Percezione e rappresentazione
Il termine p deriva dal latino perspicere (vedere chiaramente) e riveste
un’importanza fondamentale nel campo storico-artistico come sistema di
rappresentazione dello spazio tridimensionale. Si parla generalmente di p
davanti a qualunque opera che denoti connotati o interessi di resa
tridimensionale. La p centrale che contraddistigue almeno cinque secoli di
pittura occidentale è una conquista degli artisti del primo Quattrocento toscano.
Dai teorici rinascimentali comincia a essere denominata perspectiva artificialis
distinguendola dalla perspectiva naturalis, connessa con l’ottica elaborata
nell’Antichità e nel Medioevo.
Nei differenti metodi di restituzione prospettica è presente la fusione di dati
squisitamente geometrici con altri che richiamano la nostra comune esperienza
visiva (ad esempio
l’orizzonte, la fuga delle parallele). Lo studio delle applicazioni prospettiche
in pittura ha creato un ampio dibattito che ha come momento chiave il celebre
saggio di Panofsky (La prospettiva come forma simbolica, ia ed. 1927, trad, it.
1961), dove la p è ritenuta l’espressione sensibile di un contenuto spirituale
(in collegamento con la filosofia delle «forme simboliche» di Cassirer) negando
un suo presunto carattere di immutabilità. All’intervento di Panofskyve aggiunto
il chiarimento fornito da Gombrich: «L’arte della p aspira a realizzare
un’equazione corretta; mira a che l’immagine appaia come l’oggetto, e l’oggetto
come l’immagine. Raggiunto questo scopo, fa l’inchino e si ritira» (1959, trad.
it. 1966). Con questo assunto Gombrich delimita il campo delle indagini
sull’argomento, evitando al contempo la supposta aspirazione alla «duplicazione
della realtà» che fuorvia dalle finalità
proprie della p. Successive interpretazioni hanno sviluppato l’analisi su basi
stilistiche, sociologiche, fino a quelle semiologiche piú recenti.
Se proprio si vuole introdurre una qualche categoria all’interno della p,
tenendo sempre presente la pluralità delle tecniche rappresentative, può essere
utile la differenziazione tra una prospettiva «ottico-geometrica» e una di tipo
«concettuale» (Vagnetti, 1979). La p ottico-geometrica si riferisce chiaramente
alla p artificiale mentre quella definita concettuale si serve di altre
convenzioni come lo scarto dimensionale, l’allineamento o la sovrapposizione per
distribuire cose e figure nel piano. Un primo esempio riguarda alcuni brani di
pittura rupestre del Paleolitico superiore: le figure animali sono trasposte
sulla base di una percezione mnemonica. La cosa che maggiormente colpisce è il
forte senso plastico, accompagnato dalla correttezza di certi dettagli (ad
esempio le zampe). Altamente significativa la mancanza di un quadro delimitante,
da intendere come non necessario a una visione pienamente naturale.
La cultura figurativa egiziana e mesopotamica presenta idee di rappresentazioni
spaziali nella disposizione in registri orizzontali o verticali. Le dimensioni
dei personaggi variano secondo l’importanza gerarchica e la caratteristica
generale risiede nel privilegio accordato alla «forma piú completa e
rappresentativa possibile» (Pierantoni, 1981). La composizione combinata di
elementi in veduta frontale e di altri in veduta di profilo evita lo scorcio in
favore di una rappresentazione ideale. Emblematica della resa aprospettica
egiziana è poi la raffigurazione di uno stagno in planimetria e, nello stesso
contesto, di figure umane nel senso dell’altezza, convenzione che Gombrich
ritrova impiegata ancora oggi nelle carte turistiche (1975, trad. it. 1980).
Antichità classica
La civiltà greca compie un ampio salto qualitativo nella figurazione spaziale
anche se valutabile solo parzialmente a causa dei pochi documenti pittorici
pervenutici. Prima ancora, in ambito cretese, l’affresco raffigurante una
Tauromachia del Palazzo di Cnosso (Heraclion, ma) dimostra un altro approccio
istintivo verso la rappresentazione (testimoniato anche dalla vivacità dei
colori), questa volta però fissato entro i limiti di una cornice. Pure dovuta ad
artefice cretese è la Tazza aurea di Vaphiò (1600-1500 a. C.: Atene, mn),
lavorata a sbalzo con notevole sensibilità plastica e insieme pittorica per
l’attenzione riservata alla luce. I corpi della figura umana e degli animali
implicano degli scorci che favoriscono il
movimento narrativo. La rappresentazione di scorci è un dato emergente della
pittura vascolare greca a partire all’incirca dal sec. V a. C. Il cosiddetto
Pittore dei Niobidi dispone figure e oggetti (soprattutto scudi rotondi) in un
campionario di articolazioni spaziali che tende al tridimensionale (cratere con
La strage dei Niobidi, 460-450 a. C.: Parigi, Louvre). Una serie di dipinti
vascolari provenienti dalla Puglia (databili verso la metà del sec. IV a. C.)
mostra in piú delle architetture figurate vagamente in assonometria (quindi col
punto di fuga all’infinito) per ospitare delle scene tragiche da porre in
relazione con la pratica teatrale (un esempio a Würzburg, Martin von Wagner
Museum).
