«Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa:
canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali
moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri
incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di
serpi che fumano, le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi;
i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi balenanti al sole con
un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le
locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli
d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui
elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla
entusiasta». Sono queste le frasi conclusive del Manifesto del Futurismo,
pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti sul giornale francese «Le Figaro» il 20
febbraio del 1909. Il linguaggio fortemente metaforico del Manifesto, retaggio
della formazione simbolista di Marinetti, si accompagna ad un’aggressività
lessicale e a una perentoria radicalità nelle proposte formulate che annunciano
sia la formazione di un’avanguardia «totale», estesa cioè a tutti i campi
dell’arte, sia l’avvento di una nuova estetica e di una nuova sensibilità
proprie della società moderna. Se il f nasce, quindi, come fenomeno letterario,
esso ben presto si allarga anche al campo dell’arte figurativa. Il 12 gennaio
del 1910, infatti, dopo la prima serata futurista – al Politeama Rossetti di
Trieste Marinetti incontra a Milano Umberto Boccioni, Carlo Carrà e Luigi
Russolo. I tre giovani artisti milanesi, che si erano conosciuti nell’ambito
dell’accademia e avevano esposto ad alcune mostre collettive, desiderosi di
proporre una nuova poetica, a contatto con la coinvolgente personalità di
Marinetti, scrivono il Manifesto della pittura futurista, datato 11 febbraio
1910 e propagandato con un volantino edito da «Poesia». La voglia di
rinnovamento, l’estremismo verbale, il disprezzo per il passato, per i valori
costituiti e per la tradizione provocarono violente reazioni tanto che Aroldo
Bonzagni e Romolo Romani che avevano firmato il Manifesto insieme a Boccioni,
Carrà e Russolo, decisero di non partecipare piú alle iniziative del gruppo; i
loro nomi vennero presto sostituiti da quelli di Giacomo Balla e Gino Severini
Questo primo Manifesto, letto da Boccioni l’8 marzo nel corso di una serata
futurista al Politeama Chiarella di Torino, risente chiaramente delle istanze
poetiche e delle immagini letterarie ispirate da Marinetti, tranne l’importante
indicazione e l’apprezzamento per l’arte di Rosso Segantini e Previati, cioè per
quella cultura scapigliata e divisionista che, a quella data, influenzava la
grande maggioranza dei pittori firmatari e di Boccioni in particolare.
Nel secondo Manifesto della pittura, definito «tecnico» dagli stessi artisti,
sono contenute proposte piú specificamente pittoriche. Vengono rifiutate le
convenzioni figurative e si proclama la nascita di una nuova sensibilità fondata,
innanzi tutto sul dinamismo: «Tutto si muove, tutto scorre, tutto volge rapido»;
la dimensione spaziale tradizionale è cancellata: «Lo spazio non esiste piú; una
strada bagnata dalla pioggia e illuminata da globi elettrici si inabissa fino al
centro della terra [...] Le sedici persone che avete intorno a voi in un tram
che corre sono una, dieci, quattro, tre; stanno ferme e si muovono [...] I
nostri corpi entrano nei divani su cui sediamo, e i divani entrano in noi, cosí
come il tram che passa entra nelle case, le quali a loro volta si scaraventano
sul tram e con esso si amalgamano. La costruzione dei quadri è stupidamente
tradizionale. I pittori ci hanno sempre mostrato cose e persone poste davanti a
noi. Noi porremo lo spettatore al centro del quadro». Viene proposto con forza
l’uso di un cromatismo violento perché «le nostre sensazioni pittoriche non
possono essere mormorate. Noi lo facciamo cantare e urlare nelle nostre tele che
squillano fanfare assordanti e trionfali». La tecnica pittorica prende a modello
il divisionismo nell’uso di colori puri, accostati a piccoli tocchi, secondo le
leggi del «complementarismo congenito».
