L’uso di raccogliere dipinti in collezioni sia pubbliche che private è ben
documentato nel mondo greco e romano. In età classica, preziose raccolte di
pittura, oltre che di scultura, vantavano quasi tutti i maggiori santuari della
Grecia: si trattava per lo piú di doni votivi che, accumulatisi con il passare
del tempo insieme a centinaia di altri oggetti, a poco a poco avevano
trasformato questi complessi di culto in veri e propri musei, come attesta ad
esempio in età augustea Strabone, a proposito dell’Heraion di Samo: «... un
santuario antico
e un grande tempio, che ora è una pinacoteca; oltre alle numerosissime opere al
suo interno, vi sono altri edifici ed edicole, pieni anch’essi di antiche opere
d’arte» (Geografia,
XIV, 1.14). Una p esisteva ad Atene nell’ala settentrionale dei Propilei,
l’ingresso monumentale all’Acropoli: era un vasto ambiente, intensamente
illuminato da finestre rivolte a mezzogiorno, in cui si conservavano pitture di
soggetto mitologico (Ratto del Palladio, Sacrificio di Polissena, Perseo
vincitore di Medusa) e anche di soggetto storico (Alcibiade vincitore a Nemea),
come apprendiamo dall’elenco che ce ne ha lasciato Pausania nel sec. II d.C. (Periegesi,
I, 22.6-7). Secondo alcuni studiosi, la p sarebbe stata progettata direttamente
dall’architetto Mnesicle all’epoca della ristrutturazione periclea dell’Acropoli,
e risalirebbe pertanto già al sec. X a. C. Secondo altri, invece, l’idea di p, e
piú in generale quella di museo, presuppongono la considerazione delle opere
d’arte come beni in se stessi, da studiare e apprezzare per il loro valore
intrinseco, anche a prescindere dal soggetto o dal contesto originario: una
considerazione che si affermò piú tardi, in piena età ellenistica, per cui
soltanto a quest’epoca sarebbe lecito far risalire con certezza le prime
raccolte d’arte, nel senso moderno del termine, compresa quella dei Propilei.
Collezioni di dipinti di varia epoca esistevano presso le corti dei sovrani
ellenistici: ad Antiochia, ad Alessandria e a Pergamo, il cui re Attalo II, in
una vendita all’asta di prede di guerra, non esitò a sborsare la cifra
astronomica di 600 ooo denari per un quadro di Aristide raffigurante Dioniso,
mettendo per questo in allarme il console romano Lucio Mummio – la cui ignoranza
in campo artistico da allora divenne proverbiale – il quale, meravigliatosi del
prezzo e sospettando che in quell’opera fosse riposta una qualche virtú magica a
lui sconosciuta, fece annullare la vendita e dedicò il quadro nel tempio di
Cerere, a Roma. Secondo Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 24) fu questa la prima
pittura «straniera» esposta nell’Urbe, seguita ben presto da moltissime altre
che i Romani, contagiati dalla passione collezionistica dei principi ellenistici,
cominciarono a raccogliere con sempre maggior interesse. Le conquiste militari e
la supremazia economica consentirono loro di far affluire a Roma, a partire dal
sec. II a. C., gran parte dei capolavori custoditi nelle raccolte del mondo
greco, portati in trionfo dai generali vittoriosi e destinati ad arricchire le
collezioni ospitate nei templi e nei portici della città, o esibite come
prestigioso status symbol nelle
lussuose dimore dei patrizi. Alla fine della Repubblica erano una quantità gli
edifici pubblici di Roma trasformati di fatto in gallerie d’arte: i portici di
Ottavia e di Filippo (che ospitava, tra gli altri, un quadro raffigurante un
Personaggio con scudo di Polignoto e l’Elena di Zeusi), il portico di Pompeo
(con l’Alessandro di Nicia e un Sacrificio di buoi di Pausia), i templi del Divo
Giulio (Afrodite Anadyomène di Apelle), di Apollo Sosiano (pitture di Aristide
Tebano), di Venere Genitrice (Aiace e Medea di Timòmachos di Bisanzio), di
Augusto (Giacinto e Danae di Nicia) e piú tardi il tempio della Concordia (famoso,
oltre che per il Dioniso di Nicia e il Marsyas religatus di Zeusi, anche per la
collezione di sculture greche del periodo post-lisippeo, che vi fece esporre
l’imperatore Tiberio, grande amante dell’arte ellenistica) e quello della Pace (Scilla
di Nikòmachos e Ialysus di Protogene).
