La disputa sul p non è affatto fenomeno prettamente cinquecentesco e italiano:
in realtà esso ha un’estensione geografica, cronologica e culturale assai
maggiore. Nasce sí in Italia, ma nel Trecento, al di fuori dell’ambito
figurativo, nell’ambiente intellettuale delle università, come contrapposizione
tra legisti e artisti, ovvero tra studiosi di legge e di medicina e/o scienze
naturali (Garin).
La rigida struttura simbolica del sistema delle arti liberali, ripartita, per
affinità alle Virtù, tra Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (aritmetica,
geometria, astronomia
e musica), secondo uno schema ideato da Marziano Capella, perfezionato da Boezio
e Cassiodoro e divulgato dai curricula di studio non meno che da cicli
figurativi pittorici e scultorei (le formelle del lato nord della seconda fascia
del campanile di Giotto, gli affreschi del Cappellone degli Spagnoli a Santa
Maria Novella di Andrea da Firenze) entra in crisi nel basso Medioevo per
l’urgenza di nuove, diverse professionalità, che si ribellano alla riduttiva
definizione tomistica di arti servili o meccaniche (formelle della prima fascia
del campanile di Giotto).
Lo sfaldarsi del modello sociale feudale, aristocratico, l’affermarsi di una
maggiore mobilità tramite un’organizzazione socio-politico-economica imperniata
sulle corporazioni di
mestiere, o arti, forniscono il contesto di un’espansione e alterazione di
rapporti sociali e di una loro rielaborazione anche teorica, che superi
schematismi numerologia. Tuttavia il pregiudizio antico, classico, sfavorevole
alle attività manuali determina che ampliamenti e assimilazioni del novero delle
discipline nobili siano fondate su una proporzionalità inversa tra manualità
esecutiva e livello gerarchico riconosciuto (F. Bologna).
I pittori, che quasi ovunque si riconoscevano in compagnie protette
dall’evangelista pittore (san Luca), non ebbero corporazioni a sé stanti, ma, a
seconda delle varie città, si trovarono aggregati ad altre arti: a Firenze fino
al 1571 fecero parte di quella dei medici e speziali, a Bologna di quella detta
delle Quattro Arti (assieme a spadai, guainai e sellai) e, dopo il 1569,
passarono alla guida di quella dei Bombasari. Analogamente, gli scultori si
iscrivevano, a seconda dei casi e delle città, all’arte dei maestri di pietra e
legname (come
gli architetti) o a quella degli orefici. La storia dell’affrancamento degli
artisti da queste corporazioni medievali, per solito tramite l’istituzione di
accademie analoghe a quelle letterarie, rappresenta il momento socialmente
visibile e significativo del loro movimento di affermazione intellettuale.
Fino al Cinquecento, ognuna delle arti figurative moderne procede al proprio
riconoscimento sociale seguendo un percorso autonomo. Un primo, chiaro tentativo
di «liberalizzazione» della pittura si percepisce nei capitoli introduttivi del
Libro dell’Arte di Cennino Cennini (1390 ca.), laddove essa è definita come
un’arte per cui «conviene avere fantasia e operazione di mano, di trovare cose
non vedute, cacciandosi sotto ombra di naturali, e fermarle con la mano, dando a
dimostrare quello che non è, sia. E con ragione merita metterla a sedere in
secondo grado alla scienza e coronarla di poesia». Per Cennino, modesto pittore
toscano di buona scuola giottesca attivo soprattutto a Padova, città
universitaria ove Petrarca aveva innescato la disputa tra medici e legisti mezzo
secolo prima, la via nobilitante della pittura passa per il raffronto con la
poesia, e in particolare con la poetica stilnovista, ormai superata
letterariamente, ma di cui egli riprende puntualmente i principî cardine (la
gentilezza di core, la virtù) per trasferirli nella definizione teorica del suo
idioma figurativo non meno attardato.
