5/13/2020

Primato delle arti

La disputa sul p non è affatto fenomeno prettamente cinquecentesco e italiano: in realtà esso ha un’estensione geografica, cronologica e culturale assai maggiore. Nasce sí in Italia, ma nel Trecento, al di fuori dell’ambito figurativo, nell’ambiente intellettuale delle università, come contrapposizione tra legisti e artisti, ovvero tra studiosi di legge e di medicina e/o scienze naturali (Garin).


La rigida struttura simbolica del sistema delle arti liberali, ripartita, per affinità alle Virtù, tra Trivio (grammatica, retorica, dialettica) e Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica), secondo uno schema ideato da Marziano Capella, perfezionato da Boezio e Cassiodoro e divulgato dai curricula di studio non meno che da cicli figurativi pittorici e scultorei (le formelle del lato nord della seconda fascia del campanile di Giotto, gli affreschi del Cappellone degli Spagnoli a Santa Maria Novella di Andrea da Firenze) entra in crisi nel basso Medioevo per l’urgenza di nuove, diverse professionalità, che si ribellano alla riduttiva definizione tomistica di arti servili o meccaniche (formelle della prima fascia del campanile di Giotto).

Lo sfaldarsi del modello sociale feudale, aristocratico, l’affermarsi di una maggiore mobilità tramite un’organizzazione socio-politico-economica imperniata sulle corporazioni di mestiere, o arti, forniscono il contesto di un’espansione e alterazione di rapporti sociali e di una loro rielaborazione anche teorica, che superi schematismi numerologia. Tuttavia il pregiudizio antico, classico, sfavorevole alle attività manuali determina che ampliamenti e assimilazioni del novero delle discipline nobili siano fondate su una proporzionalità inversa tra manualità esecutiva e livello gerarchico riconosciuto (F. Bologna).

I pittori, che quasi ovunque si riconoscevano in compagnie protette dall’evangelista pittore (san Luca), non ebbero corporazioni a sé stanti, ma, a seconda delle varie città, si trovarono aggregati ad altre arti: a Firenze fino al 1571 fecero parte di quella dei medici e speziali, a Bologna di quella detta delle Quattro Arti (assieme a spadai, guainai e sellai) e, dopo il 1569, passarono alla guida di quella dei Bombasari. Analogamente, gli scultori si iscrivevano, a seconda dei casi e delle città, all’arte dei maestri di pietra e legname (come gli architetti) o a quella degli orefici. La storia dell’affrancamento degli artisti da queste corporazioni medievali, per solito tramite l’istituzione di accademie analoghe a quelle letterarie, rappresenta il momento socialmente visibile e significativo del loro movimento di affermazione intellettuale.

Fino al Cinquecento, ognuna delle arti figurative moderne procede al proprio riconoscimento sociale seguendo un percorso autonomo. Un primo, chiaro tentativo di «liberalizzazione» della pittura si percepisce nei capitoli introduttivi del Libro dell’Arte di Cennino Cennini (1390 ca.), laddove essa è definita come un’arte per cui «conviene avere fantasia e operazione di mano, di trovare cose non vedute, cacciandosi sotto ombra di naturali, e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è, sia. E con ragione merita metterla a sedere in secondo grado alla scienza e coronarla di poesia». Per Cennino, modesto pittore toscano di buona scuola giottesca attivo soprattutto a Padova, città universitaria ove Petrarca aveva innescato la disputa tra medici e legisti mezzo secolo prima, la via nobilitante della pittura passa per il raffronto con la poesia, e in particolare con la poetica stilnovista, ormai superata letterariamente, ma di cui egli riprende puntualmente i principî cardine (la gentilezza di core, la virtù) per trasferirli nella definizione teorica del suo idioma figurativo non meno attardato.

A Firenze invece Filippo Villani (1404) propone per primo un timido confronto tra pittura e arti liberali, che Leon Battista Alberti (1436) svilupperà in un’affermazione decisa e martellante della nobiltà della pittura che si avvale del confronto non con la poesia o la retorica, ma con la scienza, in particolare la matematica o geometria, ovvero la scienza prospettica quale si era venuta costituendo con gli studi di Filippo Brunelleschi e in seguito di Piero della Francesca. Tuttavia spetta sempre all’Alberti la delineazione (sul modello dell’oratore ciceroniano, «vir bonus dicendi peritus» ) della figura ideale dell’artista «huomo buono et docto in buone lettere», il che comporta una versatilità «in tutte l’arti liberali», comprese poesia e retorica che «anno molti ornamenti comuni col pittore».

