5/13/2020

Pop Art

Utilizzato dapprima per designare prodotti e fenomeni della cultura di massa, dal 1960 ca. il termine passò a indicare le opere ad essa ispirate, attente soprattutto, anche per la messa a punto di nuove tecniche di rappresentazione, alle forme e ai mezzi della comunicazione.

Due le esperienze fondamentali ascrivibili alla PA: quella inglese, la piú precoce, e quella statunitense, la piú nota e audace.

Inghilterra

Peculiarità costante di tutta la PA inglese è un preciso intento analitico, critico talora, già sotteso alle ricerche intraprese da Eduardo Paolozzi dal 1947 e poi sempre applicato a ogni manifestazione della mass culture; le attività umane e il panorama urbano che esse vanno configurando sono il nuovo principale oggetto di attenzione estetica e di giudizio. Il critico Lawrence Alloway fu diretto partecipe di tali indagini quale membro dell’Indipendent Group, sorta di sottocomitato ufficioso nato in seno all’Institute of Contemporary Art (ICA), ritrovo londinese di giovani artisti. Egli ha individuato tre distinte fasi di questo fenomeno artistico. Una prima, databile tra il 1953 e il 1958, particolarmente suggestionata dalla moderna tecnologia, fu scandita da alcune mostre: Parallel of Life and Art (1953), che rivelò le svariate potenzialità delle immagini fotografiche e le sfruttò per proporre un confronto tra l’arte popolare e quella della tradizione colta; Man Machine and Motion (1955); This is Tomorrow (1956), ricca di allestimenti ambientali e ricordata quale evento cruciale per l’esposizione del collage di Richard Hamilton Just Wath It Is That Makes Today’s Homes So Different, So Appiling?, paradigmatica rassegna di cose e immagini dell’experiri contemporaneo.

Una seconda fase (1957-61), astratta, ebbe protagonisti alcuni allievi del Royal College of Arts: Richard Smith, William Green, Robyn Denny, Peter Blake. La terza, nuovamente figurativa, alcuni loro piú giovani colleghi: Billie Apple, Derek Boshier, Patrick Caufield, David Hockney, Alien Jones, R. B. Kitaj, Peter Phillips.

Usa

Giunta ad esaurimento l’esperienza esasperatamente soggettivistica dell’espressionismo astratto, l’artista torna a confrontarsi con l’oggetto, con una realtà urbana cui cessa di opporsi quale individuo d’eccezione assumendo, viceversa, atteggiamenti quanto piú impersonali e ordinari.
Il primo a esigere una pittura ugualmente compromessa con l’arte e con la vita fu Robert Rauschenberg, i cui combine-paintings (insiemi di pittura e dei reperti oggettuali piú disparati) sono eventi con tutto il valore della realtà (Bed, 1955; Coca Cola Plan, 1958; Gift for Apollo, 1959). Le sue ricerche, intraprese alla metà circa degli anni Cinquanta, e quelle parallele di Jasper Johns (Three Flags, 1959; Fool’s House, 1962) furono definite New Dada: il prelievo oggettuale riconduce ai ready-made di Marcel Duchamp e ai merz di Kurt Schwitters pur non essendovi piú presupposto l’intento polemico che induceva la defunzionalizzazione bensí una positiva volontà conoscitiva, reportagistica, narrativa. Esperienza cruciale, quella dei neodadaisti: se tra arte e vita non c’è soluzione di continuità, se il fenomeno estetico è reso equivalente a qualunque altro, l’evento effimero, l’agire teatralizzato dell’happening sarà ora legittima alternativa al nuovo corso della rappresentazione, quello piú propriamente pop.

Figure di transizione, partecipi di entrambi i linguaggi furono Jim Dine e Claes Oldenburg; ma mentre il primo restò per lo piú legato al prelievo di un oggetto già esistente e usato (12 Green Ties, 1961; Red Knife, 1962; Shovel, 1962), Oldenburg rivendicò alla cosa una esteticità nuova ricostruendola ingigantita o «ammorbidita», spesso giocando a raddoppiare l’artificialità dei cibi plastificati dei fast-food, prodotto paradigmatico della società consumistica che premette l’immagine alla sostanza (Giant Hamburger, 1962; Soft Typewriter, 1963; Fried Potatoes, 1964).