A Firenze invece Filippo Villani (1404) propone per primo un timido confronto
tra pittura e arti liberali, che Leon Battista Alberti (1436) svilupperà in
un’affermazione decisa e martellante della nobiltà della pittura che si avvale
del confronto non con la poesia o la retorica, ma con la scienza, in particolare
la matematica o geometria, ovvero la scienza prospettica quale si era venuta
costituendo con gli studi di Filippo Brunelleschi e in seguito di Piero della
Francesca. Tuttavia spetta sempre all’Alberti la delineazione (sul modello
dell’oratore ciceroniano, «vir bonus dicendi peritus» ) della figura ideale
dell’artista «huomo buono et docto in buone lettere», il che comporta una
versatilità «in tutte l’arti liberali», comprese poesia e retorica che «anno
molti ornamenti comuni col pittore».
Il tema dell’ut pictura poesis e quello dell’ut rhetorica pictura, in tutte le
loro determinazioni e implicazioni, diventano riferimenti quasi topici nella
trattatistica d’arte rinascimentale e barocca (Lee, Spencer) e riflettono
dapprima il percorso di affrancamento letterario della pittura, poi, col
Seicento, un fortunato cliché critico-retorico. Architettura e scultura
procedono frattanto per altre vie. Lorenzo Ghiberti (1450 ca.) insiste sulla
necessità per lo scultore di un saldo fondamento teorico, che egli identifica
con il disegno, comune a pittura e scultura: si pongono cosí le basi di un
sistema, per il momento diadico, delle arti figurative come arti del disegno.
Benché Schlosser abbia attribuito l’invenzione di tale sistema all’Alberti, esso
trova la sua formulazione piena solo nel Proemio alle Vite di Giorgio Vasari (in
modo piú articolato nell’edizione del 1568), donde lo trae e lo sviluppa il
Danti (1567). Per l’Alberti del De pictura infatti tanto la scultura quanto
l’architettura erano, in maniera diversa, subordinate alla pittura e addirittura,
nel caso del bassorilievo, i limiti tra scultura e pittura sembrano ridursi a
mere distinzioni tecniche, non concettuali. Ma, nel De re aedificatoria, la
scala dei valori cambia, diventando favorevole all’architettura, secondo
tradizione.
Poco piú tardi, nel 1468, Federico da Montefeltro, rilasciando una patente a
Luciano Laurana, dichiara la propria stima per gli uomini «ornati di ingegno e
di virtú, e massime di quelle virtù che sempre sono state in prezzo appresso gli
antichi e i moderni, come è la virtù dell’architettura fondata in l’arte
dell’aritmetica e geometria, che sono delle sette arti liberali e principali,
perché sono in primo gradu certitudinis». La sua definizione di architettura
sembra corrispondere, non per caso, a quella di «arte del disegno» data da
Francesco di Giorgio Martini (1439-1501). In effetti, il discorso sulla nobiltà
dell’architettura, arte di ovvia utilità e progettualità, collegata alle scienze
esatte e, tramite la teoria delle proporzioni armoniche, alla musica, va tenuto
distinto da quello sulle arti esplicitamente «mimetiche» come pittura e scultura,
in quanto da un lato essa è avvantaggiata dalla possibilità di scindere il
momento teorico, progettuale, da quello esecutivo, meccanico (tanto che ricorre
già nella letteratura tomistica il gratificante parallelo tra Dio e l’architetto)
e dall’altro perché, fino all’affermazione del sistema trinitario delle arti, ad
essa si subordinano di fatto tutte le altre arti figurative, non solo pittura e
scultura, ma anche oreficeria, miniatura, tarsia, vetrate: la testimonianza piú
chiara è data dal Taccuino di Villard de Honnecourt in cui si trovano, oltre a
modelli per ciascuna delle arti indicate, anche ricette di medicina e progetti
di ingegneria meccanica e idraulica, a riprova dell’universalità del sapere
richiesta all’architetto, fin da Vitruvio.