Il tema dell’ut pictura poesis e quello dell’ut rhetorica pictura, in tutte le loro determinazioni e implicazioni, diventano riferimenti quasi topici nella trattatistica d’arte rinascimentale e barocca (Lee, Spencer) e riflettono dapprima il percorso di affrancamento letterario della pittura, poi, col Seicento, un fortunato cliché critico-retorico. Architettura e scultura procedono frattanto per altre vie. Lorenzo Ghiberti (1450 ca.) insiste sulla necessità per lo scultore di un saldo fondamento teorico, che egli identifica con il disegno, comune a pittura e scultura: si pongono cosí le basi di un sistema, per il momento diadico, delle arti figurative come arti del disegno. Benché Schlosser abbia attribuito l’invenzione di tale sistema all’Alberti, esso trova la sua formulazione piena solo nel Proemio alle Vite di Giorgio Vasari (in modo piú articolato nell’edizione del 1568), donde lo trae e lo sviluppa il Danti (1567). Per l’Alberti del De pictura infatti tanto la scultura quanto l’architettura erano, in maniera diversa, subordinate alla pittura e addirittura, nel caso del bassorilievo, i limiti tra scultura e pittura sembrano ridursi a mere distinzioni tecniche, non concettuali. Ma, nel De re aedificatoria, la scala dei valori cambia, diventando favorevole all’architettura, secondo tradizione.

Poco piú tardi, nel 1468, Federico da Montefeltro, rilasciando una patente a Luciano Laurana, dichiara la propria stima per gli uomini «ornati di ingegno e di virtú, e massime di quelle virtù che sempre sono state in prezzo appresso gli antichi e i moderni, come è la virtù dell’architettura fondata in l’arte dell’aritmetica e geometria, che sono delle sette arti liberali e principali, perché sono in primo gradu certitudinis». La sua definizione di architettura sembra corrispondere, non per caso, a quella di «arte del disegno» data da Francesco di Giorgio Martini (1439-1501). In effetti, il discorso sulla nobiltà dell’architettura, arte di ovvia utilità e progettualità, collegata alle scienze esatte e, tramite la teoria delle proporzioni armoniche, alla musica, va tenuto distinto da quello sulle arti esplicitamente «mimetiche» come pittura e scultura, in quanto da un lato essa è avvantaggiata dalla possibilità di scindere il momento teorico, progettuale, da quello esecutivo, meccanico (tanto che ricorre già nella letteratura tomistica il gratificante parallelo tra Dio e l’architetto) e dall’altro perché, fino all’affermazione del sistema trinitario delle arti, ad essa si subordinano di fatto tutte le altre arti figurative, non solo pittura e scultura, ma anche oreficeria, miniatura, tarsia, vetrate: la testimonianza piú chiara è data dal Taccuino di Villard de Honnecourt in cui si trovano, oltre a modelli per ciascuna delle arti indicate, anche ricette di medicina e progetti di ingegneria meccanica e idraulica, a riprova dell’universalità del sapere richiesta all’architetto, fin da Vitruvio.

La fiorente produzione trattatistica cinquecentesca, in Italia come in Francia, in Inghilterra o in Germania, consolida una posizione autonoma, e per certi versi privilegiata, di questa arte. Eppure, nella lettera di Marsilio Ficino a Paolo di Middelburg del 1492 in cui si propone un nuovo mondo di arti liberali, definite come grammatica, poesia, retorica, pittura, architettura, musica e canto orfico sulla lira, l’unica arte figurativa non nominata è la scultura, a riprova di un’esclusione e uno sfavore che costituiscono un atteggiamento prevalente nella storia della disputa. Questa, a partire dall’intervento di Leonardo, si restringe, determina e specifica in un paragone tra le arti congeneri e concorrenti di pittura e scultura, risolto da Leonardo in favore della prima; paragone che troverà il suo culmine intellettuale nella disputa varchiana.

