, reali o immaginari, ove l’accento cade sempre sul programma iconografico e sul suo valore edificante:

Paolino da Nola, Gregorio di Nissa, Asterio, Giovanni di Gaza, Paolo il Silenzioso), i derivati dell’epigramma (titulus, poi sonetto o canzone), le guide topografiche (fondate sui tesori degli itinerari di pellegrinaggio), ecc., altri generi vanno presi in considerazione, come gli inventari, le cronache (Suger, Gervasio di Canterbury), o gli scritti polemici (Libri Carolini, Bernardo di Chiaravalle).

Parallelamente, prosegue la speculazione estetica (sant’Agostino, san Bonaventura, san Tommaso), ma dissociata dalla teoria artistica, esattamente come la riflessione sulla perspectiva naturalis e i problemi d’ottica (Witelo, Peckham, Grosseteste).


Tuttavia, e anche senza tener conto del XIV sec. fiorentino, ove l’importanza crescente delle arti visive nella vita culturale della città suscita un primo rinascimento della critica
pittorica (Dante e Boccaccio su Giotto, Petrarca su Simone, Filippo Villani e i commentatori della Commedia), il bilancio resta positivo e alcune scoperte rimarranno acquisite, come quelle del valore morale o mistico del colore (Teofilo, Suger), o dell’interesse, per una lettura simbolica o allegorica dell’immagine, dei metodi dell’esegesi a piú livelli (Pseudo-Dionigi l’Areopagita, Scoto Eriugena).

Le premesse teoriche: Rinascimento, manierismo, classicismo

Nel XV sec. si apre in Italia l’età dell’oro di quanto potrebbe chiamarsi la poetica artistica: il trattato succede al manuale e prepara l’avvento del saggio, che spesso fiorirà nel secolo seguente sotto forma di dialogo. Certo, i generi tradizionali sopravvivono e si sviluppano (cronache patriottiche, vite, inventari, Mirabilia e guide topografiche, novelle e romanzi allegorici, poemi, ecc.). Ma la subitanea proliferazione di testi teorici, a bisogno di principi e di regole, sono rivelatori della sete di rispettabilità che spinge la pittura a cercare nella pratica delle scienze (prospettiva geometrica, matematica delle proporzioni, anatomia) e nell’erudizione (Ghiberti) la giustificazione della sua pretesa allo status di arte liberale.
Di questa ripresa dell’emancipazione sociale dell’artista, ben presto consacrato «divino» con Michelangelo, è inoltre testimone l’interminabile disputa sulla preminenza («paragone») che contrappone il pittore al poeta, al musicista, e anche allo scultore. Alberti, Leonardo, Dürer, Vasari, Zuccaro, Lomazzo, Poussin, Reynolds e molti altri s’iscrivono cosí in una genealogia di pittori-filosofi, umanisti eruditi di cui un Delacroix o un Paul Klee saranno i remoti eredi.

Scrittori (l’Aretino, Dolce, R. Borghini, ben presto seguiti da Agucchi, Bellori, Baldinucci, Félibien) portano il loro avallo e partecipano a tale rinnovamento d’una riflessione estetica ante litteram, il cui effetto a lungo termine sarà l’elaborazione dei fondamenti teorici del discorso critico.


Ma i criteri del giudizio si precisano, le categorie dell’analisi si cristallizzano. Invenzione, disegno, colore saranno le «parti» della pittura, la cui articolazione, ripresa dall’antica retorica, conoscerà una durevole stabilità. Teorie della convenienza (decorum), dell’espressione delle passioni, dell’unità d’azione si definiscono in funzione della «storia» rappresentata e attestano inoltre il rinnovato influsso della critica letteraria. Quanto a concetti come quelli di «rilievo», «sfumato», o «unione cromatica», piú specificamente
pittorici, essi segnano un arricchimento della terminologia.

All’inizio, ogni ordine viene assoggettato alla misura, frutto dell’esperienza, e la pittura si afferma come un metodo razionale di conoscenza. Alla natura, che trova consistenza
nuova nella riabilitazione dell’apparenza, si aggiunge un secondo oggetto dell’imitazione: l’antico, presto soppiantato dai grandi maestri, Raffaello, Michelangelo, Tiziano, la cui opera è chiamata a recitare il ruolo d’una natura seconda, depurata, e fonte della «grande maniera». Donde l’oscillazione tra «naturalismo» e «idealismo», verità e bellezza, che accompagnerà a lungo questo primo superamento della dottrina della mimesis, ma il cui aspetto positivo sarà lo sviluppo progressivo della nozione di stile, scaturita precisamente dal moltiplicarsi dei confronti. In effetti la riscoperta della storia, annunciata sin dal XIV sec. fiorentino e culminante nelle Vite vasariane, doveva scatenare una meditazione sulle cause e sul senso dell’evoluzione delle forme.
Ed è allora che si fissa il famoso schema ternario (età d’oro - decadenza - rinascita) che perverrà almeno fino a Winckelmann e le cui debolezze, definitivamente denunciate da Riegi, non dovrebbero mascherare l’abbozzo di una teoria dell’ambiente (le invasioni barbariche, responsabili delle tenebre medievali), promessa del piú radioso avvenire (Taine, sociologia dell’arte), né far dimenticare l’importanza della comparsa delle prime categorie storico-stilistiche, la cui origine polemica (maniere «greca», «gotica») e peggiorativa (definizioni negative, in opposizione ad una norma «classica», frutto dell’adattamento della condanna vitruviana della pittura di grottesche, come ha ben dimostrato E. Gombrich, non ne impedirà la fortuna (cfr. l’origine dei termini ‘barocco’, ‘rococò’, ‘impressionismo’, ‘fauvisme’, ‘cubismo’).