Il sottofondo teatrale che lega la cultura greca alla p è del resto confermato
da richiami letterari e trattatistici. Vitruvio nel De Architectura (sec. I a.
C.) cita la realizzazione di scene tragiche nell’antica Grecia e include la
scaenographia (forse la veduta prospettica) come elemento del disegno
architettonico assieme all’ichnographia (pianta) e all’ortographia (prospetto).
Senza poter trarre da questi cenni dei riferimenti precisi, di fatto
l’architettura greca introduce per prima dei canoni su basi matematiche e la
rappresentazione prospettica risulta fondamentale nella progettazione.
L’elevato grado di approfondimento scientifico nello studio della visione è
evidente nell’Optiké di Euclide (sec. III a. C.). Il famoso trattato contempla
la determinazione in forma conica dei raggi visuali (anticipazione della
piramide albertiana) e la dipendenza delle dimensioni degli oggetti dall’angolo
visivo sotto cui sono osservati, due formulazioni che tengono conto della
curvatura oculare. Quanto alle applicazioni pratiche, un segno eloquente sono i
correttivi ottici adottati per bilanciare le deformazioni prospettiche delle
architetture. Altri
importanti indizi figurativi provengono dalla pittura parietale romana, riflesso
sicuro della decorazione ellenistica. Gli esempi rimasti sono concentrati in
massima parte nella zona di Pompei e contengono in alcuni casi dei sorprendenti
sviluppi tridimensionali di strutture architettoniche.
I quattro stili della classica suddivisione cronologica sono meglio
interpretabili come schemi decorativi che si distinguono per un trattamento
sensibile dello spazio. Concorrono a ciò i due nuovi «algoritmi rappresentativi»
isolati da Pierantoni (1981): la convergenza delle ortogonali in diversi punti
di fuga (p multipla) e il passaggio da tinte cromatiche calde a fredde con
l’aumentare della distanza (notazione di carattere ottico). La convergenza delle
ortogonali in modo parallelo o variato su un asse simmetrico di fuga
perpendicolare all’orizzonte (p «a spina di pesce», schema applicato al Medioevo)
ha generato l’ipotesi di «p curvilinea» del Panofsky, basata inoltre sui
contributi scientifici e operativi greci sopra ricordati e su una determinata
interpretazione di Vitruvio (cfr. anche White sulla «p sintetica» usata dagli
Antichi, 1957). Altri studiosi hanno anche preso in considerazione la conoscenza
o meno di regole scientifiche del mondo greco-romano (Gioseffi, 1957; Vagnetti,
1979). Gli schemi prospettici in questione raggiungono dei vertici nella Villa
di Boscoreale (60 a. C. ca.: Napoli, mn) e nella Villa dei Misteri di Pompei (metà
sec. I a. C.), dove all’effetto di sfondamento della parete si aggiunge
l’aggetto illusionistico di alcune scene. Da questi impianti si passa alla
parete scandita con partizioni architettonico-geometriche e «falsi quadri»
dipinti ad altezza d’uomo (Terzo stile detto «parete reale» ). Le vedute con
paesaggi e architetture di Stabia (Villa di San Marco) pur non rivelando una
particolare tecnica prospettica rendono l’idea di profondità e come apertura in
direzione dell’esterno (la cornice funge da finestra) presuppongono una distanza
per l’osservazione (Salvemini, 1990). I legami innegabili di tale decorazione
pittorica con la pratica teatrale diventano emblematici nell’esplosione
scenografica del Quarto stile. Il carattere effimero delle architetture e la
minuziosità di ogni dettaglio decorativo sono lontani da un principio
organizzativo d’insieme.
Medioevo
Nell’arte altomedievale si attua una rottura della spazialità prospettica aperta
dal mondo classico. La figurazione bizantina privilegia le ricerche sulla
superficie, nobilitata da materiali preziosi in un’accentuata schematizzazione.