È certo che la questione della nobilitazione e gerarchia delle arti, particolarmente viva a Firenze e nel centro Italia, non è però monopolio di questa area. Nella Padania, ad esempio, numerose sono le voci che si levano a favore della pittura: la celebre lettera del veneziano Jacopo de’ Barbari a Federico di Sassonia (1501) trova un’eco chiara e rinforzata nel Viridario del letterato bolognese Giovanni Filoteo Achillini (1513) ( «Fra l’arti liberali è la pittura | Sette se soglion dir, questa è l’ottava | Che imita bene e supera natura»). Già Niccolò Burzio (musicista), nel suo Bononia illustrata (1494) aveva anteposto gli artisti bolognesi (scultori e orafi compresi), e in particolare il Francia, a matematici, astrologi, geometri e musici (gli esponenti del Quadrivio), nonché agli scolastici, posponendoli invece a giuristi, letterati e grammatici: è evidente allora che i contributi settentrionali riflettono un collegamento, peraltro ancora inesplorato, con le dispute universitarie, ma è anche interessante osservare come il ribaltamento di valori intellettuali incidentalmente proposto dal Burzio somigli a quello avanzato, indipendentemente, da Leonardo. Per la verità, il ribaltamento leonardesco è ancor piú radicale, poiché perfino la poesia (oltre alla musica) diventa arte inferiore alla pittura, di cui si celebra, oltre all’intellettualità e dignità sociale, anche e soprattutto l’universalità di applicazione e quasi l’onnipotenza, la capacità di rappresentare ogni aspetto del visibile («le nebbie per le quali con difficultade penetrano le spezie delli obbietti; le piogge che mostrano dopo di sé li nuvoli con monti e valli; le polvere che mostrano in sé e dopo sé li combattenti d’esse mottori; li fiumi piú o men densi; li pesci scherzanti infra la superfizie dell’acqua et il fondo suo; le pulite ghiare con vari colori possarsi sopra le lavate arene dal fondo de’ fiumi circondati dalle verdeggianti erbe dentro alla superfizie dell’acqua; le stelle in diverse altezze sopra di noi, e così altri innumerabili effetti, alli quali la scultura non aggionge»).

Così, con Leonardo la pittura assume nuovamente, quella dimensione di «scienza» che aveva già avuto in Alberti, ma in un senso affatto nuovo, di sussidio e, al tempo stesso, risultato di una sperimentazione altamente individuale, volta a un’indagine dettagliata e a un soggettivo recupero, in termini di comunicabilità visiva, della realtà. La pittura è specchio, e usa lo specchio: è quasi un’opera di magia, un inganno capzioso che, all’occhio severo di Enrico Cornelio Agrippa di Nettesheim, la condanna assieme a tutte le scienze e a tutte le lettere, in un annullamento delle gerarchie intellettuali nel fuoco della mistica, santa, asinina ignoranza apostolica, paolina (De incertitudine et vantate scientiarum, 1530).

In situazioni provinciali (Genova) la discussione sulla nobiltà della pittura può ancora avere un effetto dirompente rispetto ad attardate prassi organizzative medievali (lettera di Giovan Battista Paggi al fratello, 1591), ma altrove il coro unanime a favore della pittura diventa un motivo quasi topico e scontato, sia nella Padania, ove la lezione leonardesca si complica a contatto di sollecitazioni svariate (soprattutto Vasari nel caso di Armenini, 1587; Giulio Camillo e la trattatistica d’arte piú recente in Lomazzo, 1584 e 1590), sia a Roma (R. Alberti, 1585; F. Zuccari, 1607) o a Firenze (dove Raffaello Borghini, 1584, si attiene scrupolosamente alla lezione varchiana). Novità vengono apportate solo dalla trattatistica controriformata, in cui alla pittura viene riconosciuta l’ulteriore nobiltà cristiana implicita nel fine didattico e caritatevole di educare gli analfabeti alla fede, di farsi strumento di persuasione e propaganda, ma anche di ascesi (Paleotti, 1582). Del resto, la subordinazione delle arti alla manifestazione della fede in forme controllate dall’autorità ecclesiastica è esplicitata in maniera dettagliatissima anche nelle anteriori Instructiones fabricae et supellectilis ecclesiasticae di Carlo Borromeo (1577), che investono ogni elemento della chiesa, dalla sua collocazione e forma, fino ai dettagli della mensa dell’altare, delle lampade, dei reliquiari e, ovviamente, ai quadri. Si tratta di rigurgiti neomedievali che obbediscono alle disposizioni tridentine in materia di immagini, il cui controllo è interamente demandato all’autorità decentrata del vescovo, vigile difensore non solo dell’ortodossia, ma anche del benessere, dello sviluppo sano dell’arte intesa come fattore di distinzione della dottrina cattolica e di contenimento rispetto alle minacce dell’iconofobia e iconoclastia protestanti.

La protezione vescovile si esplicita però in maniera diversa a seconda dei luoghi e dei personaggi: se l’attività pastorale di Federico Borromeo a Milano stimola la creazione di un’Accademia ambrosiana (1620) dai fini eminentemente didattici, di formazione culturale (ma anche spirituale) delle nuove leve di artisti, facendone quasi un «seminario» di tecnica e dottrina, ecco che la protezione accordata da Paleotti alla romana Accademia di San Luca sottolinea un progetto diverso, opposto, di «normalizzazione» della società artistica romana ai suoi vertici, tramite una severa gerarchizzazione e controllo operati da dirigenti provenienti esclusivamente dalla cerchia dei protetti della corte pontificia.