Nonostante le precise indicazioni poetiche del Manifesto tecnico, fino alla fine
del 1910 la ricerca pittorica dei cinque firmatari non è ancora chiaramente
innovativa e sia pure con diverse sperimentazioni, deriva sostanzialmente, dalla
cultura post-impressionista. La metropoli moderna, le periferie, i temi della
sommossa, dello scontro, sono motivi che compaiono frequentemente nelle loro
opere tra il 1910 e il 1911 – ad esempio nel grande dipinto di Boccioni La città
sale – e trovano un riscontro nelle tradizioni anarchicheggianti della
scapigliatura lombarda e, nel caso di Balla, nel populismo umanitario di
Giovanni Cena. Stilisticamente la matrice simbolista ed espressionista – da
Previati a Munch – permane, come ha indicato Calvesi, nei dipinti di Boccioni di
questi anni accanto a un divisionismo alla Seurat. Per Russolo e Carrà contano
ancora le suggestioni del simbolismo e del postimpressionismo lombardo, mentre
Severini, stabilitosi nel 1906 a Parigi, accoglie la strutturazione formale
dell’immagine propria del pointillisme. Balla, a quest’epoca non ancora
completamente coinvolto nell’elaborazione della poetica futurista, applica i
principî del neoimpressionismo ad un realismo, spesso connotato in senso sociale,
attraverso audaci tagli compositivi che denunciano uno spiccato interesse per la
fotografia.
Per tutto il 1910 si moltiplicano in Italia manifestazioni e serate futuriste:
Trieste, Torino, Milano, Napoli sono toccate dalla propaganda marinettiana; l’8
luglio viene lanciato dalla torre dell’orologio di Venezia il manifesto Contro
Venezia passatista. Nella primavera del 1911 alla Mostra di arte libera al
Padiglione Ricordi di Milano furono esposte per la prima volta le opere
futuriste di Boccioni, Carrà e Russolo. Le reazioni della critica e del pubblico
si rivelarono assai varie; particolarmente inattesa e oltremodo violenta la
stroncatura di Ardengo Soffici, aggiornato conoscitore delle contemporanee
ricerche di Picasso e di Braque, che dalle pagine fiorentine della «Voce» del 22
giugno definí le tele dei futuristi «sciocche e laide smargiassate di poco
scrupolosi messeri, i quali vedendo il mondo torbidamente, senza senso di poesia,
con gli occhi del piú pachidermico maialaio d’America, vogliono far credere di
vederlo fiorito e fiammeggiante». Dura fu la reazione dei futuristi che si
recarono a Firenze al Caffè Giubbe Rosse dove sapevano di trovare il gruppo dei
«vociani». L’incontro si trasformò in una vera e propria rissa alla quale seguí
una piú pacata discussione. A questo proposito scrive Carrà nella sua
autobiografia: «Io rivolgendomi a Soffici gli feci rilevare alcune pecche della
sua critica, e ciò fu il pretesto per scambiare le nostre idee sull’arte, idee
che avevano molti punti di contatto». Fu cosí che Soffici un anno piú tardi,
rivide in un articolo, Ancora sul Futurismo, apparso sulla «Voce» dell’11 luglio
1912, le sue valutazioni sul movimento e, anche grazie alla mediazione di
Severini, che nei suoi precedenti soggiorni parigini aveva stabilito un rapporto
di simpatia con lui, si avviò un progressivo avvicinamento tra i due
raggruppamenti. Tra il 1910 e il 1912 Marinetti tenne una serie di conferenze a
Londra e a Parigi propagandando l’ideologia futurista, l’antipassatismo, e
proponendo – insieme all’esaltazione di nuovi valori quali l’irrazionalismo, il
dinamismo, l’azione – la rottura del tradizionale isolamento dell’artista e lo
sconfinamento dell’arte nella vita. Sempre nella capitale francese prese
contatti con la Gall. Bernheim-Jeune per l’organizzazione di una mostra per la
fine del 1911, che venne successivamente rimandata di qualche mese.