Tali elementi si sviluppano nel corso del periodo detto «manierista», prolifico quanto complesso. Il sentimento confuso d’una maturità sorpassata – quella nostalgia autunnale di
cui tanto giustamente parla Schlosser –, congiunto all’ipercoscienza dei mezzi visivi messi in opera, sembra sfociare in una sorta di distanza critica, di cui la nascita della caricatura è un’ulteriore manifestazione. Il termine ‘arte’, con un doppio movimento di liberazione e di sintesi, completa la mutazione dalla quale ne sortirà il significato moderno: estetico e visivo (le «arti del disegno»), mentre l’artista, lodato per la «virtuosità» con cui trionfa della «difficoltà», rivendica il rispetto per la propria «idea» e assume spesso l’iniziativa creativa, lasciando al collezionista, che non l’ha commissionata, la cura di comperare l’opera che gli sarà piaciuto produrre. Un vero e proprio culto dell’arte coincide con un rinnovamento della speculazione estetica, e la congiunzione infine esplicita delle riflessioni sull’arte e la bellezza, dovuta ad una recrudescenza dell’influsso neoplatonico, ne è la caratteristica principale. Ma il dualismo latente si aggrava a favore del dominante ffitellettualismo: il concetto chiave di «disegno», già suddiviso da Cermini, si frantuma in Zuccaro in «disegno interno» (la concezione) e «disegno esterno» (l’esecuzione). Emergono le nozioni di fantasia e di genio (Aretino, Giordano Bruno, Francesco Bacone), dando inizio a uno slittamento semantico che condurrà al romanticismo.

È che il razionalismo è in ritirata: la matematica viene scacciata dal tempio della pittura, ove si preferiscono, dopo Vasari, la «grazia» alla «misura», la «licenza» alla «regola»; e l’evoluzione della parola ‘gusto’, studiata da R. Klein, puntualmente ce lo conferma. E tuttavia, quest’epoca dedita alla libertà individuale è anche quella del ritorno all’autorità. Il risorgere di elementi medievali, veicolati dalla Controriforma, comporta un ricorso a criteri estrinseci (morale, dogma), e la lettura inquisitoria da parte della censura, che considera unicamente il contenuto dell’immagine e poggia su un’interpretazione restrittiva del decorum, inteso come decenza, ne farà le spese il Giudizio universale di Michelangelo. È l’età della foglia di fico, di cui Gilio, Molanus o Paleotti illustreranno la deviazione critica.


Ancora autorità: la codificazione di precetti (Danti, Armenini) destinati a restaurare la buona pittura con la scusa di programmi pedagogici, ben presto sanzionati dalle accademie di recente creazione. Il rapido moltiplicarsi di tali istituzioni di prestigio, che detronizzano le antiche ghilde e in cui si investe la rivendicazione di «nobiltà» degli artisti, è nel contempo il segno d’una consacrazione e l’annuncio di un rischio: il patronato equivoco dell’aristocrazia prepara il terreno all’uso delle accademie a favore del potere a fini centralizzanti e di propaganda (Colbert - Le Brun). Sfuggito sin troppo alla corporazione, il pittore cade in balia del principe. E precisamente sull’insegnamento e le regole, piú che sul genio, punteranno i teorici del XVII sec., che nel complesso si pongono come prolungamento e come reazione all’estetica manierista. La lenta riscoperta della pittura medievale, iniziata
sotto il segno dell’erudizione pia scaturita dal concilio di Trento, prosegue (Mancini), e culminerà sin dalla fine del secolo successivo con i movimenti «primitivi».

Continuità anche nel campo dell’iconologia, ove il gusto manierista del geroglifico (Alciati, Ripa) sfocia nell’allegoria barocca (Tesauro, Menestrier), oggetto anch’essa di dotte esegesi. Resistenze corporative a nord delle Alpi provocheranno sequele della disputa sociale (in Francia: il brevetto contro il titolo di maestro, l’accademia del re contro quella di San Luca), che vengono a confermare la dicotomia tra cervello e mano, teoria e pratica (Félibien).