Sull’esempio di Lucullo (stando a Varrone, De re rustica, I, 2.10, e Plutarco,
Vita di Lucullo, 39), nel sec. I a. C. si diffuse sempre piú anche il gusto per
le raccolte private, il cui incremento nel giro di pochi decenni fu tale da
suscitare la reazione indignata di Marco Agrippa, genero di Augusto, che in
un’orazione sostenne l’opportunità di restituire al pubblico godimento i quadri
e le statue piú importanti, «esiliate», a suo dire, nelle case e nelle ville
(salvo poi acquistare per sé dai Ciziceni un Aiace e una Venere per oltre un
milione di sesterzi: Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 26). Una posizione
contraddittoria nei confronti delle raccolte di quadri fu quella di Plinio, che
non condannò categoricamente il fenomeno – il XXXV libro della sua Storia
Naturale dimostra che egli fu un assiduo frequentatore delle p – considerandolo
però sintomatico del declino della pittura ai suoi tempi, in cui si ammiravano
le opere degli antichi, ma si era incapaci di crearne di nuove.
Tra le tante collezioni private, celebri furono quella di Verre, che oltre alle
sculture aveva razziato una quantità notevole di dipinti durante gli anni del
suo mandato in Sicilia, e quella dell’oratore Ortensio, che comprò per ben 144
000 sesterzi Gli Argonauti di Cydias e nella sua villa di Tuscolo fece costruire
un ambiente apposito per esporre la tavola (Plinio, Naturalis Historia, XXXV,
130). Vi furono poi le collezioni imperiali, a cominciare da quella di Augusto,
che nella sua casa sul Palatino custodiva il celebre quadro su cui Protogene e
Apelle avevano fatto a gara nel tracciare la linea piú sottile, e da quella di
Tiberio, che poteva vantare un’Atalanta e Meleagro e un Archigallus di Parrasio.
Sull’attenzione che Caligola dedicò alla quadreria imperiale, studiando
personalmente nella sua dimora sull’Esquilino l’ambiente adatto per sistemare le
pitture – anche a costo di trascurare per questo i suoi doveri d’imperatore –
siamo informati da un gustoso episodio riferito, con evidente costernazione, da
Filone, venuto a Roma dalla lontana Alessandria con un’ambasceria:
«[L’imperatore] si precipitò di corsa nella sala grande, ne fece il giro e
ordinò che le finestre tutt’intorno fossero restaurate con lastre di pietra
trasparenti come il vetro. Poi si fece avanti con calma e chiese in tono
moderato «Che cosa stavate dicendo?», ma quando cominciammo ad esporre la nostra
argomentazione si precipitò in un’altra stanza, dove ordinò di appendere i
quadri antichi». Nel 153 d. C. un’epigrafe menziona inoltre due funzionari
addetti alla p imperiale, Flavio Apollonio, procurator dell’imperatore Antonino
Pio a pinacothecis, e Capitone, liberto imperiale e suo assistente (C.I.L.,
VI.10234).
Sulla disposizione interna delle p siamo informati da Vitruvio, che nel suo De
architectura consigliava di esporre le pitture in ambienti appositamente
costruiti, concepiti come sale con portici e sedili, aperte a settentrione –
contrariamente alla P di Atene – in modo che l’illuminazione fosse moderata e
costante e i raggi del sole non giungessero mai direttamente sui dipinti,
rischiando di rovinarli (De architectura, VI, 4.1; I, 2.7). I quadri erano
appesi alle pareti entro cornici che possiamo immaginare simili a quelle con
modanature geometriche e decorazioni floreali e animali che bordano i mosaici di
Pella e il mosaico con la Battaglia di Alessandro e Dario dalla casa del Fauno a
Pompei, o che compaiono sulle pitture parietali romane. Talvolta i dipinti piú
delicati erano protetti da sportelli che ruotavano lateralmente su cerniere,
come nei trittici della tradizione tardoantica e medievale. Ad informarci
dell’esistenza di tavole munite di due e perfino quattro ante pieghevoli non
sono soltanto le pitture pompeiane, ma anche gl’inventari dei beni del santuario
di Delo, che menzionano espressamente «quadri con sportelli», segnalandone
addirittura lo stato di conservazione (integro, privo di un’anta, mancante di
entrambe gli sportelli).
