5/13/2020

Neoimpressionismo

Movimento pittorico sviluppatesi nell’ambito della «reazione» alla fugacità del frammento impressionista, tra il 1884 e il 1890. Il nome si deve al critico F. Fénéon che nel recensire per la rivista belga «L’Art Moderne» la Grande-Jatte di G. Seurat, presentata al Secondo Salon des Indépendants nel settembre del 1886, e più ancora nell’opuscolo successivo Les Impressionnistes en 1866 pubblicato su «Le Vogue» nell’ottobre dello stesso anno, ne defini insieme i procedimenti tecnici ed i presupposti estetici: sottolineando appunto la continuità, ma anche l’esplicita divergenza, col fenomeno dell’impressionismo.

Come più tardi ebbe a dire un altro protagonista del gruppo, P. Signac, si era voluto così «rendere omaggio allo sforzo dei precursori e mettere in evidenza, sia pur attraverso i differenti procedimenti, il fine comune: la luce e il colore. È in questo senso che occorre intendere la parola neoimpressionismo, perché la tecnica impiegata da questi pittori non ha nulla di impressionista; come quella dei loro predecessori è fatta di istinto e di istantaneità, così la loro è prodotto della riflessione e della durata».

Ripreso da Arsène Anselme ne «L’Evénement» del 10 dicembre 1886, il nuovo termine – cui gli artisti avrebbero preferito il più esatto «cromo luminarismo» – fu consacrato definitivamente da un ulteriore saggio di Fénéon apparso su «L’Art Moderne» il 1° maggio 1887, che collocava stabilmente il movimento tra i più significativi in ambito europeo.

Capofila riconosciuto, per la lucidità degli assunti oltreché per la chiarezza degli esiti, fu G. Seurat, giovane pittore formatesi all’Ecole des beaux arts nel culto di Ingres e degli antichi, ma suggestionato al contempo dall’essenzialità solenne e ieratica di Puvis de Chavannes e dei primitivi. L’esigenza «classica», razionale di un rigoroso impianto compositivo, cui Seurat si mantenne fedele tutta la vita, si coniugava però con un acceso interesse per le moderne teorie sulla percezione e sul colore che l’artista, in linea col dominante spirito dello scientismo posivista, andava indagando – appena diciannovenne – con l’entusiasmo di precoci e vaste letture. In particolare la legge dei «contrasti simultanei» che sottoponeva a «regole sicure» l’uso dei colori, esposta da M. E. Chevreul nel 1839 e ripresa da C. Blanc nella Grammaire des arts du dessin (1867), integrata ancora con gli analoghi studi di Helmollz, Maxwell, Sutter e Dove, lo persuasero della necessità di ancorare alla precisione di un metodo scientifico quegli effetti e quelle soluzioni che aveva trovato sperimentati solo intuitivamente da maestri quali Delacroix, Corot e gli stessi impressionisti, senza per questo costringere o soffocare l’autonomia dell’invenzione. Scriveva a tale proposito D. Sutter ne Les phénomènes de la vision, che Seurat lesse su «L’Art» nel 1880: «La scienza libera da tutte le incertezze, permette di muoversi con piena libertà e in un ambito molto vasto... Essendo lutte le regole insite nelle leggi stesse della natura, niente è più semplice che individuarne i principi, e niente è più indispensabile. Nell’arte, lutto deve essere voluto».

In Une Baignade à Asnières, esposta nel maggio del 1884 alI Salon della neonata Société des Artistes Indépendante, Seurat si concentra su quella «metodica separazione degli elementi – luce, ombra, colore locale azione reciproca dei colori – e della loro adeguata proporzione» (Rewald), che costituirà la base permanente del suo procedimento. L’opera, di risultato ancora incerto per il perdurare di colori mescolati e terrosi accanto a quelli puri, colpì luttavia grandemente un altro giovane pittore, conosciuto alla Costruente della Société: P. Signac. Già avviato sulla strada dell’impressionismo, fu Signac a spingere l’amico a liberarsi definitivamente degli impasti, contribuendo a precisarne l’orientamento stilistico. Ma è nella tela di Une dimanche après-midi à l’île de la Grande-Jatte, che Seurat inizia a dipingere appunto nel maggio dell’84, alternando significativamente gli studi all’aperto a lunghe sedute in atelier pur di escludere qualsiasi elemento di improvvisazione, che la ricerca neoimpressionista trova la sua prima, compiuta esposizione.