Ma, se la dottrina accademica certo riprende elementi comparsi nel corso della seconda metà del XVI sec. come l’eclettismo o il decorum inteso come «buona creanza», si nutre pure d’una riflessione precedente, caratteristica della quale è il ritorno a una definizione neoaristotelica dell’imitazione ideale: la «bella natura» è certo la natura vista attraverso l’antico, ma è soprattutto la natura corretta da se stessa, colta nella perfezione della sua «intenzione», come forma agens, e restituita a quella che «dovrebbe essere» da un processo di selezione e generalizzazione che mira al tipo, alla species, processo di cui Alberti e Danti avevano posto le prime basi e che Diderot, Reynolds o Quatremère de Quincy a loro volta svilupperanno. Tale teoria dell’idea estratta dal sensibile s’inscrive entro un contesto il cui razionalismo, incoraggiato da Descartes, ha piú di un punto in comune col primo Rinascimento.


Nell’ambito del classicismo razionalista francese si sviluppa pure una polemica sulla prospettiva, che mette alle prese tra loro Bosse, Huret e Chambray, traduttore di Leonardo, per il quale l’ottica è «l’arte di vedere le cose attraverso ragione». Chiarezza, equilibrio e misura costituiranno così i pilastri d’un classicismo rigorista, di cui l’esempio di Poussin sarà per lungo tempo il grande riferimento. Di fatto lo stesso Poussin, di cui le lettere ci rivelano in parte la coscienza critica, si appoggiava su una tradizione in cui si era imbattuto a Roma, e di cui Agucchi, prima di Bellori, s’era fatto portavoce: la dottrina del giusto mezzo, che vede nei Carracci e nei loro discepoli bolognesi i salvatori della pittura, minacciata da un eccesso insieme di «naturalismo» (Caravaggio) e di «maniera» (Cavalier d’Arpino).


L’ostilità verso Michelangelo, detronizzato a favore di Raffaello, e verso i veneziani comporterà in Francia una polemica analoga contro «libertini» e «cabalisti», mentre piú tardi,
nel XVIII sec., Winckelmann e Reynolds proseguiranno questa lotta su due fronti: il rococò allora recitava la parte della «maniera», e i fiamminghi quella della natura volgare.

Nella stessa Italia, mentre l’eredità vasariana dà frutto con gli scritti di Baglione, Baldinucci, Passeri, Pascoli, Bellori, che mescolano abilmente il genere teorico del trattato (introduzioni) e quello, storico, delle vite, si hanno opposizioni affermate contro l’imperialismo artistico romano-fiorentino: Lomazzo a Milano, Mancini a Siena, Malvasia a Bologna,
Ridolfi o Boschini a Venezia sviluppano una storiografia locale spesso di alto valore critico, cui un certo sciovinismo non impedirà di contribuire alla presa di coscienza del relativismo degli stili.

La tabella dei generi evolve progressivamente anch’essa.

Prima che giunga al termine l’èra dei trattati (quelli settecenteschi di Richardson, Hogarth o Liotard saranno tra gli ultimi saggi significativi), compare una variante, la cui origine
deriva direttamente dall’organizzazione delle accademie: la conferenza (Zuccaro, Bellori, Le Brun, Ch.-A. Coypel, Reynolds, Füssli), che può assumere, come a Parigi, la forma del commento di un quadro modello. Le vite stesse dedicano sempre maggiore spazio allo studio delle opere, mentre i derivati dell’ekphrasis (Borghini, Bocchi sul San Giorgio di Donatello, Bellori sulle Stanze di Raffaello, De Piles sulla collezione del duca d’Orléans) guadagnano in precisione analitica. I racconti di viaggi (De Brosses, Montesquieu) si moltiplicano, e cosí le guide turistiche, specialmente in Inghilterra all’epoca del «Grand Tour». Il romanzo critico, grazie ai viaggi fittizi di Scaramuccio o di Boschini, oppure il poema (Dufresnoy, Molière, Watelet) conoscono il loro canto del cigno. Infine, la comparsa di dizionari tecnici, il cui prototipo è il Vocabolario di Baldimicci, segna un progresso importante nella definizione della terminologia.

La frontiera tra classico e barocco è, a livello dottrinario, assai difficile da tracciare. Nulla infatti somiglia di piú alle idee di Bernini (riferite da Baldinucci o Chantelou) di quelle di
Bellori, che rifiutò di scriverne la biografia. E se uno dei criteri preferiti degli storici moderni, l’insistenza su una retorica della persuasione, sembra quasi un topos dell’epoca, l’estetica del sentimento quasi non appare prima della letteratura preromantica. Esiste tuttavia un campo nel quale si disegna uno stacco piú netto: è quello della critica d’arte propriamente detta, cui dovremo ormai ritornare, dopo averne esplorato i fondamenti e il contesto.