Piú difficile è ricostruire l’ordinamento delle opere all’interno di una p. La
descrizione di una collezione di Napoli, o forse di Pozzuoli, che ci ha lasciato
Petronio nel Satyricon (83), è infatti troppo sommaria per trarne indicazioni
sicure: per di piú, il generico riferimento a quadri di Zeusi, Protogene e
Apelle, i massimi artisti greci, i cui nomi erano noti a tutti, appare troppo
scontato per non dar adito al sospetto che si tratti di un espediente letterario
– cui Petronio ricorre per esprimere le sue considerazioni sulla decadenza della
pittura ai suoi tempi – piuttosto che della descrizione di quadri realmente
esistenti.
Completamente diversi sono invece i due libri di Eikònes (Immagini) in cui
Filostrato maggiore descrisse, nei primi decenni del sec. III d. C., una p posta
in un sobborgo poco fuori di Napoli. Il suo resoconto è così puntuale da aver
permesso agli studiosi di ricostruire il percorso dell’esposizione, allestita in
un portico di quattro o cinque piani, rivestito di splendidi marmi e
prospiciente il mare. Apprendiamo così che i sessantaquattro quadri, di diversi
autori, erano ordinati per grandi temi: una prima sezione era dedicata alle
personificazioni dei fiumi, dallo Scamandro al Nilo, e raccoglieva episodi come
Poseidone che insegue Amymone o Fetonte che precipita nell’Eridano; Dioniso era
protagonista della seconda sezione, che iniziava con la nascita del dio, cui
seguivano le sue nozze, il castigo di Penteo e dei pirati tirreni e numerosi
altri episodi, fino alla creazione del vino per il bene dell’umanità; soggetto
della terza sezione, dedicata a Venere, era l’esaltazione del potere dell’amore,
mentre ai miti sulle origini del mondo e alle vicende di Eracle erano dedicate
le ultime due sezioni della raccolta. (mlg).
In epoca medievale e moderna il termine p fu usato raramente a causa della
persistente connotazione universalistica del collezionismo. Non si raccoglievano,
come è noto, solo dipinti ma anche statue antiche e moderne medaglie e altre
testimonianze storiche e artistiche, oggetti preziosi, rari, curiosi, strumenti
scientifici, specimen minerali, animali e vegetali, ecc.: i cosiddetti naturalia
et artificialia. Troviamo quindi usati piú frequentemente i termini di «studio»,
«studiolo», «cabinet», Wunderkammer, «galleria» o «museo». Non è certo un caso
che perfino in epoca contemporanea la voce p sia assente o quasi dai dizionari e
dalle enciclopedie e sia spesso rinviata a quella onnicomprensiva di «museo».
Nel fare la storia della p non si può dunque prescindere dalla storia del museo
e in genere del collezionismo. Una delle prime collezioni comprendenti una p fu
quella del vescovo di Como Paolo Giovio il quale, tra il 1520 e il 1552, riuní
nel suo palazzo una serie di ritratti di «uomini illustri» (principi, papi,
condottieri, poeti, artisti, dotti, ecc.), con un intento documentario e
celebrativo e non artistico. Essa costituì un famoso e imitato modello per altre
collezioni di ritratti.
Il termine p fu assimilato ben presto a quello di «galleria». La «galleria»
infatti, nata per identificare in un palazzo privato un portico adibito al
passeggio, divenne in seguito la sede canonica per l’esposizione di opere d’arte,
principalmente sculture. Tra le prime testimonianze si può citare fuori d’Italia
quella dell’Antiquarium di Alberto V di Baviera a Monaco (1570-90) e in Italia
la galleria del Palazzo Ducale di Mantova (1570 ca.), quella «degli Antichi» a
Sabbioneta (1583-84), o quella degli Uffizi (1581-87). Quest’ultima fu la prima
aperta al pubblico, anche se si trattava pur sempre di una élite di eruditi,
artisti o conoscitori.
