Le testimonianze tuttora superstiti dell’arte cristiana delle origini, di quella
almeno del II e del III secolo, sono soprattutto pittoriche. Durante i due primi
secoli della sua storia il cristianesimo non si era curato delle immagini. E se
le prime rappresentazioni figurative compaiono forse sin dalla fine del sec. II
e certamente all’inizio del sec. III ciò accade piú per venire incontro alle
esigenze della pietà popolare che per rispondere a un imperativo della nuova
spiritualità. Cosí la pittura p è, nelle sue prime creazioni, un’arte popolare
che si avvale molto ampiamente del linguaggio iconografico e formale
contemporaneo; le immagini cristiane sono solo espressioni particolari di
un’arte la cui estetica trionfa negli ultimi secoli di Roma.
Alla fine del sec. II, reagendo al classicismo dell’epoca antonina, si sviluppa
un’espressività «popolare» attestata dall’opera di pittori ad Ostia, di
mosaicisti in Africa (Zliten) e, nell’ambito plastico, dai rilievi della colonna
di Marco Aurelio a Roma. Gli artisti s’impegnano sempre meno nel rendere le
forme e i volumi del corpo umano, cercando invece di esprimere una realtà
interiore. L’arte cristiana è popolare, e ciò anche in quanto non costituisce
ancora un’arte ufficiale della Chiesa.
L’ostilità per le immagini, ereditata dalla tradizione ebraica, non è totalmente
scomparsa: il concilio di Elvira, nei primi anni del sec. IV, vieta ancora le
rappresentazioni divine negli edifici di culto. Tale diffidenza non significa
peraltro rifiuto o indifferenza: cosí, all’inizio del sec. III, Clemente
d’Alessandria, nel Pedagogo, spiega ai fedeli quali simboli debbano essere
incisi sui loro anelli (colomba, pescatore, ancora, ecc.). La spontaneità
popolare non è stata dunque soffocata da un programma ufficiale, ma si evita il
libero pullulare di iniziative incontrollate. Si comprende così come si sia
costituita molto rapidamente una koinè, una comunità dal linguaggio cristiano, e
che attraverso tutte le province romane il repertorio delle immagini abbia
presentato un’unità piuttosto considerevole.
L’iconografia nei due primi secoli
Nella costituzione del repertorio d’immagini cui attingono i pittori del sec.
III sono stati spesso sottolineati i prestiti dal linguaggio iconografico del
mondo romano. I cristiani trovavano in primo luogo, nelle composizioni
contemporanee, simboli che potevano utilizzare direttamente in chiave
cristologica senza sostanziali modifiche: le stagioni, la cui successione già
presso i pagani traduce il recupero della vita al di là della morte; la fenice,
simbolo di resurrezione; i giardini delle scene bucoliche, che rievocano i
luoghi paradisiaci; ma anche la nave, la palma, il pescatore, il banchetto, la
colomba, l’agnello.
In altri casi le figure riprese dall’arte romana dovettero formare oggetto di
una traduzione cristiana: il Buon Pastore (Luca, XV, 4; Giovanni, X, II) viene
rappresentato sul modello dell’Ermes crioforo, simbolo dell’humanitas; Giona che
sonnecchia sotto le zucche ricorda Endimione assopito; ma anche Arianna. La
rappresentazione di Mosè deriva da quella dell’Ermes che si allaccia il sandalo
o, quando è raffigurato nell’atto di far scaturire l’acqua dalla roccia, da
un’immagine di Mitra. L’Orante è rappresentata nella stessa attitudine della
Pietas. Ma si è creduto di potervi scorgere anche influenze giudaiche,
soprattutto dopo la scoperta a Dura Europos di una sinagoga riccamente decorata
con pitture parietali, che presentano un repertorio iconografico sino ad allora
insospettato. Le rappresentazioni cristiane di Daniele nella fossa dei leoni o
di Noè, ad esempio, sarebbero riprese da modelli ebraici. Resta peraltro
difficile fissare per quali strade tali prestiti abbiano potuto operare. Né
d’altro canto è escluso che i repertori d’immagini cristiane e d’immagini
ebraiche si siano sviluppati in parallelo; e nulla vieta persino di ritenere che
in alcuni casi l’iconografia cristiana abbia esercitato un influsso sulle
rappresentazioni ebraiche. A ciò va aggiunto il repertorio d’immagini attinte
direttamente dal Vecchio Testamento: la rappresentazione di Adamo ed Eva presso
l’albero del Paradiso, di scene tratte dalla vita di Susanna, piú raramente
l’immagine di Giobbe o del profeta Balaam.