Sul versante esclusivamente iconico si mantenne la produzione di Roy Lichtenstein, capitolo ultimo di quella ricerca analitica sulle componenti della pittura già intrapresa un secolo prima da Seurat. Egli «sezionò» le immagini della comunicazione di massa dilatando e riproducendo artigianalmente il sistema del retino tipografico e dell’immagine televisiva, spartito da linee nette e sinuose parimenti desunte dal neoimpressionismo. Indifferente al contenuto, Lichtenstein sottopose al medesimo trattamento oggetti volgari (Meat, 1962; Sponge, 1962) e grandi opere d’arte (Cézanne, 1962; Woman with Flowered Hat, 1963, da Picasso); spesso si soffermò sui fumetti, icone di massa per eccellenza, ottenendo, tramite la dilatazione e l’isolamento delle singole vignette, la cancellazione delle due peculiarità prime delle strips: riproducibilità meccanica e valore narrativo (Okay, hot-shot, okay!, 1963; As I opened fire..., 1964).

Andy Warhol adottò spesso il procedimento inverso, connotando le sue immagini con quelle caratteristiche che la riproduzione massiccia conferisce loro inevitabilmente: serializzazione, infinita modulazione cromatica, imperfetta adesione di colore e immagine. Col procedimento del silk-screen (stampa su tela), Warhol equiparò eventi di cronaca, per lo piú tragica (Green Car Crash, 1963; Hospital Disaster, 1963), uomini famosi (Marilyn, 1962; 12 Jakies, 1965) e prodotti dell’industria (Campbell’s Soup cans 200, 1962; Brillo Boxes, 1964) azzerando a un tempo la loro intrinseca vitalità e l’emotività del fruitore e riproponendo, anche in ambito estetico, la pratica contemporanea dell’«usa e getta».

Immagini di massa non sono solo quelle dei rotocalchi o del teleschermo: Tom Wesselmann e James Rosenquist imitarono il gigantismo dei cartelloni pubblicitari, costanti del panorama urbano che si sedimentano necessariamente nel bagaglio visivo di ognuno. Wesselmann, in particolare, innescò un rapporto dialettico tra immagine pubblicitaria e storia
dell’arte (si veda la serie dei Great American Nudes, pregni di rimandi a Matisse e a Modigliani), finzione e vissuto reale (Bathub Collage n. 3, 1963); Rosenquist, diversamente,
mantenne alle proprie immagini l’impatto dimensionale e cromatico desunto dal cartellonismo, negandone però, con la giustapposizione di frammenti decontestualizzati, l’immediatezza e univocità comunicativa (Push Button, 1960-61; Vestigial Appendage, 1962; Taxi, 1964; F III, 1965). La scultura di George Segal, infine, frammentò il flusso vitale quotidiano conferendo evidenza percettiva a situazioni e gesti rinnovati meccanicamente, senza precisa consapevolezza; prelevando oggetti e persone, ne fece calchi in gesso rigorosamente bianchi, anonimi, non individualizzati: consentì cosí l’osservazione oggettiva della gestualità abituale, senza esclusione per quella colta nell’intimità del bagno, già luogo tabù e ora ambiente privilegiato della figuratività pop (The Dry Cleaning Store, 1964; Girl with a Towel, 1973).

La PA americana fu fenomeno prevalentemente newyorkese ed ebbe il suo acme entro il primo quinquennio degli anni Sessanta.
Furono alcune importanti gallerie a farne la storia: la Reuben, la Green, la Leo Castelli, la Martha Jackson, sede nel ’60 della mostra New Forms, New Media e nel ’61 di Environments, Situations, Spaces; infine, la Sidney Jannis Gallery, in cui si tennero le due esposizioni che consacrarono definitivamente la PA: New Realists (1962) e Four
Environments by New Realists (1964). La declinazione californiana del fenomeno, di cui furono protagonisti Billy Al Bengston, Joe Goode, Mel Ramos, Edward Ruscha e Wayne Thiebaud, si sviluppò con certo ritardo e non fu mai totalmente aliena da un fondamento surrealista, retaggio degli antecedenti locali.