Bisogna attendere gli inizi del sec. XVII per vedere utilizzato il termine p o
il suo sinonimo «quadreria» nel senso di un ambiente adibito esclusivamente alla
esposizione di pitture. P venne usato dallo Scamozzi nel 1615 nel senso
etimologico, quando egli si occupa delle case degli antichi romani; dal pittore
David Teniers il Giovane a proposito della collezione di Leopoldo Guglielmo e
dal Sandrart nella sua Teutsche Académie (1683) per indicare la sala grande dei
quadri della collezione Giustiniani. Nel Seicento, piú in generale, il primitivo
collezionismo eclettico, in cui le opere d’arte antica e moderna erano mescolate
alle curiosità e agli oggetti bizzarri, tende a stabilizzarsi verso linee
monotematiche, con la predilezione per le pitture o le sculture, che già nella
Galeria del Marino (1619) costituiscono le due sezioni fondamentali, cosí come
nella raccolta di epigrammi di G. M. Silos (1673) che si intitolerà Pinacotheca.
Le prime grandi p si formarono all’interno delle collezioni che, presso le
principali corti europee, si cominciarono ad allestire a partire dalla seconda
metà del sec. XVI. Tra le maggiori si possono menzionare quella di Carlo I
Stuart a Londra, di Leopoldo Guglielmo di Asburgo a Bruxelles (poi donata
all’imperatore Leopoldo I di Vienna), di Rodolfo II di Boemia a Praga (finita
quest’ultima a Gustavo Adolfo e Cristina di Svezia), di Vincenzo I Gonzaga a
Mantova (venduta da Vincenzo II in buona parte a Carlo I Stuart e
successivamente dispersa tra le piú famose collezioni europee), di Filippo III e
Filippo IV di Spagna, di Ferdinando di Asburgo arciduca del Tirolo, di Luigi XIV
di Francia, di Cosimo I e Francesco I dei Medici a Firenze, di Alberto V e
Massimiliano I di Baviera. Si tratta in genere di raccolte di dipinti dei
maggiori artisti del rinascimento e contemporanei, con particolare attenzione ai
maestri italiani, tedeschi e fiamminghi. Accanto alle collezioni delle casate
regnanti in tutta Europa, nate soprattutto per ragioni di affermazione del
prestigio dinastico, si formarono altre raccolte presso le piú importanti
famiglie nobili che, soprattutto a Roma, hanno lasciato una tangibile
testimonianza: ad esempio la Doria-Pamphilj, la
Borghese, la Colonna, la Barberini, la Pallavicini-Rospigliosi, la Chigi, la
Mattei, la Ludovisi, la Sacchetti, ecc.
Altre p, di personaggi meno rappresentativi della politica e della gerarchia
religiosa, nonché di medici, avvocati, commercianti, ma non per questo meno
significative, costituirono la premessa per futuri nuclei museografici di
altrettanta primaria importanza. Per restare in ambito romano si possono
ricordare le collezioni del marchese Vincenzo Giustiniani e dei cardinali
Aldobrandini, Francesco Maria Del Monte e Bernardino Spada. Nel caso dei
collezionisti ora citati, oltre le ragioni di prestigio e di investimento
economico, erano soprattutto le reali capacità di apprezzamento delle opere
d’arte che li spingevano ad acquistare dipinti o altri oggetti d’arte.
Il carattere privato delle p concorre a spiegare, all’inizio, il disinteresse
dei collezionisti di quadri secondo quei criteri logici o sistematici, che già
nel corso del sec. XVIII cominceranno ad essere adottati e richiesti. I quadri
occupavano spesso la totalità della superficie delle pareti in un intento
puramente decorativo e secondo una partizione per generi che prescindeva da
valutazioni storiche o critiche. Giulio Mancini, medico di Urbano VIII ma
«dilettante» e «amatore» d’arte, nelle sue Considerazioni sulla pittura (1620)
suggerì qual genere fosse piú opportuno esporre nelle sale di rappresentanza,
quale nelle stanze da letto, e cosí via. I dipinti di J. Bruegel il Vecchio, F.