Formazione degli strumenti critici: conoscitori e coloristi

Se la teoria, necessaria all’inizio, può svolgere il ruolo di molla motrice della critica, può forse esserle anche di ostacolo, poiché i pregiudizi dottrinali impediscono di vedere l’opera singola e concreta. C’è chi l’ha affermato, asserendo un frequente divorzio apparente tra precetti e gusti reali, principî e pratica dell’arte (avvertibile, per esempio, in Le Brun). Un caso esemplare mostrerebbe il contrario: Vasari, cui il suo «sistema», esposto nelle prefazioni (e che certo non ha nulla di troppo rigido, come testimonia l’esitazione costante tra illusionismo ingenuo e «grande maniera»), non impedisce d’essere talvolta un critico notevole, le cui caratterizzazioni stilistiche, anche peggiorative, possono essere assai fini (la maniera «secca, dura, tagliente» che rimprovera ai primitivi troppo «minuziosi»). E se questo precursore della storia dell’arte ha tanto ben differenziato le «tre età» della «rinascenza» della pittura, sa pure mettere in rilievo l’elemento personale, irriducibile di un quadro, che egli concepisce, nella scia di Cennini, di Ghiberti o di Filarete, come scrittura.

Pittore e collezionista, Vasari va a vedere le opere, propone attribuzioni, e anche se spesso gli capita di sbagliarsi, le sue notazioni empiriche, le sue reazioni immediate sono talvolta abbastanza precise da essere utilizzabili per la critica moderna; come nello spettacolare tentativo di ricostituire un catalogo di «Stefano Fiorentino» da parte di Longhi.
Le sue incertezze dipendono spesso da una terminologia ancora esitante, benché una serie di opposizioni cominci a disegnarsi: «grazia» di Raffaello, «terribilità» di Michelangelo, «furia» di Schiavone. Molto sensibile al calore, alla rapidità dell’esecuzione, Vasari è il primo a porre il problema del non-finito, e le sue pagine sul vecchio Tiziano dimostrano che, malgrado i suoi pregiudizi fiorentini e la sua ossessione per il disegno, sa riconoscere l’interesse dello «schizzo» e dell’«abbozzo».

Ma è a nord che sembra si siano anzitutto apprezzate le qualità materiali della pittura, e se la sensibilità cromatica di un Jean Lemaire merita d’essere, di passaggio, segnalata, è a Venezia, patria del colore, che vanno cercati i precursori principali della c d’a. Marcantonio Michiel è il prototipo del conoscitore: laconico ma preciso, visita le collezioni, discute le attribuzioni e fonda le proprie su un’osservazione diretta e intelligente (San Gerolamo di Antonello), che rivela un occhio esercitato a distinguere le caratteristiche di ciascuna scuola, senza che la sua obiettività gl’impedisca di formulare giudizi di valore (è avido di giorgionismo).

Con l’Aretino, la cui schiettezza provocherà lo scontro con Michelangelo,
compare invece il tipo del giornalista moderno; mercante, fervido appassionato, dilettante ma sicuro di sé, fiorentino transfuga e nemico dei pedanti, non s’impiccia di teorie ma si fida della propria intuizione, che gli rivela il genio di Tiziano. Le sue lettere abbondano di trovate, come la celebre descrizione del Canal Grande, sorta di ekphrasis rovesciata ove la natura imita l’arte prendendo a prestito la tavolozza del pittore. I dialoghi di Pino e di Dolce, ove il colore viene vantato solo in nome dell’illusione, fanno una ben magra figura tra l’Aretino e Boschini, altro grande precursore d’un approccio sensuale alla pittura. Polemica e passionale, la critica di questo mediocre pittore, grande ammiratore del Tintoretto, vuol essere tecnica (l’arricchimento del lessico è qui notevole) e dichiara di avere due scopi: distinguere il buono dal cattivo e «conoscere il carattere degli autori». Niente «idea», niente «invenzione», poco «disegno», molte «chiazze» e «tocchi», e qui la parola «pennello» ritorna senza tregua per qualificare la «pasta» del quadro, la cui fattura viene sempre colta nella sua genesi.

Non si potrà mai abbastanza sottolineare l’audacia e la novità d’un discorso che si permette, in pieno XVII sec., d’ignorare il soggetto e di preferire apertamente il sensibile all’intelligibile, l’accidente alla sostanza e l’esecuzione alla concezione.

È aperta la strada a De Piles, i cui rapporti col suo geniale predecessore restano misteriosi. Come che sia, la lotta che questo capo del partito rubensiano conduce contro i poussiniani dell’accademia, è solo un episodio di un confronto comparso sin dalla fine dell’antichità (Oriente contro Mediterraneo, Dionisio d’Alicarnasso e Plutarco contro Plinio e Vitruvio) e ripresa nel XVI sec. (Venezia contro Firenze), poi a Roma verso il 1630 in seno all’Accademia di San Luca. De Piles è prima di tutto un teorico, e la sua riflessione, che s’iscrive pure nel contesto della querelle tra Antichi e Moderni e del «paragone» pittura-scultura, accetta l’essenziale della dottrina di Félibien, ma amplia lo sforzo di razionalizzazione ai settori del chiaroscuro, inteso nella sua funzione cromatica di agente privilegiato della composizione pittorica, e del colore, «anima» e «differenza specifica» della pittura, di cui definisce la prima sintassi sistematica. Sviluppando la nozione boschiniana di apparenza e quella berniniana di solidarietà tra le parti del campo visivo e di relatività della percezione rispetto alla distanza e al punto di vista, riassume gli elementi di una poetica barocca («effetto», «bella veste» di un’arte che vuol piacere, «persuadere gli occhi» e sorprendere lo spettatore stimolandone l’immaginazione); mentre il suo interesse per il paesaggio preannuncia, prima di Dubos, la serisibilità preromantica.