Cosí la simbologia prevale sul senso terreno delle cose secondo una concezione
che dà all’atto visivo una pregnanza spirituale. Vengono meno gli interessi
volumetrici e naturalistici con il risultato che le stesse elaborazioni
architettoniche rientrano come partiti decorativi nell’economia della
rappresentazione bidimensionale; si veda a tal proposito, l’immagine del Palazzo
di Teodorico nel mosaico ravennate di Sant’Apollinare nuovo (500-25 ca.). Nella
stessa chiesa la Teoria di sante (550-600 ca.) costituisce un episodio rilevante
per la ripetizione degli elementi figurali, la paratassi di motivi compositivi
che comporta la molteplicità dei punti di fuga. Alcuni indici di profondità, tra
cui gli scorci, permangono nella pittura bizantina.
Vari episodi di p fugata e assonometria assolutamente privi di coordinazione si
rintracciano nella pittura e nella miniatura di stile romanico sino al sec. XII.
A volte sembra che si voglia colmare l’assenza di spazio tramite piccoli
espedienti; nella miniatura che raffigura San Gregorio allo scrittoio della fine
del sec. X (Treviri, sb), il piede destro del santo sporge dal basamento in
primo piano quasi a indagare la sua possibilità di estensione. Sul versante
scientifico spiccano i trattati sull’ottica di studiosi e filosofi arabi,
importanti perché segnano la ripresa del pensiero greco.
Verso la fine del Duecento la pittura italiana di Cimabue e Pietro Cavallini
comincia il distacco dalla linearità dell’icona bizantina nel recupero del senso
plastico della figura, posizionata in prossimità delle architetture. Un
passaggio imprescindibile per il raggiungimento della prospettiva razionale nei
primi del Quattrocento si ha con Giotto, esemplificato
nei Coretti della Cappella degli Scrovegni (Padova, 1303-305), veri e propri
incunaboli del trompe-l’oeil. Le capacità misuratorie e rappresentative di
Giotto non vanno scisse dalla sua sicura competenza in architettura, inoltre il
suo nome figura nelle vesti di agrimensore a Padova. Dalla sua fiorente bottega
escono dei pittori (Maestro della Santa Cecilia, Maso di Banco) che ne ereditano
il linguaggio «spazioso» (Longhi, 1952).
Un altro ambiente artistico emergente nelle indicazioni preprospettiche è quello
senese, a cominciare dalle scatole architettoniche della Maestà di Duccio (faccia
posteriore con Storie della passione di Cristo, 1308-11: Siena, Museo dell’Opera
del Duomo) simili per tanti versi alle soluzioni giottesche di Assisi.
Contributi piú rimarchevoli appaiono in diverse
opere di Pietro Lorenzetti. Lo scomparto centrale della predella appartenente
alla pala del Carmine (Consegna della regola dei carmelitani, 1329: Siena, pn) è
un’unica scena che si sviluppa in tutta la lunghezza della tavola principale con
la Madonna, una visione paesaggistica di grande respiro e decisamente
all’avanguardia quanto a profondità spaziale. Del resto è proprio nelle predelle,
le parti meno soggette a vincoli iconografici, che la pittura trecentesca
concentra i tentativi di resa prospettica e realistica in genere. Pietro
Lorenzetti realizza ancora una visione unificata nella Natività della Vergine
(1335-42: Siena, Museo dell’Opera del Duomo); la divisione del trittico non
interrompe lo spazio comunicante delle tavole centrale e laterale destra, per di
piú le ortogonali convergono su un’area di fuga piuttosto ristretta. Il punto di
fuga unico, fa la sua esplicita comparsa nell’Annunciazione di Ambrogio
Lorenzetti datata 1344 (Siena, pn) che utilizza un metodo empirico di bottega,
sicuramente non lontano da quello che descrive (come ancora in uso) Leon
Battista Alberti nel De Pictura (1435). Ancora in pieno Trecento l’unificazione
ambientale di Pietro Lorenzetti trova un eclatante sviluppo nella «complessità
spaziale» degli affreschi di Matteo Giovannetti ad Avignone (Castelnuovo, 1991;
Storie di san Giovanni Battista, 1347-48: Palazzo dei Papi).
Il Quattrocento.
Dalla p lineare alla p atmosferica
Alla luce di quanto osservato la p artificiale è l’esito del percorso già
tracciato da sperimentazioni figurative concentrate in ambito toscano. Filippo
Brunelleschi concepisce gli esperimenti risolutivi raffigurando il Battistero e
Palazzo Vecchio, da punti di osservazione prefissati. Il valore delle tavolette
perdute sta soprattutto nell’intento dimostrativo di una regola scientifica che
guidi la rappresentazione dello spazio reale (Gombrich, 1966, trad, it. 1973).