I pittori cristiani hanno d’altra parte creato il loro proprio linguaggio
iconografico; sono cosí comparse immagini ispirate dal Vangelo, scene di
miracoli, la Moltiplicazione dei pani, la Guarigione del paralitico,
l’Emorroissa e soprattutto la Resurrezione di Lazzaro, rappresentato spesso come
una mummia sulla soglia di una piccola edicola, donde Cristo lo trae tenendo in
mano la verga del taumaturgo. Ma compare pure, per illustrare la vita di Gesù,
la rappresentazione del Battesimo oppure quella dell’Epifania.
Catechesi mediante immagini o simbolismo funerario?
Come si vede, in un secolo si è creato un linguaggio assai vario. Si pone cosí
il problema del suo significato. Le tesi piú antiche (quelle di Garrucci e di
Rossi) insistono sul carattere simbolico di queste immagini e sul loro valore
dogmatico: saremmo alla presenza di una vera e propria catechesi per immagini.
Tuttavia tali raffigurazioni sono ben lungi dal costituire un trattato completo
di teologia, poiché l’atto essenziale, la Redenzione, non viene mai
rappresentato. Si deve d’altra parte notare che alcune immagini hanno potuto
comparire al di fuori delle comunità ecclesiali ortodosse, come testimonia
l’iconografia di un ipogeo eterodosso, quello degli Aurelii (Roma, viale Manzoni).
Di conseguenza, se le immagini offrono un riflesso della catechesi, non
costituiscono una modalità didattica.
Altri storici, come Le Blant o Wilpert, attribuiscono anch’essi alle immagini
cristiane un significato simbolico, ponendo però l’accento sul carattere
funerario dell’arte cristiana agli inizi. Si avrebbe cosí, nelle catacombe, una
specie di illustrazione dell’ufficio funebre, della commendatio animae: la
storia di Daniele o quella di Giona, spesso rappresentate, offrono infatti ai
cristiani esempi di salvezza. L’ipotesi è di difficile verifica, poiché
conosciamo solo versioni piú tarde di questa liturgia funeraria. D’altro canto,
non esiste prima del sec. IV un vero e proprio ciclo di tali immagini
soteriologiche. Infine, un gran numero di rappresentazioni non sono riducibili a
questo sistema esplicativo: il Battesimo di Cristo rievoca meno la vita futura
che la preparazione ad essa, mediante i sacramenti. L’Epifania e i Magi
simboleggiano la conversione; Adamo ed Eva il peccato originale.
Si dovrà dunque negare l’esistenza di qualsiasi significato simbolico alle
rappresentazioni cristiane? È questa la tesi di Styger, che accorda loro un
valore puramente narrativo, poiché suppone che l’iconografia sia stata in primo
luogo creata per l’ornamentazione delle dimore cristiane, e soltanto in seguito
sia stata adottata per i cimiteri. L’assenza di documenti rende quest’ipotesi
priva di fondamento.
Sarebbe errato accanirsi nel ricercare un unico sistema. Meglio sarà limitarsi a
scorgere nelle immagini cristiane il riflesso della religiosità contemporanea,
una modalità espressiva ancora legata agli influssi del linguaggio tradizionale,
circoscritta in origine a un vocabolario semplice e a simboli elementari; in
seguito, i pittori si ispirano a temi piú complessi, scegliendo immagini di
miracoll o di martirio per esprimere la speranza di salvezza.