Italia

Il Nouveau Réalisme francese fu qualcosa di ben distinto dalla PA; esperienza piuttosto raffrontabile al New Dada seppure in lieve ritardo rispetto ad esso, prendeva ugualmente le mosse dal prelievo oggettuale di matrice dadaista contemplando però, anche, un’azione ulteriore, variamente intenzionata: l’impacchettare, l’accumulare, il comprimere, il costruire, lo strappare, furono tra le costanti comportamentali cui restava di volta in volta demandata l’individuazione dell’artista (Christo, Arman, Cèsar, Tinguely, Rotella). Eccettuata dunque tale esperienza e fatte salve l’importanza e la precocità della pop inglese, quella italiana fu la produzione europea piú significativa, variegata e autonoma di PA. Quando la pop statunitense fece la sua ufficiale, scandalosa comparsa in Italia grazie alla Biennale di Venezia del 1964, già da un decennio Titina Maselli e Giannetto Fieschi lavoravano negli Usa, Valerio Adami esponeva all’ICA di Londra e gallerie di tutta Italia si erano aperte all’arte di Jasper Johns (a Milano nel ’59), di Robert Rauschenberg (a Roma nel ’53 e nel ’59, a Firenze nel ’53, a Milano nel ’61, a Torino nel ’64), di Jim Dine (a Milano nel ’62), di Roy Lichtenstein (a Torino nel ’63).

A Roma, intorno alle Gallerie La Tartaruga e La Salita si venne costituendo una vera e propria scuola romana (o di piazza del Popolo); vi si distinse Mario Schifano che, pur rivolgendosi agli stereotipi della piú ordinaria comunicazione pubblicitaria, li replicò con inquadrature impreviste e frammentarie senza peraltro mai rinunciare a eleganze propriamente pittoriche (Segno d’energia 3, 1962); vi operò Franco Angeli, connotando ideologicamente i suoi quadri «sfocati» (Le miniere di re Salomone, 1962); Giosetta Fioroni, che riproponeva in simulazioni fotografiche gli effetti lirici della pellicola d’argento (Faccia bicolore, 1967); Jannis Kounellis, che rifletteva in bianco e nero sui segni linguistici elementari (Z44, 1960); Tano Festa, citando illustri immagini storiche (Particolare della Cappella Sistina, 1963); Mario Ceroli, che invase lo spazio con silhouettes di legno implicanti una regressione anche materiale (Cina, 1966). Importante l’ironia e l’inventiva di Pino Pascali, capace di una «ricreazione del mondo» coi materiali piú disparati (Il mare, 1965). Anche Torino fu centro propulsore di certa importanza: vi gravitò Michelangelo Pistoletto, con ingannevoli superfici specchianti (Due persone, 1964); Piero Gilardi, con soffici, coloratissimi tappeti-natura, piccoli prati desunti dall’immaginario infantile (Orto, 1967); ancora, Ugo Nespolo e Aldo Mondino. A Pistoia Roberto Barni, Umberto Buscioni e Gianni Ruffi diedero vita a una scuola pop locale; a Bologna operò Concetto Pozzati. A Milano si distinse la ricerca del già citato Valerio Adami, le cui piatte campiture di colore assolutamente artificiale, cinte da una spessa bordatura nera, rivelano matrici surrealiste (Studio per latrine in Tames Square, 1968). Attivo a Milano anche Lucio Del Pezzo, prodigo di citazioni dechirichiane (La grande mensola, 1964); la citazione, del resto, sembra l’ineliminabile cifra comune ad artisti operanti in un contesto cosí fortemente connotato dalla propria gloriosa tradizione culturale. Solo talora ascritti alla PA i grotteschi feroci personaggi di Enrico Baj (Generale, 1963) o i particolari ingranditi e resi con esattezza già iperrealistica di Domenico Gnoli (Fermeture éclaire, 1967).