L’Accademia romana si trasforma cosí da occasione di amalgama culturale tra diverse generazioni artistiche e momento di incontro e riflessione teorica (quale era stata nella volontà dello Zuccaro sotto la protezione, fino al 1595, del cardinal Federico Borromeo), in luogo di controllo moralistico, religioso e ideologico della prassi artistica, attraverso il condizionamento di esponenti rigorosamente selezionati del mondo romano dell’arte. Può darsi che il mancato riconoscimento ufficiale, a Bologna, in età paleottiana e post paleottiana, di una pubblica accademia di pittura quale quella promossa privatamente dai Carracci abbia a che vedere con le analogie tra questa e il posteriore esempio milanese parzialmente modellato su di essa, in contrasto con il modello romano del periodo paleottiano. D’altro canto, dalla subordinazione di tutte le arti a un fine religioso e dalla loro conseguente equiparazione si passa con continuità alla loro mutua interdipendenza nell’ambito della poetica barocca, che trova nella teatralizzazione della vita e dell’arte la sua manifestazione piú chiara.

Il senso dell’unità delle arti figurative assume nei progetti berniniani realizzati o da realizzare (piazza Navona, piazza San Pietro, il Louvre) la sua espressione piú alta e implica il totale superamento delle questioni del p. Semmai, è lecito constatare, grazie anche all’attività dell’Oratorio di San Filippo Neri, un accostarsi e accompagnarsi della musica alle arti figurative e alla poesia. Resta vivo, certamente, il dibattito sull’ut pictura poesis, secondo schemi che riflettono variazioni concettuali limitate, dalla formulazione varchiana alle tirate retoriche del Marino, agli esercizi compilatori del gesuita Possevino.

La questione del p conosce però una ulteriore, complessa fortuna oltralpe (Kristeller): in Francia, ad esempio, nonostante l’evidente supremazia della pittura e le conseguenti, rissose divisioni tra poussinisti e rubenisti nell’ambito dell’Accademia reale di pittura e scultura, la creazione sotto il re Sole delle manifatture reali di Gobelins, che producono di tutto (dai mobili agli arazzi) su disegni del pittore del re pone con forza la questione dell’unità, ma anche della gerarchia, delle arti anche cosiddette minori.

In Italia, a fine Settecento, l’inserimento di corsi di disegno ornamentale a Brera e in alcune altre accademie (o, in precedenza, a Bologna, le resistenze create da certi pittori al progetto marsigliano di un’Accademia Clementina quale punto di raccordo e interazione tra le arti del disegno e la ricerca scientifica) pongono con evidenza lampante la questione cruciale, ampiamente e dettagliatamente indagata da F. Bologna, del rapporto tra le arti dette, con terminologia ottocentesca, maggiori e quelle cosiddette minori, cui qui si è fatto solo fuggevolissimo e occasionale cenno. D’altra parte il Settecento propone anche, in Italia, grazie alle meditazioni di Winckelmann sulla storia dell’arte antica, un parziale ribaltamento dell’accettata supremazia pittorica a favore, questa volta, della scultura, che, in ambito neoclassico, assume temporaneamente il ruolo di arte-guida. Non si tratta però di un trend europeo: in Inghilterra, ancora nel 1770, il pittore Sir Joshua Reynolds, presidente della Royal Academy, si sente obbligato a ribadire la nobiltà dell’esercizio artistico in un paese dove la riduzione sistematica della pittura a ritrattistica non ne ha favorito sino a quel momento l’autonomia e crescita espressiva, né il riconoscimento sociale.

In pochi anni muta tuttavia la situazione, proprio grazie alla creazione della Royal Academy (1768), ma il divario con il continente non viene colmato: proprio mentre si avvia in Europa la rivalutazione delle espressioni artigianali, all’interno dell’Accademia inglese i pittori, che ne esercitano in via continuativa la guida teorica, consolidano la supremazia intellettuale e sociale della propria arte.

La presa di coscienza, anche terminologica, del rapporto problematico tra arti maggiori e minori (o figurative e decorative), la distinzione insomma tra arte e artigianato si precisa però nell’Ottocento, quando l’affermarsi della produzione industriale, e quindi massificata e ripetitiva, pone in crisi, economica e di sopravvivenza, la produzione artigiana. La resurrezione di questa tramite movimenti anche ideologicamente marcati come l’Arts and Crafts e l’Art Nouveau, il sorgere di nuove tecnologie (fotografia, elettronica), la crisi mortale di forme espressive tradizionali come la pittura e la scultura (e delle istituzioni cui è demandato il loro insegnamento) apre il problema della condizione contemporanea del «sistema delle arti», in cui, accanto all’insopprimibile architettura, alla musica, alla letteratura, si sono affermati il design, la fotografia, la cinematografia, la creatività elettronica (televisiva e cibernetica).