L’attenzione per la fisionomia concreta e unica dell’opera implica la considerazione del suo carattere manuale e tecnico.

La comparsa di falsi, conseguenza dello sviluppo del mercato d’arte, non poteva mancar di comportare un moltiplicarsi degli esperti, «professori» in Italia, amateurs o «antiquari» in Francia, «dilettanti», «virtuosi», poi «conoscitori» in Inghilterra. Si delinea un concetto nuovo, quello di «originale» contrapposto alla copia (il termine ‘plagio’ comparirà solo nel XVIII sec.); donde l’insistenza sul valore grafologico del non-finito, a proposito del quale già Boschini notava che è molto piú difficile da imitare. Parallelamente si sviluppa l’incidenza stifistica dei vari procedimenti grafici (Baldinucci per il disegno, Bosse per l’incisione), mentre si precisa la metodologia della connoisseurship (Sanderson, Baldinucci, Richardson).

La nuova attività dell’Inghilterra, la cui importanza per la storia della sensibilità è stata di recente messa in luce dallo studio monumentale di J. Dobai, è dovuta in primo luogo alla

presenza di grandi collezionisti (Arundel), poi allo sviluppo d’una scuola di pittura fecondata nel contempo da una pratica rubensiana e dalla teoria del classicismo franco-italiano.

Vi si aggiunga l’impatto dell’empirismo di Locke, l’orientamento soggettivista della discussione sul gusto (Hume), l’eredità del neoplatonismo ehsabettiano, che trasmette

le nozioni di immaginazione, ispirazione, entusiasmo e genio (Shaftesbury), l’evoluzione delle categorie di sublime (Burke) e pittoresco (Gilpin), legata alla moda dei giardini e ad un nuovo sentimento della natura.

L’avvento di un genere autonomo
 

L’importanza del XVIII sec. riguarda qui una doppia cristallizzazione: quella del sistema dei beaux-arts, di cui le classificazioni moderne si limiteranno a perfezionare lo schema, e quella delle discipline che vi si riferiscono. In tale contesto, che, con Winckelmann, vede la storia dell’arte sostituire la storia degli artisti, e l’estetica, battezzata da Baumgarten, prender coscienza della propria identità, nascerà la c d’a come genere specifico.
Mentre il neoclassicismo, col suo atteggiamento retrospettivo, comporta la riattivazione d’una certa distanza critica, ulteriormente favorita dalla simultaneità delle correnti tardo-rococò, e preromantiche, e il liberalismo dell’accademia dopo la vittoria dei rubensiani, la ripresa nel 1737 dell’organizzazione di mostre regolari al Louvre creerà insieme il clima propizio e il pretesto per una moltiplicazione dei resoconti, in forma di conversazioni, «corrispondenze», lettere, opuscoli, libelli, articoli su giornali.
Parigi è allora la capitale dell’arte moderna, e il pubblico, reso improvvisamente giudice della produzione contemporanea, si appassiona per un dibattito cui presto parteciperanno i massimi scrittori.

È che, dopo Dubos, poi per influsso dell’Inghilterra e della Germania (Sturm und Drang), il sentimento ha detronizzato i principî; e la nuova concezione del gusto – il
trionfo del «non so che» – tende a rimettere in questione l’esclusività dell’artista in materia di pertinenza critica. E se La Font de Saint-Yenne, uno dei primi ad illustrare il genere, vuol essere soltanto il portavoce degli spettatori, alla cui sensibilità d’altronde la pittura fa appello sempre piú, altri non si vieteranno di far lezione ai pittori, provocandone cosí la violenta reazione. Il primo risultato di tale polemica sarà una ripartizione delle competenze che esacerberà ulteriormente il vecchio dualismo: la «tecnica» agli uomini dell’arte, l’«ideale» ai letterati.