Fondata su quella teoria del «mélange optique», già adottata da Delacroix e sviluppata da Chevreul, Blanc e Dove, che collocava nell’atteggiamento percettivo dell’occhio e non più nel pigmento la mescolanza dei colori, il metodo divisionista tentava di riprodurre l’effetto della dissociazione retinica mediante la tecnica del pointillisme (con la quale il movimento viene troppo spesso confuso), che divide la pennellata in piccoli punti nettamente giustapposti; al fine di ottenere il massimo della rispondenza ad un’esatta situazione di luce e nello stesso tempo – attraverso l’accostamento diretto dei complementari e dei diciotto toni dell’iride (riuniti sistematicamente nel cerchio cromatico costruito da Seurat fin dall’81, sulla scorta di Chevreul e soprattutto di O. Rood) – il massimo dell’intensità luminosa. Come scrisse in seguito Signac nel suo D’Eugène Delacroix au Néo-Impressionnisme (1898), si trattava di «assicurarsi tutti i vantaggi della luminosità, del colore e dell’armonia: mediante il miscuglio ottico di pigmenti unicamente puri (tutte le tinte del prisma e tutte le loro tonalità); mediante la separazione dei vari elementi (colore locale, colore d’illuminazione, loro reazioni); mediante l’equilibrio di tali elementi e delle loro proporzioni (secondo le leggi del contrasto, della digradazione e dell’irradiazione); mediante la scelta di un tocco proporzionato alla dimensione del quadro».

Certamente, come ha dimostrato R. Herbert, la teoria del «mélange optique» era illusoria, e nei fatti costantemente sostituita da una modulazione del color locale; ma il metodo del n
era ancor più pratico che teorico. Secondo le testimonianze, ad esempio, Seurat procedeva fissando prima di tutto l’assetto compositivo; quindi stendeva un primo strato di vernice a larghe pennellate, come legame di fondo, e soltanto in un secondo momento – dopo aver scelto in base all’insieme una tonalità definita – lavorava via via «in pointillisme» su piccole porzioni del quadro. Né l’ansia e l’attitudine sperimentale si fermavano, naturalmente, alla superficie dipinta: una grande attenzione veniva dedicata alla preparazione dei supporti (gesso liquido, talvolta encausto) e dei composti (si preferiva ad esempio il vetro alla tradizionale vernice, che tendeva ad ingiallire); e lo sforzo di unità stilistica si spingeva ad investire la cornice, che a partire dal 1889 Seurat decora con i colori complementari ed accompagna con una bordura anch’essa dipinta, per meglio filtrare il graduale contatto con l’ambiente esterno.

Mentre l’artista continuava, nel 1855, i suoi esperimenti sulla Grande-Jatte, Signac, propagatore sin dall’inizio delle idee del gruppo, persuade Camille Pissarro dell’esattezza del metodo dell’amico. Il decano dell’impressionismo, ricettivo come sempre ed aperto ad ogni innovazione, vi aderì entusiasticamente – presto seguito dal figlio Lucien, da Cavallo-Peduzzi, Dubois-Pillet e Gausson e solo più tardi da Hayet, Angrand e Luce – al punto da imporre la presenza dei nuovi compagni alla VIII ed ultima mostra della Société impressionista, alla Maison Dorée. In una saletta a parte, accanto ai paesagggi dei due Pissarro ed alle marine di Signac – approdato a sua volta al divisionismo senza però adottare la base uniforme di Seurat (e l’effetto ottenuto fu di «frenetica intensità di luce») –, la Grande-Jatte fece qui la sua prima apparizione, seguita in breve dal secondo Salon degli Indépendants; suscitando la reazione scettica e irridente del pubblico e di gran parte della critica, sconcertata dall’uniformità stilistica dei singoli artisti che arrivò ad accusare persino di «esecuzione troppo affrettata».