Contemporaneamente in Italia gli articoli illustrati di Soffici, di Henri de
Prureaux, di Roger Allard sul cubismo e le informazioni di prima mano di
Severini contribuirono a far conoscere ai futuristi la pittura di Picasso,
Braque, Léger e Delaunay, Gleizes e Metzinger. Boccioni e Carrà, invitati da
Severini, si recarono a Parigi nell’autunno del 1911. Racconta Severini: «È
impossibile immaginare la loro gioia, la loro speranza e meraviglia, nello
scoprire un mondo pittorico di cui non avevano la piú lontana idea. Li portai
dai miei vicini e poi da Picasso, e poi dappertutto dove si vedeva pittura e
pittori moderni. La stessa vita di Parigi li estasiava».
Fra il 1911 e il 1912 avviene la definitiva maturazione linguistica della
ricerca pittorica futurista. L’incontro con la pittura cubista e la conseguente
scomposizione dell’immagine in una diversa profondità strutturale sono bene
avvertibili in una serie di dipinti eseguiti dai futuristi tra la fine del 1911
e l’inizio dell’anno successivo. Nelle due versioni del trittico Stati d’animo
di Boccioni, eseguite nel corso del 1911, è evidente, infatti, il passaggio tra
un primo momento, nel quale l’istanza dinamica ed espressionista è suggerita
attraverso l’atmosfera divisionista e la ritmica delle pennellate, e un secondo
in cui l’adozione della scomposizione cubista diviene funzionale alla resa della
«simultaneità degli stati d’animo» e della «simultaneità d’ambiente» che ha come
conseguenza «il dislocamento e smembramento dogli oggetti, sparpagliamento e
fusione dei dettagli». Il 5 febbraio del 1912 si apre alla Gall. Bernheim-Jeune
di Parigi la mostra dei pittori futuristi. Nella prefazione al catalogo è
sottolineata la distanza delle ricerche futuriste dalla staticità della visione
cubista e viene ulteriormente approfondita la poetica del gruppo. Si ricerca «uno
stile del movimento»; si definisce il quadro come «sintesi di ciò che si ricorda
e di ciò che si vede» in sintonia
col concetto di durata bergsoniano, si propone la scomposizione di ogni oggetto
secondo le proprie lineeforza per renderne la sensazione dinamica: «Tutti gli
oggetti secondo il trascendentalismo fisico, tendono verso l’infinito mediante
le loro linee-forza per ricondurre l’opera d’arte alla vera pittura. Noi
interpretiamo la natura dando sulla tela queste linee come i principî o i
prolungamenti dei ritmi che gli oggetti imprimono alla nostra sensibilità»; il
risultato è «la pittura degli stati d’animo».
Subito dopo Parigi, dove la mostra fu variamente recensita ottenendo critiche e
consensi, i futuristi esposero a Londra, facendo proseliti tra i giovani artisti,
a Berlino, presso la famosa galleria Der Sturm diretta da Herwarth Walden (mentre
l’omonima rivista pubblicò il Manifesto tecnico della pittura futurista),
all’Aja, ad Amsterdam e a Monaco. A questa data gli assunti teorici e il
programma figurativo dei futuristi erano, ormai, definiti, per quanto le loro
ricerche individuali presentino caratteristiche diverse. Boccioni, infatti,
basandosi sul concetto di durata bergsoniano, si interessa soprattutto alla resa
sintetica del movimento e della simultaneità, mentre Balla, analogamente alle
sperimentazioni fotografiche di Bragaglia, offre una diversa interpretazione del
concetto di dinamismo, rappresentando il movimento come una successione
spazio-temporale; Severini ricerca gli effetti ritmici dell’immagine attraverso
la frammentazione del colore e della forma, di evidente origine
neoimpressionista, mentre Carrà, contrariamente a Boccioni e Severini, applica
un pacato cromatismo a composizioni di studiato equilibrio architettonico.
