5/13/2020

Neorealismo

La fine della guerra in Italia, nella primavera del 1945, fu salutata da un’esplosione di gioia, anche fra gli artisti. Gli incontri si moltiplicarono, tra la primavera e l’autunno del 1946, a Milano, Roma e Venezia e si conclusero, alla presenza dei critici Apollonio, Ferrante, Cavicchioli, Alberto Rossi e Giuseppe Marchiori, nel salone di Palazzo Volpi a Venezia, dopo lunghe discussioni tra Birolli, Santomaso, Morlotti, Pizzinato, Viani e Vedova. Fu firmata poi una dichiarazione, redatta in gran parte da Birolli, il 1° ottobre 1946, alla quale aderirono Guttuso, Cassinari e Leoncillo. La dichiarazione era questa: «Nove artisti italiani, sostituendo all’estetica delle forme una dialettica delle forme, intendono far convergere le loro tendenze, solo apparentemente contrastanti, verso una sintesi riconoscibile soltanto nel futuro delle loro opere, e ciò in netto contrasto con tutte le precedenti sintesi verificatesi per decisione teoretica o comunque aprioristica, intendono di avvicinare a una prima base di necessità etica e morale le loro singolari affermazioni nel mondo delle immagini, le loro osservazioni, assommandole come atto di vita. Pittura e scultura, divenute così strumento di dichiarazione e di libera esplorazione nel mondo, aumenteranno sempre più la frequenza con la realtà. L’arte non è il volto convenzionale della storia, ma la storia stessa che degli uomini non può fare a meno».


La dichiarazione era firmata da Birolli, Cassinari, Guttuso, Morlotti, Pizzinato, Santomaso, Vedova, Leoncillo e Viani. Il movimento prese il nome di «Nuova Secessione artistica italiana – Fronte Nuovo delle Arti». Ma dopo un incontro di Birolli e Morlotti con Guttuso a Roma, prevalse il secondo nome, e, con questo, ormai, è universalmente noto. La mostra, inaugurata il 12 giugno 1947 alla Galleria della Spiga a Milano, ottenne un ampio insuccesso, soprattutto per lo scarso impegno di alcuni espositori e per l’assenza di Birolli e Morlotti, i quali, partiti per Parigi nel gennaio 1947, non avevano ritenuto di inviare le loro opere. Prima dell’inaugurazione della mostra, Cassinari aveva dato le dimissioni dal Fronte. Al suo posto erano entrati, su suggerimento di Guttuso, Corpora e Turcato, Fazzini e Franchina. L’organizzazione generale spettava a Stefano Cairola, mentre il catalogo conteneva saggi e presentazioni di Argan, Guttuso Lucchese, Maltese, Moravia, De Micheli, Bettini, Venturi e Valsecchi, e una prefazione di Giuseppe Marchiori, nella quale, tra l’altro, si diceva: «I pittori d’oggi sembrano condannati, nella maggior parte dei casi, alla minuta fatica delle disquisizioni linguistiche, delle polemiche filologiche: un lavoro da pedanti e, spesso fatto su testi spuri, senza metodo, e in contrasto con la dichiarata esigenza di comunicare, di riscattare l’arte dalla decadenza o dalla morte dei miti. Suggestionati dalla preoccupazione di esercitare una funzione sociale, passano di errore in errore teorico, si contraddicono senza trovare una legge che li soddisfi. Né potranno trovarla finché continueranno a negare la realtà dell’arte nel nome di un moralismo valido soltanto in un senso civico. Malgrado l’orgoglio e l’infaticato individualismo ossessivo, sono destinati a diventare degli anonimi, i discepoli anonimi di una scuola che avrà il colpo di grazia dall’apparizione (tanto per dare un esempio) di un nuovo Masaccio. Questo genio, ancora sconosciuto, farà morire finalmente tutti i problemi, risolvendoli nelle opere assolute e definitive. Torneranno a discuterne gli epigoni, a tradurre gli assoluti formali in linguaggio [...] Se gli artisti d’oggi si mostrassero umili come degli onesti artigiani, riconoscendo questo loro destino di anonimi, il giudizio sarebbe più generoso sulle opere tormentate e affaticate che rivelano, per troppi accenni, il dramma di una generazione incapace, dopo aver distrutto in sé ogni valore certo, di avviarsi all’avventura di una sorte troppo incerta. L’arte diventa fatto razionale, teorema, esclude l’amore, l’abbandono del “credente”, che in tal modo si nega al sogno e si annulla come artista. Chi vorrà invece «raccontare» per gli altri, raccontando se stesso, dovrà essere e vivere nella condizione del “credente”, liberarsi della razionalità eccessiva, superare il limite che gl’impone la presenza dominatrice di una civiltà figurativa negata soltanto nei paragrafi dei manifesti».