Il dispositivo della prima (il Battistero osservato dalla porta del Duomo)
stabilisce la vista da un foro sul retro in corrispondenza del punto di fuga
principale e attraverso il quale guardare la tavola riflessa in uno specchio,
tenuto a distanza corretta. La visione risultante, che dovrebbe essere
raffrontata a quella reale, fa capire quanto sia fondamentale la monocularità e
la determinatezza del punto di vista. Nel 1435 il De Pictura di Alberti
apporta una prima teorizzazione del metodo prospettico, la cosiddetta
costruzione abbreviata in cui viene illustrato il principio della piramide
ottica. Tramite l’adozione di «una finestra aperta per donde io miri quello che
quivi sarà dipinto» Alberti utilizza un metodo che consente la creazione di uno
spazio completamente misurabile e riempibile a piacimento.
La p abbandona i confini strettamente ottici (perspectiva naturalis) per
rispondere ai fini artistico-rappresentativi; il campo pittorico a cui si
indirizza la codificazione albertiana conosce già nel 1422 una corretta
costruzione a punto di fuga unico che trae partito dalle esperienze del
Brunelleschi. Si tratta del trittico di San Giovenale a Cascia di Masaccio,
seguito alcuni anni dopo dalla Trinità di Santa Maria Novella, il cui impianto
architettonico è perfettamente calibrato in senso prospettico con l’impiego del
punto di distanza. La tendenza a prescrivere un punto via via piú circoscritto
per la ricezione visiva è meglio espressa nel complesso di affreschi che
Masaccio esegue in collaborazione con Masolino (1425-27: Firenze, chiesa del
Carmine, Cappella Brancacci). Le due scene che si affrontano sui due lati lunghi
della cappella (il Tributo e la Storia di Tabita) presentano uno schema
identico con punto di fuga (e quindi anche di vista) nella stessa posizione.
Diversi elementi della p razionale trovano applicazione nelle opere di Beato
Angelico, Filippo Lippi, Domenico Veneziano, senza tuttavia delineare un
indirizzo comune. La linea Brunelleschi-Alberti raggiunge una sistemazione
rigorosa nell’opera teorica di Piero della Francesca. Il De Prospettiva Pingendi
(1475-80 ca.) è interamente dedicato alla p lineare, «necessaria» e struttura
portante della pittura perché «discerne tucte le quantità proportionalmente
commo vera scientia, dimostrando il degradare et acrescere de onni quantità per
forza de linee». La costruzione dei singoli oggetti e persino della figura umana
in modo geometrico si associa alla precisa determinazione della distanza di
osservazione, cioè l’ordinamento di uno spazio al di quà del quadro dove è
situato il punto di vista fisso. L’ideale geometrico
che Piero della Francesca riversa nell’arte pittorica è tutto racchiuso in opere
come la Flagellazione di Urbino (1460 ca.: gn delle Marche) e la Sacra
Conversazione di Brera (1472-74), emblemi della sua cultura prospettica.
All’influenza pierfrancescana nella corte urbinate dei Montefeltro sono state
avvicinate le città ideali di Urbino, Baltimore e Berlino, scenografie vuote
lucidamente definite dalla
p razionale (sembra utilizzata la prospettiva bifocale), allo stesso modo delle
vedute urbane che ricorrono nella copiosa produzione di tarsie lignee. Gli
artigiani esecutori, menzionati «maestri di p», indirizzano una parte della loro
pratica all’esecuzione di trompe-l’oeil e si servono spesso di disegni forniti
da pittori e architetti. Le tangenze che si verificano tra pratiche di bottega e
nuove regole scientifiche ridimensionano un presunto allineamento dei pittori
alla norma albertiana (Klein, 1961; Chastel, 1980). La stessa costruzione
legittima, lenta e a volte difficoltosa nell’applicazione, può aver indotto gli
artisti a trame solo alcuni elementi così come i piú capaci hanno sondato
differenti possibilità. Paolo Uccello utilizza a piú riprese la costruzione
bifocale, un sistema empirico di bottega perfezionato in termini razionali nel
rinascimento. La sinopia della Natività di San Martino alla Scala (Firenze)
rivela la compresenza di tre punti di fuga, uno centrale e due laterali, il che
comporta un «volgere lo sguardo» pur sempre mantenendo lo stesso punto di vista.
La ricerca di una
visione che tenga conto della naturale mobilità dell’occhio (e quindi
antibrunelleschiana) entra così nella problematica prospettica del Quattrocento.
Un altro contrasto non risolto riguarda la rappresentazione simultanea di
architettura e natura in forma di paesaggio. Laddove non arriva in soccorso la p
lineare cominciano a porsi dei quesiti intorno a una p di colore (Leonardo; cfr.