L’intervento di Diderot segna una svolta: erede del lungo lavoro preparatorio della riflessione teorica, che egli prosegue con le sue digressioni e di cui riprende le categorie (la sua concezione dell’espressione ha radici in quelle di Leonardo o di Le Brun), egli è pure il promotore d’una critica empirica e soggettiva, fondata sull’impressione immediata, ma il cui tecnicismo progressivamente si arricchisce nel contatto con gli artisti. Il suo atteggiamento nei riguardi dell’accademia, di cui accetta i principî (grande stile, bella natura, gerarchia dei generi) pur ricusandone i prodotti «lasciatemi in pace con quella bottega di maniere!»), è significativo, e cosí pure il suo oscillare tra imitazione e trasposizione espressiva,
ragione ed entusiasmo, senso dell’equilibrio e amore degli estremi, generalità del tipo e particolarità del carattere. Esteticamente opportunista, cerca di conciliare in una sintesi audace, ma zoppicante, Locke e Platone; rivelatore fedele dei gusti di un’epoca di transizione, in nome dell’antichità e della natura egli contrappone alla depravazione della moda Pompadour la «pittura morale» di Greuze o la «magia» di Chardin.

Destinati alla Corrispondenza letteraria di Grimm, i nove Salons di Diderot vennero pubblicati solo a partire dalla fine del secolo, ma il loro uditorio postumo sarà notevole:

Goethe, Stendhal, Gautier, Balzac, Delacroix, Baudelaire, Zola, Huysmans, i Goncourt, Breton e tanti altri vi si riferiranno attraverso tutta un’èra in cui assume nuove caratteristiche
l’interesse degli scrittori per la pittura, mentre continua a crescere il successo delle esposizioni. Baudelaire, che definiva la critica «un quadro riflesso da uno spirito intelligente e sensibile», scriveva pure: «In un artista, il critico è sempre pari al poeta».

Numerosi furono in Francia i critici-poeti, tra cui Mallarmé, Valéry, Rilke, Proust, Apollinaire e soprattutto Breton. Peraltro la critica tornò ad investire il campo dell’invenzione con l’aiuto del moltiplicarsi di romanzi e novelle aventi un artista per eroe (Heinse, Balzac, Musset, Zola, Goncourt, Proust, H. James, O. Wilde, H. Hesse, C. F. Ramuz).


Ma accanto a queste altezze prosegue una critica piú modesta, quella di scrittori minori, cronisti professionisti, amatori illuminati, la cui qualità letteraria può peraltro riservare
sorprese: critica di parte, d’avanguardia o conservatrice, spesso eclettica, che di volta in volta pretende ideale, modernità, verità, ingenuità, sincerità, temperamento, impressione, espressione, emozione, pensiero, decorazione; e il cui orientamento segue quello dei vari movimenti artistici, a seconda delle successive «battaglie» (romanticismo, realismo, impressionistrio, divisionismo, simbolismo). Tra i piú interessanti vanno citati in ambito francese Delécluze, Guizot, Toepffer, Planche, Thoré-Bürger, Champfleury, Castagnary, Sylvestre, C. Blanc, Burty, Duranty, Duret, Laforgue, Aurier, Fénéon, L.-P. Fargue in particolare.

Tuttavia il successo dei resoconti (che aumenta con la frequentazione dei salons e poi delle esposizioni private) e lo sviluppo pubblicistico non impediscono la persistenza di altre forme di critica, come il saggio o il diario. Quanto ai primi storici dell’arte del XIX sec., possono assimilarsi ai cronisti nella misura in cui studiano opere che sono loro ancora pressoché contemporanee (Mellerio, Geffroy; Muther, Meier-Graefe in Germania).


Fuori di Francia, la diversità delle situazioni tende ad accentuarsi.

L’Italia, dopo un XVIII sec. ancora molto brillante in particolare a Venezia (Algarotti), ha un’eclissi, che corrisponde a un’eclissi della pittura. L’Inghilterra, stimolata dal lavoro teorico di Hogarth, Webb Reynolds, Barry, Paine Knight, Blake, Füssli o Constable, vede svilupparsi una critica di qualità, tra i cui principali rappresentanti saranno Hazlitt, Hamerton, Wilde. Ruskin, per il suo doppio influsso sul naturalismo e sul simbolismo in Europa, merita una speciale menzione: i cinque volumi dei suoi Modern Painters, che cercano di conciliare l’elogio di Turner e la difesa dei preraffaelliti, sono un capolavoro d’intelligenza critica. In Germania, dopo la fioritura neoclassica (Winckelmann, Mengs, Lessing, Goethe) e romantica (Wackenroder, Tieck, Gessner, Friedrich, Runge, Carus, F. Schlegel, Schelling, Hegel, Heine), si afferma la tendenza speculativa che culmina, presto fecondata dall’esperienza di un Hans von Marées, in Fiedler, pioniere della critica «visibilista» e dell’estetica moderna.