Ma il successo doveva venire al Fronte, da due sale della Biennale del 1948. Morlotti, Biroli e Santomaso avevano fatto dei grandi progressi. Guttuso e Pizzinato erano rappresentati da una serie di opere ottimamente scelte. Vedova mostrava un ardore combattivo addirittura furibondo; Viani esponeva alcune delle sue sculture più finite (e, per il pubblico, più scandalose). Turcato, Leoncillo e Corpora si inserivano con opere che documentavano un rinnovamento ricco di interesse. Le sale del Fronte costituirono l’interesse della Biennale del ’48 e ottennero quel riconoscimento che era mancato a Milano nel 1947; e il riconoscimento, come negli intenti del Fronte fu davvero su un piano europeo. Fu sempre Giuseppe Marchiori a presentare, nel catalogo della Biennale, gli artisti del Fronte: «La critica italiana, salvo poche eccezioni, fu avversa al Fronte, senza intenderne le ragioni ideali, che si manterranno e si mantengono valide, sempre più in accordo col tempo. Oggi, infatti, l’esigenza morale è rafforzata dalle affinità che si delineano tra gli artisti più autentici, nella conferma attraverso la validità delle opere, di ogni fiducia, virilmente richiesta e, di volta in volta, con ogni sorta di argomenti, negata. Il "Fronte Nuovo delle Arti" si presenta alla Biennale col proposito di giustificarsi storicamente, fedele all’impegno assunto nel tempo e che si riconosce nella realtà delle opere».

Mentre si stava preparando, tra contrarietà d’ogni genere, la partecipazione del Fronte alla Biennale del 1950, col proposito di rinnovare i quadri del gruppo (nei primi mesi del 1950 aderì al Fronte anche Moreni), giunse una lettera di Guttuso, che Giuseppe Marchiori comunicò ai «frontisti» veneziani: in essa Guttuso aveva voluto accentuare la posizione neorealista (e infatti partecipò alla Biennale col grande quadro L’occupazione delle terre). Giuseppe Marchiori, dopo aver accennato alla decisione «tempestiva» e «opportuna» e alla «convivenza difficile» degli ultimi due anni, aggiunse: «Oggi, affermata da una parte la politicità di ogni manifestazione della vita, e quindi anche dell’arte e, dall’altra, la libertà dell’artista, sono venute a cessare le ragioni che giustificavano il Fronte [...] Il Fronte è stato davvero, come dice Guttuso, il fatto della pittura italiana del dopoguerra, che contiene la paternità e la responsabilità di quel che avviene nel campo dell’arte dei giovani». Già nel 1949, quando il Fronte si sciolse, la situazione era ben definita: «Si era optato, da Guttuso e Pizzinato, per il neo-realismo: Vedova aveva continuato a sviluppare la tematica sociale in chiave espressionista, talora nei modi, sempre geniali, dell’espressionismo astratto. Turcato si era liberamente avviato in un giro di ricerche dadaiste e surreali, mentre Santomaso stava abbandonando gli amati schemi del postimpressionismo francese per ben altre avventure pittoriche. Morlotti scopriva il naturalismo della vigorosa terra di Padania. Corpora veleggiava sereno verso i lidi delle nostalgie tunisine, condite di cultura parigina. E Franchina costruiva mostri metallici, le sculture-macchina di una civiltà che abbandonava gli schemi del primitivismo rivisto nel nome di una negazione classicistica. Alberto Viani seguiva invece un iter artistico razionale, che doveva risolversi, nel 1976, nello stile semplificato delle lamine bronzee simbolicamente allusive [...]» (G. Marchiori).

Occorre ancora citare un giudizio di G. C. Argan in Peinture italienne et peinture Européenne, Les Arts Plastiques, Bruxelles, 5 giugno 1948: «Gli artisti più sensibili della nuova generazione come Birolli e Guttuso assumono da van Gogh e dai fauves le premesse di una violenta denuncia sociale, e affrontano dopo questa prima esperienza morale, con nuova coscienza, il problema di Picasso; che non è solo un problema di forme, ma della coscienza moderna, il testimonio più acuto della sua crisi... Queste sono le premesse della partecipazione italiana concreta e positiva alla cultura artistica europea, che, dopo la guerra si manifesta in un fermo orientamento verso l’arte astratta, o meglio in una "revisione" dell’esperienza cubista alla luce dell’astrazione: come nella pittura di Guttuso, Birolli, Afro e nella scultura di Viani, Mazzacurati, Leoncillo» e quello interlocutorio, di A. Chastel in Certitudes incertitudes italiannes – Una Semaine dans le Monde, 14 agosto 1948: «[...] Per finire con gli ostacoli della tradizione, un nuovo cammino è stato proposto dopo la liberazione dal gruppo ottobre ’46 che con Santomaso, Vedova, Guttuso adotta il linguaggio impulsivo dei giovani pittori francesi. Essi cercano dapprima una migliore organicità del quadro in toni decisi di carte incollate (découpage) un mezzo d’espressioni à jour di cui i migliori si sono già assicurati la maestria. Ma bisogna ancora attendere i frutti».