5/13/2020

Iper-realismo

Tendenza pittorica comparsa negli Stati Uniti alla fine degli anni ’60 di questo secolo, essenzialmente in California e a New York, con essa si ricuperavano gli strumenti essenziali della pittura (tele e pennelli) messi in crisi dall’avanguardia contemporanea (Arte concettuale, Land Art, Arte povera, Body Art) e una rappresentazione profondamente realistica della natura. Di facile comprensione, non tardò ad avere grande successo e a suscitare emuli europei. Le vennero dedicate numerose manifestazioni, da cui derivò un rinato interesse per tutte le forme d’arte realistiche. L’i, basandosi sulle immagini fotografiche, appare a prima vista, e semplicisticamente, una corrente il cui scopo è di riprodurre la realtà con precisione e oggettività.

Il realismo appartiene alla tradizione della pittura americana. Già all’inizio del secolo l’Ash-Can School praticava una pittura populista realistica, e negli anni ’20 i «precisionisti» (Schamberg, Demuth, Sheeler) si erano dedicati a rappresentare il nuovo contesto sociale, caratterizzato dal diffondersi dell’industria, ricorrendo progressivamente alla fotografia come punto di partenza del proprio lavoro. Tale intento di produrre opere realistiche, riflesso di un’autentica identità, si accentuò con la «grande depressione», che rafforzò il sentimento nazionale (pittori dell’American Scene: Hopper, Benton, Artisti regionalisti).

Iscrivendosi in questa linea del realismo sociale e nazionale, e riprendendo in parte la lezione della Pop’Art, l’i tenterà di cogliere la banalità quotidiana, insieme poetica e triviale. Ampliando il campo iconografico proposto dalla Pop’Art, l’i in teoria non privilegia alcun tema specifico. Di fatto ogni artista delimitò poi la sua personale tematica, rispondendo cosí ad esigenze commerciali e alla necessità di crearsi un’immagine di stampo facilmente identificabile. Chuck Close si specializzò nel ritratto (Richard, 1969: Parigi, mnam, cap. Ludwig), Robert Bechtle (Dattiers, 1970-71: Aquisgrana, Neue Gal., coll. Ludwig) e Ralph Goings (Caravane Airstream, 1970: ivi) nei veicoli a motore, Richard MacLean nei cavalieri (Mexican Sunset with Straitshooter, 1969: Parigi, coll. Boussenot), Robert Cottingham nelle insegne luminose (Art, 1971: New York, coll. Karp), mentre Richard Estes dipinse vedute urbane (Broadway: Parigi, mnam, coll. Ludwig). Don Eddy rappresentò carrozzerie di automobili (Senza titolo, 1971: conservato a Saint-Etienne) e David Parrish dettagli di motociclette; John Salt mostrò relitti di automobili (Veicolo fermo con interno in gommapiuma gialla, 1970). Citiamo pure Malcom Morley, che tenta un’esplorazione meno sistematica di eventi sociali (Campo di corse, 1970: Aquisgrana, Neue Gal., coll. Ludwig). In Francia, Hucleux produce Cimiteri (Parigi, mnam), uno dei suoi principali temi, e Schlosser dipinge corpi umani in primissimo piano. La precisione, la clinica freddezza nel minimo dettaglio, l’assenza di qualsiasi contenuto emotivo, lo sguardo distaccato, i colori levigati e crudi, la quasi totale assenza di materia, un certo feticismo dell’oggetto sono le caratteristiche dell’i; il gioco poggia tutto sulla copia illusionistica della neutralità e della fedeltà della visione fotografica.

Nessuno di questi artisti riproduce integralmente una fotografia: essa è soltanto il punto di partenza di un lavoro lungo e minuzioso. Parrish dipinge direttamente a pennello su una diapositiva proiettata su tela, accentuando alcuni particolari della composizione. Close ingrandisce a tal punto dei ritratti fotografici che la distorsione dovuta alla ripresa fa letteralmente penetrare lo spettatore nel soggetto rappresentato. Morley quadretta la tela e dipinge in seguito un quadratino dopo l’altro, sforzandosi di conservare la maggior distanza possibile rispetto all’immagine che traspone. MacLean lavora su documenti proiettati con un episcopio. Soltanto Hucleux utilizza diapositive, direttamente, senza ritoccare la proiezione. L’i, visione formalista piú che analitica, tende a dimostrare, a forza di virtuosismo, che la pittura può creare l’illusione della verosimiglianza con l’esattezza del linguaggio fotografico.