I pittori del III secolo
Di questo primo periodo conosciamo soprattutto le pitture delle catacombe (Callisto,
Domitilla, Priscilla, Santi Marcellino e Pietro). La decorazione non è qui molto
diversa da quella dell’arte popolare contemporanea: gli artisti si sono
accontentati di inserire qualche figura piú specificatamente cristiana in una
decorazione analoga a quella degli ipogei pagani, o che rammenta persino le
dimore private come quelle di Ostia nel sec. III: sul fondo bianco delle volte
si organizza una geometria di tratti rossi o verdi che disegna un reticolo al
centro del quale si trovano animali (uccelli presso il càntaro; pavoni) oppure
piccole figure senza volume, che rappresentano il Buon Pastore, l’orante, o
ancora simboli come i pesci o il cesto dei pani. L’ipogeo di Lucina (presso la
via Appia, San Callisto) o il cubicolo di Ampliatus (catacomba di Santa
Domitilla) offrono nel sec. III gli esempi migliori di quest’arte.
Tuttavia, in un ipogeo successivamente aggregato alla catacomba di Santa
Priscilla, la Capella graeca, il repertorio iconografico è piú ricco: Mosè che
fa scaturire la sorgente dalla roccia, l’Epifania, i Tre fanciulli nella fornace.
Nel cimitero di San Callisto («cappella dei sacramenti»), la Resurrezione di
Lazzaro, il Sacrificio di Isacco, la Scena dei banchetti presentano composizioni
schematiche, ma colorite, nelle quali i profili dei personaggi sono contornati a
tinte vivaci.
Un’evoluzione si verifica durante l’epoca di Gallieno (253-68), con il quale,
per un certo tempo, rinascono tradizioni ellenistiche. Il cubiculum della
Velatio a Santa Priscilla dà testimonianza di un artista che padroneggia
piuttosto bene le tradizioni del realismo formale caro all’espressione pittorica
classica, ma che nel contempo esprime la nuova spiritualità.
La fine del secolo è caratterizzata dal ritorno a una incisiva espressività, al
servizio di un piú ricco repertorio, per esempio l’immagine di Cristo che
insegna nel sinedrio. I volti sono tracciati a grandi pennellate in stridente
contrasto cromatico (catacombe di Pretexdat, catacomba di via Anapo). La
testimonianza dell’arte plastica, che conosciamo meglio grazie ai sarcofagi,
dimostra il gusto per uno stile «negativo», che accentua i contrasti e bulina i
tratti. Nella stessa direzione dell’arte cristiana operano nel sec. III anche
artisti pagani (ipogeo di via Manzoni).
L’iconografia del IV secolo A partire dal sec. IV temi nuovi vengono ad
arricchire il repertorio degli artisti cristiani, il cui lavoro si svolge ora in
un nuovo clima: il movimento di conversione comincia a toccare piú ampiamente
l’aristocrazia; ciò comporta la nascita di nuove esigenze estetiche. Nello
stesso tempo le donazioni degli imperatori e le elargizioni dell’aristocrazia
vengono ad arricchire la Chiesa, come testimonia l’impressionante elenco delle
donazioni fatte da Costantino contenuto nel Liber pontificalis. Ma la generosità
imperiale o privata consente soprattutto di realizzare un programma sistematico
di costruzione di basiliche. Un tale sforzo a favore dell’arte pagana non era
mai stato realizzato in cosí breve tempo.
All’arte cristiana si impongono nuovi compiti: decorare edifici di culto, le
basiliche o i martyria consacrati alla memoria di un martire o eretti sul luogo
santo delle teofanie, i battisteri. Gli artisti non operano piú per la
decorazione di edifici privati, ma per la glorificazione della nuova fede sotto
gli occhi delle comunità ecclesiastiche intere. Per assolvere a tale programma,
gli artisti cristiani hanno creato tipi, immagini di cui non sempre conosciamo i
prototipi. Innanzi tutto la rappresentazione di Cristo che compare al centro di
numerose composizioni si trasforma: non è piú il filosofo barbuto del sec. III,
ma un Cristo eroicizzato dal volto giovanile; verso la metà del sec. IV si è
creata l’immagine del Bel Cristo, imberbe, dai tratti improntati di dolcezza,
con la capigliatura ondulata a larghi boccoli.