Infine Russolo aderisce al principio della simultaneità come sintesi mnemonica,
ma realizza opere di vago sapore simbolista.
L’esordio del movimento futurista sulla scena internazionale sollecitò la
formazione di analoghi raggruppamenti d’avanguardia quali il sincronismo
americano, il formismo polacco e il verticismo inglese, e favorí, ad un tempo,
le relazioni tra i piú significativi movimenti contemporanei: l’Orfismo,
Cavaliere azzurro, Cubismo, f russo. Le sottili corrispondenze e le influenze
reciproche, in particolare tra il f e il cubismo «eretico» di Delaunay e Leger,
diedero luogo a diverse polemiche in merito alla priorità nell’adozione di
alcuni concetti quali il principio di «simultaneità» e il rinnovato interesse
per la creazione di un nuovo soggetto. D’altra parte, come afferma Crispolti,
ciò che viene recepito dei due movimenti in area europea, ad esempio in Germania
e in Russia, è proprio la realtà delle loro reciproche influenze
nell’utilizzazione congiunta di scomposizione cubista e nelle suggestioni di
simultaneità emotiva e dinamismo futurista. Poco tempo dopo le esposizioni nelle
diverse capitali europee il gruppo futurista acquista maggior vigore e spirito
polemico dall’unione con Papini e Soffici i quali, a loro volta, abbandonata la
«Voce», diedero vita a «Lacerba», una rivista esclusivamente artistica e
letteraria, che presto divenne l’organo di propaganda dei futuristi.
Il 21 febbraio del 1913, futuristi e lacerbiani tennero insieme una serata al
Teatro Costanzi di Roma, mentre nel ridotto dello stesso teatro erano esposti,
per la prima volta nella capitale, dipinti di Boccioni, Balla, Soffici, Carrà,
Russolo e Severini. Nello stesso anno vengono elaborate e approfondite nuove
teorie che si esplicano in diversi manifesti e pubblicazioni: L’immaginazione
senza fili e le parole in libertà, Il teatro di varietà di Marinetti, L’arte dei
rumori di Russolo, La pittura dai suoni rumori e odori di Carrà, Le analogie
plastiche di Severini, Fotodinamica futurista di Anton Giulio Bragaglia. Nel
1914 ha luogo alla Gall. Sprovieri di Roma l’Esposizione Libera Futurista
Internazionale alla quale prendono parte, fra gli altri, Ar™ipenko, Exter,
Rosanova, il belga Smaltzigaug, Depero, Prampolini, Ginna, Francesco Cangiullo,
Martini, Rosai, Morandi e Sironi. Scoppia intanto la polemica tra Marinetti e
Boccioni, da una parte, e i lacerbiani dall’altra, che terminerà con la
definitiva rottura sancita dall’articolo di Palazzeschi, Papini e Soffici su
Futurismo e Marinettismo.
Intorno alla metà degli anni ’10 tutta la ricerca artistica dei futuristi mostra
una maggiore tendenza all’astrazione formale ed una rinnovata sintesi dinamica.
In questo periodo la produzione pittorica di Boccioni si sviluppa parallelamente
al suo interesse per quella plastica; nel 1912 pubblica il Manifesto tecnico
della scultura futurista dove, tra l’altro, si proclama «l’assoluta e completa
abolizione della linea finita e della statua chiusa. Spalanchiamo la figura e
chiudiamo in essa l’ambiente», e si afferma la necessità di usare tutte le
materie. La sintesi dinamica tra soggetto plastico e ambiente è raggiunta in
opere quali Forme uniche della continuità nello spazio del 1913.