Chastel, 1980). Fuori d’Italia continuano a prevalere metodi empirici per la
messa in p, ciononostante la pittura fiamminga crea uno spazio egualmente
misurabile. La Madonna nella Chiesa di Jan van Eyck (Berlino, sm, gg) viene
indicata da Panofsky come frammento di realtà, in virtù dello spazio che
continua oltre il quadro e arriva a includere lo spettatore. Attraverso mirabili
alternanze di interno-esterno, la p fiamminga si affida ai dati cromatici e
luministici. Nel celeberrimo
Ritratto dei coniugi Arnolfini (1434: Londra, ng), van Eyck esplora lo spazio
con diverse fonti di luce e con l’aiuto grandangolare di specchi convessi (la
citazione è nel quadro stesso). Studi simili devono aver portato alle
particolari p curve di Jean Fouquet, per esempio nella scena dell’Annuncio alla
Vergine (Libro d’ore di Etienne Chevalier, 1450 ca.: Chantilly, Museo Condé). Lo
spazio minuziosamente descritto dei primi piani acquista poi profondità
impressionanti tramite una «degradazione» (Piero della Francesca) che oltre le
distanze coinvolge il colore e la nitidezza delle immagini. Il paesaggio
atmosferico della Madonna del cancelliere Rolin (1435 ca.: Parigi, Louvre)
sempre di van Eyck dimostra il completo dominio di questi effetti, largamente
corteggiati dagli artisti italiani.
Spetta a Leonardo un’ampia riflessione teorica sull’astrazione albertiana,
soprattutto sulle condizioni assolutamente non naturali di una visione
monoculare e fissa. La p, «briglia e timone della pittura», è tripartita in «limale»,
«di colore» e «di spedizione» a seconda delle diminuzioni (di «quantità de’
corpi», «colori» e «notizia delle figure e de’ termini») che la vista riscontra
con la distanza (Trattato della Pittura). Leonardo si avvicina ai fattori
sensibili della percezione sottolineando gli effetti che completerebbero la
visione prospettica. Nella considerazione del mezzo atmosferico, lo sfumato si
presta a rendere l’indeterminatezza dei contorni causata dalla distanza. In
questo aspetto è chiara l’influenza esercitata da Leonardo sulla pittura veneta
del Cinquecento. Altri ragionamenti incentrati sulle deformazioni laterali cui
va incontro la nostra visione conducono all’ideale proiezione su una sfera («sempre
equidistante a l’occhio a uno modo»), peraltro rispondente alla forma sferica
dell’occhio.
Cinquecento e Seicento.
L’uso specialistico della p
L’oculo a trompe-l’oeil dipinto da Mantegna nella Camera degli Sposi a Mantova
(1465-74: Castel San Giorgio) inaugura per la p una lunga stagione fondata sul
suo potenziale illusionistico. Accanto a una «via maestra» di sviluppo operativo,
si pone la crescente diffusione delle regole che passa per le prime edizioni a
stampa dei trattati. Un circuito europeo della p è assicurato dagli scritti di
Viator e Dürer, mediatori dei precetti quattrocenteschi italiani. Il De
artificiali perspectiva del Viator (Toul 1505) espone in massima parte l’impiego
scientifico della p bifocale riflettendo una predilezione nordica per questo
procedimento. La maggior attrattiva del trattato deriva però dalle numerose
silografie
concepite come repertorio a uso dei pittori; allo stesso modo le incisioni con
cui Dürer illustra l’impiego di strumenti prospettografici sono il punto
qualificante di una teoria che riprende sostanzialmente le costruzioni di
Brunelleschi e Alberti (Underweysung der Messung, Norimberga 1525); anche il
trattato di Vignola pubblicato postumo nel 1583 (Le due regole della prospettiva
pratica, Roma) ripete con maggior chiarezza i metodi già conosciuti.
La via dell’illusionismo prospettico raggiunge una piena dimensione applicativa
nell’ambiente artistico romano dei primi del sec. XVI e in particolare nella
scuola di Raffaello. La Sala delle prospettive di Baldassarre Peruzzi, pittore e
architetto del Palazzo Chigi (Roma, la «Farnesina», 1509) è una ripresa dello
spirito decorativo classico. In seguito ad altri potenti esempi si afferma in
tutta Europa la quadratura, decorazione pittorica di ambienti con architetture
illusionistiche strutturate prospetticamente. Il gusto scenografico barocco
arricchisce all’inverosimile queste macchine decorative assumendo una tecnica
basata sulla molteplicità dei punti di fuga. Il libro sulla p dell’architetto
Sebastiano Serlio (Libro Secondo, Di Prospettiva, Paris 1545) contiene una gran
quantità di illustrazioni a conferma della fortuna di una «volgarizzazione»
prospettica per immagini; nello stesso testo una parte riservata alla
scenografia teatrale offre anche spunti compositivi alla pittura (Gould, 1962).
Lo spazio è via via codificato ma non risulta insensibile a interpretazioni
drammatiche. A tale scopo Tintoretto introduce un efficace decentramento della
fuga (Il ritrovamento del corpo di san Marco, 1562-66: Milano, Brera).