Nel XX sec., il crescere del numero degli scritti sulla pittura prosegue con l’aiuto della democratizzazione artistica e del moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione. Ma mentre la critica
storica e la teoria pittorica hanno sviluppi spettacolari, la c d’a propriamente detta sembra entrare in crisi, e la vera e propria inflazione che la concerne tradisce un abbassarsi
sensibile del livello medio. Certo vi sono eccezioni di rilievo, come nell’orbita del cubismo (Apollinaire, Kahnweiler) o del surrealismo (Breton, Eluard, Aragon), ma si tratta di solito di scrittori di primo piano (Maltaux, Sartre, Butor).Le cause sono molte. L’accelerazione dell’evoluzione e la balcanizzazione dell’avanguardia (balletto degli -ismi, pletora dei manifesti) generano uno smarrimento che, prima d’essere del pubblico, tocca i critici, anzi gli artisti stessi. In mancanza di criteri stabili di riferimento, si giudica spesso la tendenza piú che l’opera, e la moda tende a sostituire il gusto.

Donde il frantumarsi della critica in singole chiese, accentuato dal moltiplicarsi delle gallerie private e delle riviste specializzate. Compare un genere nuovo, la prefazione alla mostra, trasformata volentieri in agiografia, anzi in opuscolo pubblicitario, redatto talvolta dallo stesso mercante. Tale mercantilismo si vale spesso d’un oscurantismo concertato, ove il cicaleccio pseudofilosofico, mistico, tecnologico, linguistico e cosí via prende il posto dell’analisi; e ne risulta corrotta la funzione stessa della critica, che, da tribuna dell’espressione dello spettatore, o da introduzione all’opera, diviene discorso per iniziati convertiti. Infine l’avvento dell’astrattismo, privandola dell’alibi descrittivo, a lungo coltivato malgrado la comparsa della riproduzione fotografica, ha messo a nudo la debolezza fondamentale della critica occidentale, che resta il fallimento di una terminologia specifica e adeguata, la cui presenza in Cina, ove la pittura è stata sempre considerata appannaggio di un’élite, ce ne rammenta le origini sociali.

La critica storica

Definita meno dal suo oggetto (l’opera del passato) che dal suo metodo (preferendo l’analisi alla suggestione, cerca di collocare l’opera piú che di tradurre un’impressione), la critica storica vede condizionato il proprio sviluppo da quello della storia dell’arte, di cui essa è il necessario risultato. Nella scia del neoclassicismo la storia della pittura acquista con Lanzi un orientamento piú sistematico; e benché l’autore della Storia pittorica dell’Italia si basi ancora sulla storia degli artisti, la sua classificazione ragionata per scuole segna, in rapporto agli schemi di un Lomazzo o di un Agucchi, un progresso sicuro.

Ma sarà nel XIX sec., il secolo della storia e del comparatismo, che appariranno, soprattutto in Germania, quelle «summe» che sono i primi grandi manuali (Rumohr, Kugler, Schnaase, Springer). Fu anche un secolo di revivals, revisioni del gusto inaugurate dal preromanticismo, che trasformeranno rapidamente l’orizzonte culturale. Direttamente tributaria della produzione artistica contemporanea, che d’altro canto essa contribuisce a indirizzare, la storia dell’arte parteciperà a questa doppia impresa di prospezione e di riabilitazione, di cui saranno strumenti privilegiati la moltiplicazione dei musei e poi l’avvento della fotografia. Grünewald, El Greco, Vermeer, i Le Nain, La Tour, Saenredam e molti altri verranno cosí riscoperti uno dopo l’altro.

E se il Rinascimento serba adoratori incondizionati (Burckhardt, Pater), il monopolio del classicismo non tarda a crollare sotto la spinta del neogotico e del preraffaellismo inglese, dei Nazareni tedeschi, dei Barbus e poi dello stile troubadour in Francia, ove Artaud de Montor, Séroux d’Agincourt, Paillot de Montabert o Rio, primi storici della pittura medievale, aprono la strada a Viollet-le-Duc, mentre la restaurazione cattolica suscita un rinnovato interesse per l’iconografia cristiana, il cui grande esegeta sarà E. Mâle.

Intrapresi talvolta nel segno di un nazionalismo dei popoli, che soppiantò allora il patriottismo delle città, tanto lo studio delle varie «scuole» quanto quello del medioevo non potevano

mancar di sfociare in una presa di coscienza della relatività degli stili, già affermata da Delacroix nel suo articolo sulle «variazioni del bello». Teorie dell’evoluzione ciclica e proiezioni sulla storia di schemi biologici condurranno, al di là di Hegel e Ruskin, al rifiuto da parte di Riegl della nozione di decadenza, eliminata a favore di quella di una «volorità artistica» propria di ciascuna epoca. Cosí le vecchie categorie normative assumono infine un valore storico oggettivo.
E nella congerie Wickhoff, Wölfflin o Dvo≈ák potranno rivalorizzare i dipinti della bassa antichità, del barocco e del manierismo, fasi tardive che costituiranno il corrispondente degli arcaici, le cui quotazioni continuano a salire.

Benché innamorato del passato, il romanticismo aveva pure preteso la «modernità» (Baudelaire): la pittura della vita contemporanea.


