La credenza nel d è universale nel pensiero filosofico come nella superstizione
popolare cinese. è un mostro mitologico estremamente diffuso sin dalla piú
remota antichità, dato che già compare nei motivi dei bronzi arcaici; di solito
viene rappresentato con muso bovino, corna di gazzella, corpo di serpente e
artigli di fenice. Divenne simbolo di fertilità, perché si riteneva che portasse
la pioggia. A questo titolo senza dubbio lo rappresentarono i primi pittori
cinesi, come Cao Pu Xing nel sec. III.
Il celebre aneddoto della vita di Zhang Sengyou, che avendo disegnato le pupille
degli occhi dei d che aveva dipinto sulle pareti di un tempio li vide involarsi
in un fragore di tuoni e fulmini, dimostra l’evoluzione del tema, che raggiunse
l’apogeo con i pittori chan del sec. XIII.
Rapido come il lampo e in atto di giocare in mezzo agli elementi scatenati, il d
non poteva esser visto che da uomini il cui spirito era aperto alle
manifestazioni spirituali della natura, ed appariva allora come l’incarnazione
del movimento cosmico universale. La fugacità della sua apparizione
simboleggiava la vivacità dell’illuminazione: come la verità, il d non si
mostrava mai intero, e appena intravisto scompariva.
Cosí lo rappresentarono Teng You nel XIII sec.; la pittura piú straordinaria del
genere fu senza dubbio quella dei Nove Draghi, rotolo in lunghezza a inchiostro
e colori leggeri su carta, datato 1244, di Chen Rong (Boston, mfa). Gli storici
contemporanei dell’arte ci dicono di questo artista che dipingeva «gettando
grida», e che strofinava sulla carta il suo berretto impregnato d’inchiostro per
poi, con l’aiuto del pennello, far emergere i d dal caos, dalle nuvole o dalle
onde; tecnica che, in questo operare scatenato, ben corrisponde alla spontaneità
ricercata dai maestri chan.