La specializzazione insita nel manierismo fa sí che la p diventi genere
pittorico, contraddistinto dalle amplificazioni architettoniche. L’architettura
a misura d’uomo del rinascimento è ormai un ricordo lontano nelle vedute di fine
Cinquecento di Vredeman de Vries, artista che interpreta la p in senso
visionario. Van Mander (1604) descrive le sue grandi tele come dei saggi di
illusione. Sempre nel clima culturale manierista si segnalano dei pittori
interessati a esperimenti ottici, Parmigianino per esempio si rifà a esercizi
fiamminghi del Quattrocento nel suo Autoritratto in uno specchio convesso (1524:
Vienna, km).
L’artificio spinto a livelli massimi in campo prospettico produce le anamorfosi,
immagini costruite secondo angoli visivi e punti di osservazione totalmente in
contrasto con la visione naturale. Allo stesso tempo trasgressione e caso
particolare della p (perché osservabile da un preciso punto di vista),
l’anamorfosi cinquecentesca rientra come «licenza» manierista ed è ricavata in
modo empirico. Dopo le anticipazioni leonardesche appare in pittura nel teschio
in primo piano degli Ambasciatori di Holbein (1533: Londra, ng), ma il suo
maggior dispiegamento si attua all’interno della grande teatralità barocca, dove
grande peso ha la «provocazione intellettuale» nei confronti dello spettatore (Naitza,
1970). Le composizioni anamorfiche sono coinvolte nella generale
matematizzazione seicentesca delle teorie prospettiche e sperimentalmente si
affiancano anamorfosi cilindriche e coniche. Parallelamente la pittura di
soffitti e volte cresce nella suggestione degli sfondati; a questo fine viene
eliminata la convenzione prospettica del parallelismo delle verticali provocando
un ulteriore effetto realistico. L’impiego sempre piú raffinato e virtuosistico
della p comporta anche un livello altissimo di empirismo. Gli operatori del
resto lavorano sulla base di schemi e molto spesso non hanno una preparazione
geometrica (un trattato del tempo dovuto a G. Troili si intitola Paradossi per
praticare la prospettiva senza saperla, Bologna 1672).
Contro la proliferazione dei punti di fuga si schiera alla fine del secolo
Andrea Pozzo. Nell’affresco della chiesa romana di Sant’Ignazio (Glorificazione
della Compagnia di Gesú, 1691-94) le deformazioni che l’ossatura
prospetticoarchitettonica incontra nella curvatura scompaiono in coincidenza
della piccola porzione di spazio prevista per l’osservazione (indicata
materialmente da un disco in marmo). Il ritorno al punto di vista unico consegna
allo spettatore il privilegio di una perfetta illusione. (cga).
Oriente
Indipendentemente dalla sua qualità poetica e decorativa, la pittura orientale
ha saputo mescolare con grande accortezza realismo intellettuale a realismo
visuale sottilmente combinato con un certo tipo di p. Si ha infatti diritto di
parlare di p nella pittura orientale, poiché talvolta gli artisti hanno
utilizzato il fenomeno della diminuzione della dimensione in funzione della
distanza, e d’altra parte si sono impegnati nella creazione, con l’ausilio in
particolare di architetture e di oggetti di forma geometrica, di uno spazio
tridimensionale.
Al di là delle differenze che distinguono le pitture orientali, e
dell’evoluzione particolare di ciascuna di esse, è possibile individuare, nel
preciso campo della p, alcuni caratteri generali che restano pressoché
immutabili. Fin dal periodo Han, e in ogni caso a partire dal sec. XI della
nostra era e lungo tutta la sua evoluzione, la pittura cinese si indirizzò in
modo del tutto particolare verso l’evocazione della terza dimensione in modo
talvolta simile all’arte occidentale. Non esiste il concetto geometrico dello
sfondamento dello spazio, ma viene utilizzata quella che Leonardo chiamerà «p di
rimpicciolimento». Effetti di lontananza sono osservabili ad esempio in molte
scene di un rotolo del sec. XI che riprende probabilmente una composizione del
sec. VIII riguardante il Viaggio dell’imperatore Minghouang verso Chou (Gu
Gong). In un foglio d’album di Ma Lin (sec. XIII: ivi) che rappresenta l’attesa
degli invitati al lume delle lanterne, alcuni treppiedi sono regolarmente
disposti in modo da formare una sorta di viale leggermente «in fuga». La
grandezza dei treppiedi sembra diminuire, mentre di fatto è soltanto l’ultimo
della fila di quattro che è un poco piú piccolo degli altri. Si nota pure una
piccola differenza di dimensione tra i personaggi a seconda della distanza.