Il realismo, riprendendo questa esigenza, doveva fondarla su una scoperta del secolo dei lumi: l’opera d’arte è «espressione di una società» (Castagnary). La teoria dell’ambiente (Taine), la «storia della cultura» (Burckhardt), la «storia dello spirito» (Dvo≈ák, scuola di Vienna), lo studio delle «forme simboliche» (Panofsky), l’analisi marxista o certi recenti tentativi strutturalisti hanno in comune il fatto di cercar di situare il quadro in un contesto piú generale, sia esso di ordine climatico, razziale, sociale, economico, politico, scientifico, filosofico.


Ma postulando cosí l’unità di un’epoca o di una cultura e il parallelismo delle sue varie manifestazioni (Riegl, Sedlmayr) ci si espose, almeno in un primo tempo, al rischio di perdere di vista l’individualità dell’opera e di sfociare in quella «storia dell’arte senza nomi» di cui menavano vanto, ma per motivi opposti, i primi teorici della critica formale (Wölfflin).

Dopo il romanticismo, l’altro padrino della giovane storia dell’arte è il positivismo, che sulle prime cercò di fondare sulle conquiste della nuova filologia la sua esigenza d’uno statuto scientifico. Primo frutto ne fu l’enorme lavoro di pubblicazione e d’interpretazione critica delle fonti, e la loro utilizzazione per inventariare e classificare le collezioni; donde la nascita del catalogo ragionato (Passavant). Waagen, Cavalcaselle, Morelli, Berenson, Longhi, Offner, M. J. Friedländer e molti altri conoscitori elaboreranno metodi di attribuzione e di expertise, le cui polemiche, come quella sulla Madonna di Holbein a Dresda, hanno consentito di metterne alla prova la solidità, e che riprendono, sistematizzandole, le intuizioni di Boschini e di De Piles. D’altro canto lo spirito scientifico, ispirando il programma di un’estetica «sperimentale» (Fechner), non doveva tardare a comportare l’applicazione di «leggi» e modelli deterministici alla genesi e all’evoluzione delle forme.

In effetti il progresso della chimica dei colori, dell’ottica fisiologica e della psicologia della percezione (Chevreul, Maxwell, Rood, Helmholtz, Briücke), rafforzate dall’eredità dell’empirismo e del sensismo e dall’influsso d’un’estetica formalista neokantiana (Herbart, Zimmermann), dovevano caratterizzare nel contempo la teoria pittorica (Ruskin, D. Sutter, C. Henry, Seurat) e il metodo critico: riprendendo da Hildebrand la distinzione tra visione tattile-vicina e ottica-lontana, Riegl e Wölfflin relativizzano, proiettandole sulla storia degli stili, categorie chel nell’autore del Problema della forma, erano ancora solo genetiche e normative.


E cosí nata la storia della visione. Ma, anche qui, il terreno è stato preparato dalla riflessione teorica inaugurata dal Rinascimento, poiché è nel contesto del «paragone» pittura-scultura che si delineò l’opposizione tra visibile e tangibile, e i nomi di Zuccaro, Galileo, De Piles o Molyneux precedono quello di Berenson, volgarizzatore dei famosi «valori tattili». Con l’impressionismo e la consacrazione della pennellata come atomo visivo, poi come unità plastica autonoma, si completa la metamorfosi da pittoresco a pittorico.


Nuove generazioni di teorici ridefiniranno presto i principî d’una grammatica visiva. L’estetica dell’Art Nouveau viene teorizzata da Van de Velde, il cubismo da Gleizes, Gris, Severini, Léger, Ozenfant, Lhote; nuove riflessioni teoriche si sviluppano con l’emergere di neoplaticismo, costruttivismo, Bauhaus, astrattismo, cui seguono le elaborazioni della psicologia «gestaltica» di Arnheim e della Op’Art. Il lungo dibattito in Germania sulla «scienza dell’arte», C. Bell o R. Fry in Inghilterra, Focillon in Francia attestano un approfondimento della riflessione sulla forma.


Parallelamente le correnti neoromantiche (simbolismo, espressionismo, surrealismo) suscitano anch’esse una revisione del «museo immaginario» e un orientamento della critica
verso l’analisi dei contenuti. Predominano due direzioni: la psicologia del profondo (ispirata da Freud o da Jung) e l’iconologia, con l’Istituto Warburg, che allarga al paganesimo antico e a tutte le fonti letterarie, scientifiche, astrologiche, alchemiche, filosofiche l’ambito delle ricerche sul simbolismo cristiano.

Oggi, la diversità degli approcci riflette un fruttuoso arricchimento della c d’a, che continua ad aprirsi agli apporti delle varie scienze umane: psicologia (Gombrich), sociologia
(Hauser, Antal, Haskell), fenomenologia esistenzialista (Merleau-Ponty, Sartre), linguistica strutturalista, semiologia (Barthes), teoria dell’informazione (Moles). Tale moltiplicazione dei punti di vista non potrà essere altro che benefica, a condizione che l’impiego sconsiderato di terminologie prese a prestito non comporti il misconoscimento del carattere specifico della pittura.