La fiorente produzione trattatistica cinquecentesca, in Italia come in Francia,
in Inghilterra o in Germania, consolida una posizione autonoma, e per certi
versi privilegiata, di questa arte. Eppure, nella lettera di Marsilio Ficino a
Paolo di Middelburg del 1492 in cui si propone un nuovo mondo di arti liberali,
definite come grammatica, poesia, retorica, pittura, architettura, musica e
canto orfico sulla lira, l’unica arte figurativa non nominata è la scultura, a
riprova di un’esclusione e uno sfavore che costituiscono un atteggiamento
prevalente nella storia della disputa. Questa, a partire dall’intervento di
Leonardo, si restringe, determina e specifica in un paragone tra le arti
congeneri e concorrenti di pittura e scultura, risolto da Leonardo in favore
della prima; paragone che troverà il suo culmine intellettuale nella disputa
varchiana.
È certo che la questione della nobilitazione e gerarchia delle arti,
particolarmente viva a Firenze e nel centro Italia, non è però monopolio di
questa area. Nella Padania, ad esempio,
numerose sono le voci che si levano a favore della pittura: la celebre lettera
del veneziano Jacopo de’ Barbari a Federico di Sassonia (1501) trova un’eco
chiara e rinforzata nel Viridario del letterato bolognese Giovanni Filoteo
Achillini (1513) ( «Fra l’arti liberali è la pittura | Sette se soglion dir,
questa è l’ottava | Che imita bene e supera natura»). Già Niccolò Burzio (musicista),
nel suo Bononia illustrata (1494) aveva anteposto gli artisti bolognesi (scultori
e orafi compresi), e in particolare il Francia, a matematici, astrologi,
geometri e musici (gli esponenti del Quadrivio), nonché agli scolastici,
posponendoli invece a giuristi, letterati e grammatici: è evidente allora che i
contributi settentrionali riflettono un collegamento, peraltro ancora
inesplorato, con le dispute universitarie, ma è anche interessante osservare
come il ribaltamento di valori intellettuali incidentalmente proposto dal Burzio
somigli a quello avanzato, indipendentemente, da Leonardo. Per la verità, il
ribaltamento leonardesco è ancor piú radicale, poiché perfino la poesia (oltre
alla musica) diventa
arte inferiore alla pittura, di cui si celebra, oltre all’intellettualità e
dignità sociale, anche e soprattutto l’universalità di applicazione e quasi
l’onnipotenza, la capacità di rappresentare ogni aspetto del visibile («le
nebbie per le quali con difficultade penetrano le spezie delli obbietti; le
piogge che mostrano dopo di sé li nuvoli con monti e valli; le polvere che
mostrano in sé e dopo sé li combattenti d’esse mottori; li fiumi piú o men densi;
li pesci scherzanti infra la superfizie dell’acqua et il fondo suo; le pulite
ghiare con vari colori possarsi sopra le lavate arene dal fondo de’ fiumi
circondati dalle verdeggianti erbe dentro alla superfizie dell’acqua; le stelle
in diverse altezze sopra di noi, e così altri innumerabili effetti, alli quali
la scultura non aggionge»).
Così, con Leonardo la pittura assume nuovamente, quella dimensione di «scienza»
che aveva già avuto in Alberti, ma in un senso affatto nuovo, di sussidio e, al
tempo stesso, risultato di una sperimentazione altamente individuale, volta a
un’indagine dettagliata e a un soggettivo recupero, in termini di comunicabilità
visiva, della realtà. La pittura è specchio, e usa lo specchio: è quasi un’opera
di magia, un inganno capzioso che, all’occhio severo di Enrico Cornelio Agrippa
di Nettesheim, la condanna assieme a tutte le scienze e a tutte le lettere, in
un annullamento delle gerarchie intellettuali nel fuoco della mistica, santa,
asinina ignoranza apostolica, paolina (De incertitudine et vantate scientiarum,
1530).