Non mancarono tuttavia i giudizi favorevoli dei giovani letterati simbolisti, affascinati dall’«idea pura» di questo modernismo scientifico: Gustave Kahn, Arsène Alexandre, Paul Alexis e soprattutto Fénéon, ammiratore di Seurat fin dalla Raignade, che divenne l’apostolo del movimento contribuendo con saggi, note e conferenze alla diffusione dei suoi principî. II poeta belga Emile Verhaeren, anch’egli colpito dalla «semplicità ed onestà primitive» del lavoro di Seurat, agì invece da tramite con la società dei Venti che da Bruxelles, sotto la guida di Octave Maus, era impegnata nel sostegno di nuovi orientamenti artistici. La regolare presenza di Seurat, Pissarro e compagni alle esposizioni dei Venti, a partire dal IV Salon del 1887, creò una suggestione profonda nell’animo di artisti come Willy Finch, Theo van Rysselberghe, Henri van de Velde e – dopo il 1889 – Lemmen, determinando lo sviluppò precoce di una corrente belga del n che già dal 1890 vi appare come il principale movimento pittorico d’avanguardia; senza trascurare i Paesi Bassi, che vedono in Jan Toorop e nei suoi allievi Brenner, Aarts e Vijlbrief i maggiori esponenti del pointillisme olandese.

L’incontro determinante tuttavia fu quello con C. Henry, un giovane scienziato amico di Fénéon e legato al cenacolo simbolista, che in numerosi saggi sull’ottica e la percezione quali, specialmente, la Théorie des directions, il Traité sur l’esthétique scientifique (1886) e l’Esthétique musicale aveva enunciato una sorta di dottrina unificata «della sensibilità e dell’attività umane» (Valéry). In particolare Seurat trovò nelle teorie di Henry sul ritmo e l’espressione psicologica della linea, già riscontrate nelle letture giovanili di Blanc e di H. De Superville ed ampiamente echeggiate nell’estetica dei «segni emotivi» di ambito simbolista, una risposta a quell’esigenza di adeguare ad un sistema logico ed armonico, insieme ai colori, anche gli elementi lineari, cui lo predisponeva la mai rinnegata formazione classica ed il suo stesso temperamento. Già nella Parade (1887-88), impostata su di una griglia della massima semplicità e rigore che tuttavia si fonda sulla complessità della «sezione aurea», runiformità delle cromie calde e squillanti sigla l’evolversi verso interessi più mirati.  Ma è a partire dall’estate del 1888 che Seurat, suggestionato forse dall’Art Nouveau, sedotto dal tratto fluido e sintetico dell’illustratore Chéret, ma soprattutto influenzato dalle riflessioni sul potere «dinamogeno» (Le cercle chromatique... avec une introduction sur la théorie générale de la dynamogénie, 1888) e sulle relazioni affettive di linee e colori che Henry aveva elaborato in collaborazione con Signac ne L’Education du sens des formes e L’Education du sens des couleurs (ancora 1888), introduce nelle sue composizioni sinuosità che sviluppate nello Chahut e nell’incompiuto Le Cirque lasciavano intravedere nuovi sviluppi per il n. D’altra parte l’artista, da sempre reticente a divulgare i propri principi, ha oramai raggiunto una maturità teorica tale da persuaderlo ad esperta in una celebre lettera a M. Beaubourg datata 28 agosto 1890: «L’arte è l’armonia. L’armonia è l’analogia degli opposti, l’analogia dei simili, di tono, di tinta, di linea, considerati in base alla dominante ed all’influsso di un’illuminazione a composizioni gaie, tranquille o tristi».

Se la morte prematura, nel 1891, venne a interrompere bruscamente le riflessioni e gli esperimenti di Seurat, Signac, da sempre ossessionato dal limite dell’imitazione del vero, lo aveva già raggiunto e forse superato sulla via di un astrattismo ritmico ed ornamentale, non privo di suggestioni mistiche. Il suo ritratto di Fénèon sur l’émail d’yn fond rythmiaque de mesures et d’angles, de tons et de teintes (1890), nel combinarsi complesso di arabeschi lineari ed armonie cromatiche sembra quasi un «manifesto» delle ipotesi di Henry sul piacere e l’inibizione cui del resto, si è visto, l’artista aveva avuto parte attiva.