Contemporaneamente Balla approda ad una sintesi formale astratta sia in opere
come Mercurio passa davanti al Sole visto da un cannocchiale (1914) che,
soprattutto, nella serie delle Manifestazioni interventiste (1915), dove le
campiture piatte di colore puro diverranno un vero e proprio modello per le
nuove generazioni futuriste. Alla finedel 1914 i futuristi partecipano
attivamente alle manifestazioni
interventiste e coerentemente, all’entrata in guerra dell’Italia, Marinetti,
Sironi, Sant’Elia – che aveva pubblicato nel 1914 il Manifesto dell’architettura
futurista – Erba e Russolo si arruolano volontari nel battaglione dei ciclisti
lombardi.
Con la morte di Sant’Elia e di Boccioni, il distacco di Carrà e l’avvicinamento
di Balla a Marinetti il centro gravitazionale del f si sposta da Milano a Roma.
Il manifesto Ricostruzione futurista dell’Universo del 1915, firmato da Balla e
Depero sancisce l’abbandono dell’arte come rappresentazione del reale a favore
di un’arte che incida materialmente sulla realtà. La tensione verso l’opera
d’arte totale e la rottura dei limiti imposti dai tradizionali generi artistici
diviene, allo scorcio degli anni ’10, il motivo centrale della poetica futurista.
Nel già ricordato manifesto Ricostruzione futurista dell’Universo, infatti, non
solo viene proposta un’arte polimaterica e cinetica con l’elaborazione dei
complessi plastici, ma si definisce
l’intervento artistico in scala ambientale. Mobili, seggiole, divani, cuscini,
arazzi, paraventi, fiori fantastici, vestiti, verranno reinventati dai futuristi
– in particolare da Balla, Depero e Prampolini attraverso le loro Case d’arte –
secondo un acceso cromatismo e un gusto favolistica e fantastico che informerà
molti protagonisti della seconda generazione futurista. Anche il cinema, la
pubblicità e la grafica diventano campi privilegiati di sperimentazione creativa.
Questa proiezione immaginativa trova nelle ambientazioni del Bal Tic Tac del
1921 di Balla e nel Cabaret del Diavolo del 1921-22 di Depero, entrambi a Roma,
alcuni tra gli esempi piú significativi. Inoltre la scenografia, con gli
allestimenti di Depero, Balla, Prampolini e Pannaggi, diviene un fertile terreno
di incontro tra le arti plastiche e la prospettiva di un’opera d’arte totale.
Nella pittura e nella scultura la ricerca futurista dalla seconda metà degli
anni ’10 fino agli anni ’30, se da una parte si sviluppa senza soluzione di
continuità rispetto agli esordi del movimento – coerenza del resto avvalorata
dalla permanente presenza di Balla – dall’altra è distinguibile in due momenti
fondamentali. La prima fase, che corre dalla fine degli anni ’10 fino al
1927-28, ha come testo teorico basilare il Manifesto dell’Arte Meccanica (1922)
firmato da Prampolini insieme a Paladini e Pannaggi, dove, tra l’altro, si legge:
«Noi futuristi vogliamo che della Macchina si renda lo spirito e non la forma
esteriore, creando composizioni che si valgano di qualsiasi mezzo espressivo ed
anche di veri elementi meccanici; che questi mezzi espressivi ed elementi
meccanici siano coordinati da una legge lirica originale e non da una legge
scientifica appresa, che per essenza della macchina si intendano le sue forze, i
suoi ritmi e le infinite analogie che la macchina suggerisce».
Iscrivibili alla poetica futurista dell’arte meccanica, oltre naturalmente a
quelle dei tre firmatari, sono alcune opere contemporanee di Balla (Pessimismo e
Ottimismo del 1923, Numeri innamorati del 1924-25), del gruppo torinese di
Fillia, Mino Rosso, Diulgheroff e Pozzo, del fiorentino Marasco e di Azari.