Nello stesso tempo compare un repertorio d’immagini nuove, derivato dai modelli
dell’iconografia trionfale o da quelli della liturgia imperiale: Cristo riceve
l’offerta di corone, come l’imperatore quella dell’oro coronario. Il Signore non
è piú un dottore che siede sul suo seggio, ma un monarca in trono, circondato
non piú da discepoli, ma da assistenti. La Traditio legis mostra Cristo che
annuncia la sua legge e tiene il rotolo che Pietro si appresta a ricevere, con
le mani levate in un gesto ispirato al cerimoniale aulico. In altri casi (Santa
Pudenziana a Roma) il collegio apostolico circonda il Pantocrator che domina su
un trono imperiale, dietro il quale è eretta la croce trionfale costellata di
pietre preziose. Negli edifici consacrati al culto di un martire, ove i
cristiani vengono a raccogliersi per celebrarne l’anniversario, vi sono immagini
che ne esaltano le sofferenze e il trionfo: in Palestina, presso i luoghi santi,
in Egitto e persino a Roma (confessione dei Santi Giovanni e Paolo) si crea un
repertorio d’immagini di tipo nuovo. Scene trionfali, immagini di martyria
completano il vocabolario già ricco di un’iconografia conosciuta soprattutto,
nel sec. III, dalle pitture delle catacombe romane.
I centri artistici
Ma, per riprendere qui un problema già visto da Strzygowski, se cioè l’origine
di tutti questi tipi nuovi, ampiamente diffusi nel mondo cristiano sia Roma o
piuttosto l’Oriente, cui egli attribuiva un ruolo fondamentale nella creazione
delle immagini o dei monumenti, va detto che la questione era posta in base a
dati errati. Nel III e nel IV secolo si è costituita nell’Orbis romanus una
koinè artistica; forme influenzate dall’Oriente sono state integrate entro un
linguaggio comune. Talune espressioni – il gusto delle rappresentazioni frontali
– che venivano considerate orientali, in realtà appartengono a quell’arte
popolare per lungo tempo soffocata dall’estetica ufficiale, e che risorge con la
rivoluzione artistica della fine del sec. II. Anziché scegliere tra Roma e
l’Oriente, occorre sottolineare il ruolo di alcuni grandi centri privilegiati
nell’elaborazione dell’iconografia: Costantinopoli, Alessandria, Gerusalemme (martyria
palestinesi), Antiochia crearono senza dubbio, partendo da procedimenti
artistici comuni e da tradizioni locali, il proprio linguaggio iconografico.
L’originalità creativa di Roma è particolarmente sensibile e si manifesta
anzitutto nei tipi iconografici.
Gli artisti di San Sebastiano (sulla via Appia) fissarono forse il volto di
Pietro e quello di Paolo, il primo con una barba corta e una capigliatura ad
attaccatura bassa; il secondo con barba lunga e fronte scoperta. A Roma si crea
inoltre tutto un repertorio originale d’immagini: Pietro è rappresentato come un
secondo Mosè, dunque come il capo di una milizia spirituale, nel miracolo della
roccia, nell’episodio dell’insegnamento nel deserto e nella scena della Traditio
legis. In tali creazioni si riflette la devozione per il martire locale, e nello
stesso tempo una concezione dell’ecclesiologia che esalta insieme il fondatore e
la sua Chiesa, instaurata dalla predicazione apostolica.
I pittori del IV secolo
A partire dal sec. IV i pittori operano per la decorazione delle chiese e non
piú soltanto per quella degli edifici funerari e delle dimore cristiane. Ma non
conosciamo alcuna pittura se non quella delle catacombe, con un’importante
eccezione: la decorazione di una «confessione» nei Santi Giovanni e Paolo, che
offre l’esempio delle immagini di martyria di cui spesso ci parlano i
contemporanei (Prudenzio, Paolino di Nola). L’influsso della decorazione
monumentale, le cui composizioni ancor oggi sopravvivono grazie ai mosaici di
Roma o Ravenna, si riflette talvolta nelle immagini catacombali. A Roma la
pittura costantiniana, illustrata a Santa Domitilla, nel Coemeterium Major,
nella catacomba di via Isonzo e in quella di via Anapo, manifesta espressioni
nuove: il gusto per una decorazione dai tratti grevi, dalle larghe contornature,
che si sostituiscono alla gracile architettura del secolo precedente. Il volto
delle oranti, trattato con particolare attenzione, caratterizza piú che nel sec.