Fu invece H.-E. Cross, pittore di acuta sensibilità approdato al n nel 1890 prima di affermarsi come grande colorista, a sviluppare nel senso di una logica evocativa e visionaria quelle premesse astratte che Mondrian – «transitato» anch’egli per il n – porterà alle più radicali conseguente. Ma il contenuto teorico del n cominciava a pesare sui suoi sostenitori. Proprio nel momento in cui Seurat modificava sensibilmente la propria maniera, il movimento era onnipotente al Salon des Indépendants e la dottrina veniva ovunque interpretata o saccheggiata mentre numerosi erano coloro che lamentavano l’arbitrarietà del metodo e l’autoritarismo del suo leader. Pissarro se ne distaccò per primo, insoddisfatto di «una tecnica che mi irretisce e frena la spontaneità della sensazione », seguito apertamente da Hayet, Luce e van de Velde.

Se i temperamenti più dotati perseguivano la strada di una maggiore scioltezza e libertà, il successo e l’apparente semplicità della formula neoimpressionista ne andavano determinando la sempre più vasta diffusione nei settori e negli ambienti più vari. Dinnanzi all’impulso degli impressionsiti, ormai universalmente riconosciuti, all’incostestabile finezza del metodo pointilliste ed al sostegno critico e morale fornitogli dal simbolismo letterario, pittori accademici come E. Laurent, Amant-Jean, H. Petitjean, H. Martin o Le Sidaner dovevano presto tentare il recupero a proprio vantaggio del carattere innovatore del n, più che altro come comodo espediente per conferire alle loro opere un sigillo di pretesa modernità. Un fenomeno, questo, che aveva già preoccupato Seurat (ossessivamente geloso del suo primato tecnico e teorico al punto da rasentare, nel 1888, la rottura con Signac): «Più saremo, più perderemo di originalità, e il giorno in cui tutti adotteranno questa tecnica essa non avrà più alcun valore e si cercherà qualcosa di nuovo, cosa che sta già accadendo».

Il propagarsi della dottrina divisionista non può tuttavia ridursi ad una banalizzazione in negativo; al contrario, la seduzione del pointillisme non risparmiò alcun movimento ed esercitò un influsso durevole sul futuro percorso della pittura europea. Anquetin, van Gogh, Bernard, persino Gauguin vi erano stati tutti tentati, prima di respingerlo con decisione; e la finezza del procedimento aveva interessato, e condizionato, ex Nabis come Vuillard, Vallotton e Bonnard. In particolare la nuova maniera di Signac, concepita con ampiezza in mosaici splendenti sul fondo chiaro, arrivò a suggestionare Matisse che nel 1904 realizzò a Saint-Tropez, presso l’anziano maestro, il suo famoso Luxe, calme et volupté, aprendo così la strada ai futuri esiti fauves. Anche Derain, indirizzato da Matisse, adottò infatti questa tecnica nel 1905, durante un soggiorno a Collioure, seguito tra il 1906 ed il 1907 da Metzinger e Delaunay, da Severini e G. Balla; il cubismo ottico e il futurismo traevano così, a loro volta, più di un suggerimento dal n, che consentì in particolare ai cubisti di perseguire, dopo il ’14, una nuova definizione dinamica dello spazio.

Anche fuori di Francia la morte di Seurat non aveva minimamente compromesso la diffusione del movimento. In Italia, Pellizza da Volpedo si associava in modo esplicito alle ricerche francesi mentre Segantini, Previati e Grubicy riportavano all’interno del divisionismo le istanze idealistiche e misticheggianti della tradizione accademica, traducendole in una peculiarità tecnica e stilistica dalla cadenza mossa, fluida e dagli esiti altamente evocativi. Attraverso il Belgio, e precisamente per influsso di van Rysselberghe e van de Velde, i tedeschi P. Baum, C. Hermann e C. Rohlfs dovevano a loro volta, allo scadere del secolo, adottare la modalità puntinista; I. Hauptmann, in rapporti con Signac tra il 1908 e il 1912, terrà in vita il linguaggio neoimpressionista fino al 1920.