In situazioni provinciali (Genova) la discussione sulla nobiltà della pittura
può ancora avere un effetto dirompente rispetto ad attardate prassi
organizzative medievali (lettera di Giovan Battista Paggi al fratello, 1591), ma
altrove il coro unanime a favore della pittura diventa un motivo quasi topico e
scontato, sia nella Padania, ove la lezione leonardesca si complica a contatto
di sollecitazioni svariate (soprattutto Vasari nel caso di Armenini, 1587;
Giulio Camillo e la trattatistica d’arte piú recente in Lomazzo, 1584 e 1590),
sia a Roma (R. Alberti, 1585; F. Zuccari, 1607) o a Firenze (dove Raffaello
Borghini, 1584, si attiene scrupolosamente alla lezione varchiana). Novità
vengono apportate solo dalla trattatistica controriformata, in cui alla pittura
viene riconosciuta l’ulteriore nobiltà cristiana implicita nel fine didattico e
caritatevole di educare gli analfabeti alla fede, di farsi strumento di
persuasione e propaganda, ma anche di ascesi (Paleotti, 1582). Del resto, la
subordinazione delle arti alla manifestazione della fede in forme controllate
dall’autorità ecclesiastica è
esplicitata in maniera dettagliatissima anche nelle anteriori Instructiones
fabricae et supellectilis ecclesiasticae di Carlo Borromeo (1577), che investono
ogni elemento della chiesa, dalla sua collocazione e forma, fino ai dettagli
della mensa dell’altare, delle lampade, dei reliquiari e, ovviamente, ai quadri.
Si tratta di rigurgiti neomedievali che obbediscono alle disposizioni tridentine
in materia di immagini, il cui controllo è interamente demandato all’autorità
decentrata del vescovo, vigile difensore non solo dell’ortodossia, ma anche del
benessere, dello sviluppo sano dell’arte intesa come fattore di distinzione
della dottrina cattolica e di contenimento rispetto alle minacce dell’iconofobia
e iconoclastia protestanti.
La protezione vescovile si esplicita però in maniera diversa a seconda dei
luoghi e dei personaggi: se l’attività pastorale di Federico Borromeo a Milano
stimola la creazione di un’Accademia ambrosiana (1620) dai fini eminentemente
didattici, di formazione culturale (ma anche spirituale) delle nuove leve di
artisti, facendone quasi un «seminario» di tecnica
e dottrina, ecco che la protezione accordata da Paleotti alla romana Accademia
di San Luca sottolinea un progetto diverso, opposto, di «normalizzazione» della
società artistica
romana ai suoi vertici, tramite una severa gerarchizzazione e controllo operati
da dirigenti provenienti esclusivamente dalla cerchia dei protetti della corte
pontificia.
L’Accademia romana si trasforma cosí da occasione di amalgama culturale tra
diverse generazioni artistiche e momento di incontro e riflessione teorica (quale
era stata nella volontà dello Zuccaro sotto la protezione, fino al 1595, del
cardinal Federico Borromeo), in luogo di controllo moralistico, religioso e
ideologico della prassi artistica, attraverso il condizionamento di esponenti
rigorosamente selezionati del mondo romano dell’arte. Può darsi che il mancato
riconoscimento ufficiale, a Bologna, in età paleottiana e post paleottiana, di
una pubblica accademia di pittura quale quella promossa privatamente dai
Carracci abbia a che vedere con le analogie tra questa e il posteriore esempio
milanese parzialmente modellato su di essa, in contrasto con il modello romano
del periodo paleottiano. D’altro canto, dalla subordinazione di tutte le arti a
un fine religioso e dalla loro conseguente equiparazione si passa con continuità
alla loro mutua interdipendenza nell’ambito della poetica barocca, che trova
nella teatralizzazione della vita e dell’arte la sua manifestazione piú chiara.