III l’ispirazione della nuova spiritualità: occhi smisurati, contornati da linee
dure, tratti – l’attaccatura della naso, la bocca – fortemente disegnati. Nella
seconda metà del secolo (per esempio a Domitilla) la rinascita delle tendenze
classiciste non modifica sostanzialmente tali mezzi espressivi; ma in qualche
caso conferisce ai colori maggiore sontuosità e ricchezza. In seguito l’influsso
dei mosaici absidali e quello delle «icone» esercita sull’arte cimiteriale – sui
suoi temi e sulla composizione dei suoi dipinti – un’influenza crescente (alla
fine del secolo, i Santi Pietro e Marcellino; poi, all’inizio, del Medioevo,
Commodilla e Callisto). Conosciamo soprattutto i dipinti delle catacombe
di Roma, e, in alcuni esempi privilegiati, intravvediamo tutta la ricchezza di
un repertorio pagano o eterodosso: ipogei di Vibia o di Trebius Justus. I temi
ormai classici del repertorio cristiano di immagini si mescolano talvolta agli
schemi pagani, si arricchiscono di composizioni originali (catacomba della Via
Latina), forse ispirate da bibbie illustrate. Fuori di Roma, a Siracusa o a
Napoli, compaiono opere analoghe a quelle romane, che riflettono spesso altri
influssi (Siracusa; Santa Maria in Stelle presso Verona) e rivelano talvolta
un’arte popolare (Silistra).
Tecnica della pittura paleocristiana
Impiega ampiamente i procedimenti dell’arte ellenistica e romana indicati da
Plinio e da Vitruvio. Per le catacombe, che hanno offerto numerosissimi esempi
di arte p, le particolari condizioni di lavoro e l’umidità dei luoghi
suggeriscono qualche espediente specifico. Si aggiunga che spesso si tratta,
nella decorazione delle volte o degli arcosolia delle cappelle funerarie, di
lavori eseguiti in stretta economia e senza prendere tutte le precauzioni di cui
si avvalgono gli artisti che ornano i ninfei o gli oecus delle dimore private.
Prima dei pittori intervengono i tectores (intonacatori), che preparano le
pareti secondo una tecnica studiata da G. Wilpert (1857-1944), autore del primo
corpus delle pitture cristiane, e piú recentemente da P. Testini e A. Nestori.
La parete è coperta da una preparazione a piú strati, talvolta fissati con
chiodi o caviglie in cemento (Priscilla, Capella graeca). A immediato contatto
con la parete, un primo strato è costituito da un miscuglio di calce, pozzolana
e talvolta sabbia, con cocci polverizzati: altri cocci, o frammenti di
terracotta, consolidano questo supporto. La preparazione superficiale si
componeva di calce mescolata a polvere di marmo. Il suo spessore sulle pareti
friabili delle catacombe supera raramente il centimetro. E spesso i tectores,
operando in fretta e a poco prezzo, si accontentavano di un solo strato di
preparazione: tale procedimento economico compare soprattutto nel sec. IV, e
potrebbe fornire, in qualche caso, un criterio di datazione.
Accadeva persino che s’impiegasse una preparazione piú sommaria, coprendo
semplicemente le pareti con latte di calce (dealbatio). Il pittore interviene
dopo gli intonacatori, sia che operi quando la preparazione è ancora umida – a
tempera – sia che attenda che il supporto sia bene asciutto: l’artista traccia
sulla preparazione fresca le grandi linee della decorazione geometrica; impiega
una punta secca o uno stilo oppure, soprattutto a partire dal sec. IV, traccia a
pennello un contorno a colori chiari. L’impianto viene schizzato rapidamente, in
condizioni spesso difficili.
Resta la scelta dei colori: di solito colori minerali o vegetali stemperati
nell’acqua. La gamma cromatica è estremamente limitata: al bianco, al rosso, al
verde si aggiungono raramente gli azzurri e i neri; per economizzare
ulteriormente su prodotti costosi, il fondo monocromo – spesso d’intonaco –
viene lasciato intatto dal pittore. I pittori cristiani hanno pure dipinto a
encausto: cosí l’eretico Ermogene che fustiga Tertulliano, all’inizio del sec.
III. Eusebio di Cesarea (all’inizio del sec. IV), ed Epifane citano opere
realizzate con tale tecnica: esse non sono sopravvissute e gli artisti delle
catacombe non ne hanno, a quanto sembra, mai fatto uso.