Indubbi i riscontri con analoghe ricerche europee a questa coeve, comprovati,
del resto, dalle numerose illustrazioni di opere postcubiste di Léger, Gleizes,
Marcoussis, dei costruttivisti russi come Ar™ipenko e Ivan Puni, di Theo van
Doesburg e di altri artisti del neoplasticismo apparse sulla rivista «Noi»
diretta da Prampolini, tra il 1923 e il 1925. D’altra parte Il Manifesto
dell’Arte Meccanica fu ripubblicato dal «Bullettin de l’Effort Moderne» e molti
motivi in esso contenuti risultano affini alle proposizioni espresse nel testo
Après le Cubisme di Ozenfant e Jeanneret. Verso la fine degli anni ’20 si apre
una nuova fase del f caratterizzata da una forte impronta idealistica e
immaginativa, non priva di episodi figurativi e parasurreali. Il Manifesto
dell’Aeropittura, firmato da Balla, Benedetta, Depero, Dottori, Fillia,
Marinetti, Prampolini, Somenzi e Tato nel 1929, a cui via via aderiranno tutti
gli altri futuristi, rappresenta il momento di convergenza teorica di tutto il
movimento verso una nuova sensibilità aerea. Di fatto, però, al di là delle
dichiarazioni congiunte, gli esiti pittorici risultano alquanto diversificati.
Prampolini e il gruppo torinese trasformeranno il motivo aereo in «idealismo
cosmico», Dottori e Benedetta daranno un contenuto lirico al rinnovato
paesaggismo della visione dall’alto, mentre Ambrosi, Crali e Tato giungeranno ad
esiti illustrativi del volo e delle sensazioni visive ad esso connesse,
singolarmente vicini alle soluzioni della Pop’Art.
Sempre nel corso degli anni ’30 gli allestimenti effimeri per mostre ed
esposizioni divengono per i futuristi un creativo settore d’intervento
attraverso l’impiego del nuovo strumento della plastica murale. Al termine del
terzo decennio del secolo la vena creativa del movimento, lo slancio utopico e
il vitalismo che lo caratterizzava sono in via di esaurimento. La stessa realtà
socio-culturale e lo sviluppo tecnologico hanno ormai sopravanzato ogni
immaginazione avveniristica.
Secondo futurismo
Il termine, di recente acquisizione critica, copre un periodo che inizia con la
fine della guerra mondiale, verso il 1918 e giunge fin oltre il 1930. Il
fenomeno del Secondo futurismo è stato particolarmente studiato in questi ultimi
trent’anni, attraverso una serie di esposizioni (a Torino alla Gall. Notizie a
partire dal 1957, e alla gam nel 1962, a Roma con la mostra di Prampolini del
1961 alla gnam, a Bassano nel 1970 con la retrospettiva di Depero, e
successivamente in numerose occasioni).
Sotto il nome di «movimento» vengono riuniti fenomeni culturali estremamente
complessi nelle vicende dell’arte italiana di questi anni: l’inserirsi, nel
tessuto culturale del tardo f di una cultura europea di marca purista e
costruttivista, ma non senza riferimenti allo spirito dada di cui Prampolini fu
un tramite importante. Di fianco ad alcuni rappresentanti della vecchia guardia
futurista (Balla, Marinetti) inizia a lavorare nel primo dopoguerra un folto
gruppo di artisti che rappresentano la seconda generazione del movimento,
inseritisi nel filone del f in un momento d’arresto rispetto alle ricerche degli
anni precedenti. Venuti a mancare due delle personalità dominanti (Boccioni e
Sant’Elia), allontanatisi dal gruppo Carrà e Severini,
la compattezza dello schieramento iniziale cede ad una trama piú complessa di
ricerche. I centri stessi si moltiplicano: oltre a Milano, a Roma lavora attorno
a Balla un vivace gruppo di artisti: Crali, Dottori, Tato, Prampolini e la
compagna di Marinetti, Benedetta. Torino diviene un importante centro; vi lavora
un folto gruppo di artisti: Fillia, Alimandi, Oriani, Franco Costa lo scultore
Mino Rosso e l’architetto d’origine bulgara Nicolay Diulgheroff.