Tali esempi, malgrado tutto, sono piuttosto rari. Le pitture cinesi generalmente
evitano di ridurre figure nettamente delimitate, anche quando accettano di farlo
per gli elementi piú fluidi del paesaggio.
Queste osservazioni si applicano pure alla pittura giapponese, che ha subito in
modo assai marcato l’influsso dell’arte cinese. Nella pittura buddista puramente
giapponese
(secoli IX-XIII), si trovano certe differenze di dimensioni nei personaggi, ma
esse corrispondono all’importanza gerarchica delle divinità rappresentate. Quel
che si può dire è che un rigore confrontabile a quello che imporrà, nella p
classica, il punto di fuga principale si trova in un’opera come la celebre
Apparizione di Amida dietro le montagne (sec. XIII: Kyoto, Zenrin-Ji), ove il
dio, immenso al centro di un paesaggio montano, attira infallibilmente lo
sguardo, mentre le altre divinità si scaglionano simmetricamente in ordine di
grandezza decrescente fino alla parte bassa del quadro. In India, i maestri
della scuola mogul giungeranno talvolta a combinare nelle loro miniature le
tradizioni locali con l’influenza occidentale,
di cui soprattutto accetteranno, per quanto attiene alla p, il fenomeno della
diminuzione della dimensione dei personaggi o degli animali con la distanza.
Adottato fin dalla seconda metà del sec. XVI, il procedimento viene impiegato
sistematicamente, per esempio in una scena di caccia del Chah Djahan-Nameh (inizio
del sec. XVIII), ove alcune cerve contribuiscono fortemente ad accentuare
l’effetto di profondità prodotto dal paesaggio. Quando devono rappresentare
architetture od oggetti di forma geometrica, come tavoli o panche, gli orientali
impiegano quanto talvolta è chiamato «p rovesciata» non delimitata dallo schermo
virtuale del quadro.
I pittori orientali hanno anche impiegato, soprattutto nelle architetture,
l’assonometria obliqua, piú comunemente detta «p parallela», e che per gli
occidentali si giustifica col respingere all’infinito il punto di fuga, cosí che
si trova praticamente annullato l’effetto di fuga delle linee parallele allo
sguardo. L’assenza dell’effetto di fuga basta peraltro talvolta a dare
l’impressione che tali linee divergano. Grazie a sottili combinazioni di questo
genere, la pittura persiana, in particolare, ha saputo creare spazi geometrici
di sorprendente
originalità. Esistono malgrado tutto alcuni casi, nella pittura orientale, in
cui linee parallele allo sguardo vengono tradotte, quando la composizione lo
esiga, con linee in fuga. Si
tratta di solito di elementi situati al centro della scena. L’effetto di
convergenza delle linee verso un punto di fuga, evidentemente indipendente da
qualsiasi linea di orizzonte, è allora assai marcato. Cosi, in una miniatura ben
nota della scuola dell’Himalaya, del sec. XVII, rappresentante una coppia in un
parco (Parigi, Museo Guimet), si trova in primo piano una vasca che appare in
questa forma. In una pittura del sec. IX proveniente da Touen-Houang (ivi), ove
si sovrappongono due scene, in quella inferiore si scorge un tavolo i cui bordi
laterali convergono molto nettamente verso la divinità.
Cina
La p cinese obbedisce a leggi radicalmente diverse da quelle occidentali in
ragione di sollecitazioni materiali e piú ancora spirituali, se non metafisiche.
Le sollecitazioni materiali sono dovute al piano d’appoggio del pittore e alla
pratica della calligrafia. Infatti l’artista dipinge come scrive, fermamente
seduto su un minuscolo cuscino, con le gambe incrociate o ripiegate, tenendo
verticalmente il pennello, che egli anima con i movimenti del braccio e del
corpo, svolgendo in piano il suo supporto di seta o di carta mano a mano che
l’esecuzione procede; non farà dunque mai quel passo indietro che fa talvolta il
pittore occidentale in relazione a quanto produce, strizzando l’occhio e
allontanandosi per meglio cogliere l’insieme della composizione posta sul
cavalletto. L’artista cinese respinge tale visione globale, e un dato importante
della contemplazione di un rotolo in lunghezza, posto anch’esso su un tavolino
basso, è che la distanza tra l’occhio dello spettatore e il suo oggetto è la
medesima che è a suo tempo esistita tra il creatore e la sua opera. D’altro lato,
la lettura delle calligrafie, ove i caratteri sono disposti in colonne, procura
all’occhio cinese un’abitudine e una disinvoltura, altrove sconosciute, a
cogliere gli assi verticali d’una composizione altrettanto bene delle dominanti
orizzontali; di qui la presentazione dei rotoli in altezza, da sospendere,
rettangolari e assai piú alti che larghi, che tanto spesso imbarazzano lo
spettatore occidentale, ma nei quali lo spettatore cinese si muove senza
difficoltà.