Il senso dell’unità delle arti figurative assume nei progetti berniniani
realizzati o da realizzare (piazza Navona, piazza San Pietro, il Louvre) la sua
espressione piú alta e implica il totale superamento delle questioni del p.
Semmai, è lecito constatare, grazie anche all’attività dell’Oratorio di San
Filippo Neri, un accostarsi e accompagnarsi della musica alle arti figurative e
alla poesia. Resta vivo, certamente, il dibattito sull’ut pictura poesis,
secondo schemi che riflettono variazioni concettuali limitate, dalla
formulazione varchiana alle tirate retoriche del Marino, agli esercizi
compilatori del gesuita Possevino.
La questione del p conosce però una ulteriore, complessa fortuna oltralpe (Kristeller):
in Francia, ad esempio, nonostante l’evidente supremazia della pittura e le
conseguenti, rissose divisioni tra poussinisti e rubenisti nell’ambito
dell’Accademia reale di pittura e scultura, la creazione sotto il re Sole delle
manifatture reali di Gobelins, che producono di tutto (dai mobili agli arazzi)
su disegni del pittore del re pone con forza la questione dell’unità, ma anche
della gerarchia, delle arti anche cosiddette minori.
In Italia, a fine Settecento, l’inserimento di corsi di disegno ornamentale a
Brera e in alcune altre accademie (o, in precedenza, a Bologna, le resistenze
create da certi pittori al progetto marsigliano di un’Accademia Clementina quale
punto di raccordo e interazione tra le arti del disegno e la ricerca scientifica)
pongono con evidenza lampante la questione cruciale, ampiamente e
dettagliatamente indagata da F. Bologna, del rapporto tra le arti dette, con
terminologia ottocentesca, maggiori e quelle cosiddette minori, cui qui si è
fatto solo fuggevolissimo e occasionale cenno. D’altra parte il Settecento
propone anche, in Italia, grazie alle meditazioni di Winckelmann sulla storia
dell’arte antica, un parziale ribaltamento dell’accettata supremazia pittorica a
favore, questa volta, della scultura, che, in ambito neoclassico, assume
temporaneamente il ruolo di arte-guida. Non si tratta però di un trend europeo:
in Inghilterra, ancora nel 1770, il pittore Sir Joshua Reynolds, presidente
della Royal Academy, si sente obbligato a ribadire la nobiltà dell’esercizio
artistico in un
paese dove la riduzione sistematica della pittura a ritrattistica non ne ha
favorito sino a quel momento l’autonomia e crescita espressiva, né il
riconoscimento sociale.
In pochi anni muta tuttavia la situazione, proprio grazie alla creazione della
Royal Academy (1768), ma il divario con il continente non viene colmato: proprio
mentre si avvia in Europa la rivalutazione delle espressioni artigianali,
all’interno dell’Accademia inglese i pittori, che ne esercitano in via
continuativa la guida teorica, consolidano la supremazia intellettuale e sociale
della propria arte.
La presa di coscienza, anche terminologica, del rapporto problematico tra arti
maggiori e minori (o figurative e decorative), la distinzione insomma tra arte e
artigianato si precisa però nell’Ottocento, quando l’affermarsi della produzione
industriale, e quindi massificata e ripetitiva, pone in crisi, economica e di
sopravvivenza, la produzione artigiana. La resurrezione di questa tramite
movimenti anche ideologicamente marcati come l’Arts and Crafts e l’Art Nouveau,
il sorgere di nuove tecnologie (fotografia, elettronica), la crisi mortale di
forme espressive tradizionali come la pittura e la scultura (e delle istituzioni
cui è demandato il loro insegnamento) apre il problema della condizione
contemporanea del «sistema delle arti», in cui, accanto all’insopprimibile
architettura, alla musica, alla letteratura, si sono affermati il design, la
fotografia, la cinematografia, la creatività elettronica (televisiva e
cibernetica).