Sempre a Torino, una serie di importanti esposizioni a partire dal ’25 fanno da
elemento catalizzatore del movimento, esposizioni che culminano col famoso
padiglione dell’Architettura Futurista disegnato da Prampolini per l’esposizione
internazionale di Torino del 1928. Dopo il precedente costituito in qualche
misura dal manifesto Ricostruzione
futurista dell’Universo, lanciato ancora nel 1915 da Balla e Depero, le ricerche
dei secondi futuristi vengono suddivise, anche se con un margine di elasticità,
in due periodi: il primo condizionato dalle ricerche postcubiste, puriste e
costruttiviste che giungevano specialmente dalla Francia e che va dal 1918 al
’28 circa. Ne fanno parte artisti come quelli sopracitati, ed altri quali
Korompay e Marasco. In un secondo tempo invece l’influenza del surrealismo agí
all’interno del movimento come componente per un ricupero dell’immagine in
chiave assurda e fantastica: oltre a Prampolini e Depero che ne furono gli
interpreti principali, lo rappresentano altri artisti come Munari, Tullio
d’Albisola Caviglioni o Farfa.
Quello che comunque accomuna i partecipanti del Secondo futurismo nei confronti
delle ricerche precedenti, è la ricerca di una ricomposizione della realtà,
ricomposizione che andava talora verso rigorose ricostruzioni astratte di
origine neoplastica, ma piú sovente nel senso di un ricupero
dell’immagine-oggetto che entra a far parte del repertorio
del Secondo futurismo. Il mito del moderno e della tecnica, caro ai futuristi
della prima generazione, trova la sua concretizzazione nell’oggetto-emblema
della «modernità»: la macchina, ma anche l’uomo-robot. Il meccanismo
dell’assurdo, la casualità di un universo perfettamente «tecnico» vengono ad
affiancarsi – e a sostituirsi spesso – all’elemento apologetico. Le premesse
poste da Marinetti, quando nel Manifesto del Teatro di Varietà (1913) teorizzava
il valore liberatorio e culturale del riso, trovano in questo mondo automatico
la loro perfetta espressione. Il Manifesto dell’Arte Meccanica è del 1922 (pubblicato
nel 1923 da Prampolini, Paladini e Pannaggi in «Noi», II, n. 2): in questi anni
Severini, Depero e Sironi agitano nelle loro tele gli uomini-robot tubiformi;
mentre Balla ricostruiva il suo universo luminoso in «paesaggi primaverili»,
simili a sgargianti giocattoli di materia
plastica, e Depero inscenava i suoi «balletti meccanici» (Milano, 1924).
Un filone di inquietante art fantastique nasceva proprio nel cuore di un
universo nato da confortanti certezze tecnologiche. Lo stesso universo produceva
però anche l’Aeropittura, di cui veniva lanciato il manifesto nel 1929: prodotto
diretto delle teorie marinettiane che agivano ancora specialmente sul gruppo
romano il Manifesto dell’aeropittura futurista fu firmato da Balla, Benedetta,
Depero, Dottori, Fillia, Marinetti, Prampolini, Rosso, Somenzi e Tato.
L’aeropittura, «espressione dell’idealismo cosmico», voleva essere la
glorificazione del
massimo simbolo della modernità, l’aeroplano, e, attraverso di esso, un’apoteosi
che assumeva toni misticheggianti per glorificare ad un tempo la Spiritualità
dell’aviatore o quella di personaggi-simbolo del regime (Il Costruttore). Su
questo percorso, sfiorando sempre piú da vicino le nubi di mistiche celebrazioni,
Marinetti nel 1930 offriva a Mussolini quanto era rimasto nelle sue mani del f
lanciando il Manifesto dell’Arte Sacra Futurista, pubblicato da lui e da Fillia
in «Oggi e Domani»; mentre nell’ottobre 1932 si teneva nella galleria milanese
Pesaro la Mostra di Aeropittura futurista, con un testo di Prampolini in
catalogo.