Le sollecitazioni metafisiche non sono meno importanti. L’artista cinese è
infatti dominato dall’idea, dal sentimento d’una natura assoluta, infinitamente
superiore all’uomo; da qui questi paesaggi monumentali ove la montagna è vista
dal basso, posizione logica dell’«omuncolo» abbandonatosi alla meditazione
taoista. Tuttavia la montagna non è data partendo dalle zone inferiori
dell’opera, è visibile soltanto a partire da una determinata altezza del quadro,
«linea d’orizzonte» cui l’occhio non giunge se non dopo aver percorso le zone
inferiori della pittura, corsi d’acqua e sentieri sinuosi, vallate e colline
ondulate, rive evanescenti o quasi impenetrabili foreste. Non è dunque possibile
alcuna p geometrica,
poiché essa raggelerebbe per sempre la contemplazione attiva del paesaggio.
Per queste caratteristiche la p cinese è definita dall’esistenza di numerosi
piani successivi all’interno di una superficie a due dimensioni, nella quale la
posizione dell’occhio non è mai determinata una volta per tutte, poiché lo
sguardo non potrebbe fissarsi su un unico punto di fuga. Perciò le parallele,
anziché essere convergenti come nella p scientifica occidentale, saranno
apparentemente divergenti. Questa disposizione, questa p che potrebbe dirsi «in
movimento», dinamica, è naturalmente avvertibile nel caso del rotolo da svolgere
in lunghezza, che non viene mai veduto interamente, ma in successione.
L’illusione della profondità è fornita dallo scaglionamento di orizzonti
successivi e aggrovigliati, in orizzontale come in verticale, e grazie
all’impiego di valori aerei. Tale p dinamica spiega anche il rifiuto cinese
delle ombre e del modellato, che imporrebbero una direzione privilegiata e unica,
e non potrebbero essere costruiti altro che in funzione di definizione spaziale
tipica della p occidentale. Per le stesse ragioni l’artista cinese non fissa la
sua composizione in funzione dei quattro lati della superficie pittorica: non
pretende di offrire una veduta compiuta, ma un punto di partenza per una visione
ancora piú ampia.
I teorici cinesi distinguono tre tipi di p. Nel tipo Chenyuan («distanza in
profondità» ) lo spettatore è situato su un punto elevato e guarda verso il
basso. Tale concezione è attribuita a Li Tch’eng e a Tong Yuan, ma deve
certamente molto alle prime carte cinesi. Questo genere di veduta è quello che,
spontaneamente, gli occidentali preferiscono, perché si avvicina di piú alla
loro abitudine di sentire il paesaggio, innanzitutto, come panorama. Il secondo
tipo, detto Kao-yuan («distanza in altezza»), corrisponde alla visione
analizzata in precedenza, ma dal basso verso l’alto. La linea d’orizzonte
principale è dunque relativamente bassa. L’ultimo tipo, detto P’ing-yuan («distanza
uguagliata»), corrisponde a una composizione ove l’occhio può considerare le
lontananze a partire dal basso del quadro. Questo tipo di costruzione è
relativamente il piú vicino a quello che si trova in Occidente, perché
l’orizzonte principale è di solito situato nel terzo inferiore della pittura.
Conviene rammentare che l’espressione «orizzonte principale» non deve far
trascurare l’esistenza di orizzonti secondari altrettanto importanti.
L’orizzonte principale è soltanto il livello a partire dal quale l’occhio può
dar libero corso al suo cammino. Le composizioni cinesi si possono sicuramente
abbracciare con un unico sguardo, come fa spontaneamente uno spettatore
occidentale avvezzo a una visione globale, ma questo è un atteggiamento
inaccettabile per lo spettatore cinese, che si aggira in una pittura come
farebbe in un paesaggio reale.
Giappone
Questi diversi tipi di composizione si ritrovano nella pittura coreana e in
quella giapponese. In quest’ultima esiste un procedimento prospettico
particolare, detto «del tetto tolto» (yanenuki o fukinuki-yatai). Tale
convenzione, nella quale le parallele convergono verso l’occhio dello spettatore,
consiste nel mostrare l’interno delle case come se non vi fosse né tetto né
soffitto. Diffusa all’epoca Heian, utilizzata nello Hokkekyo e soprattutto nelle
illustrazioni di romanzi come il Genji Monogatari, consente di rappresentare
simultaneamente, visti da molto lontano e dall’alto, i personaggi entro le case
e nello stesso tempo l’angolo d’un giardino o un brano di natura, al fine di
obbedire alla norma della corrispondenza degli
stati d’animo dei personaggi con l’ora o la stagione.