Francken II e D. Teniers il Giovane offrono una testimonianza degli allestimenti
di p nel sec. XVII. Tali esposizioni «decorative» si manterranno anche nel
secolo successivo, come è documentato ad esempio dal dipinto del Panini
raffigurante la p del cardinale Silvio Valenti Gonzaga (1749) o dalle stampe
illustranti l’allestimento della Stallburg di Vienna nel 1735. Tra le molte p
che conservano fondamentalmente l’assetto originario settecentesco si può
ricordare la Bildgalerie di Potsdam (1755-63) nella residenza reale di Sans
Souci di Federico II di Prussia.
Con il Settecento si comincia a rendere pubbliche alcune collezioni. Molte p
furono annesse alle Accademie artistiche con la funzione di ausilio per gli
artisti. Tra queste possiamo ricordare la Pinacoteca Capitolina, fondata nel
1748 da Benedetto XIV accanto alla Scuola del nudo, e la piccola raccolta
Zambeccari donata all’Accademia Clementina di Bologna nel 1762, primo nucleo
della futura Pinacoteca Nazionale, quest’ultima riordinata con quelle di Brera e
di Venezia in epoca napoleonica. Fuori d’Italia si può ricordare a Parigi la
sistemazione di un consistente nucleo di quadri di proprietà reale nel palazzo
del Lussemburgo (1750). Ed è di pochi anni dopo (1765) la voce Louvre nella
Encyclopédie di Diderot, dove si propose di trasformare la Grand Galerie del
Louvre in p coi dipinti delle collezioni reali. Il progetto, attuato a partire
dagli anni ’80, fu completato nel 1810 sotto Napoleone.
Il sec. XVIII vedrà nascere i primi grandi musei destinati alle sole opere
pittoriche, esposte secondo criteri storici, nel nuovo clima culturale
d’impronta illuminista: la p di Pommersfelden in Franconia, di Düsseldorf, di
Kassel, di Schleissheim presso Monaco, di Dresda, dove affluirono nel 1746 un
centinaio di dipinti del duca Francesco III di Modena, sono vari esempi di una
tendenza generalizzata in tutta Europa. Nel 1734 il Builder’s Dictionary
riportava la voce Disposition of Pictures con tredici regole per la collocazione
dei quadri nelle p. Negli anni ’70-80 del secolo si hanno i primi esempi di
allestimento sistematico di p: la Galleria Elettorale di Düsserldorf fu curata
da L. Krahe con la collaborazione di Ch. von Mechel che ne pubblicherà il
catalogo illustrato (1778). Tale catalogazione scientifica fruttò al von Mechel
l’incarico dell’allestimento della p nel castello del Belvedere di Vienna, dove
il criterio sistematico distingueva, con sorprendente visione moderna, le varie
aree geografiche di provenienza dei quadri. Le cornici recavano il cartellino
col nome dell’artista e il numero d’inventario rispondente a quello del catalogo
illustrato, edito nel 1784.
Il concetto di proprietà pubblica delle collezioni d’arte e delle opere
pittoriche prenderà piede solo dopo la Rivoluzione francese. A partire dall’età
napoleonica si formarono le grandi p nazionali nelle principali capitali europee
(a Milano Brera, a Madrid il Prado, ad Amsterdam il Rijksmuseum, a Napoli il
Palazzo degli Studi, ecc.). Con la restaurazione i principali
monarchi europei seguirono l’esempio napoleonico di formare musei pubblici
distinti dalle dimore principesche, determinando il sorgere di una specifica
architettura museale. Ciò fece nascere soprattutto in Germania nuovi edifici
destinati esclusivamente a dipinti come l’Alte Pinakothek di Monaco
dell’architetto Leo von Klenze, prototipo fortunato per altre p e musei europei
dell’Ottocento, quali la Neue Pinakothek, sempre a Monaco (1846-52), il
Nationalmuseum di Stoccolma (1847-66), lo Städelsches Kunstinstitut a
Francoforte (1874-78), la Gemälde Galerie di Dresda (1847-55), il
Kunsthistorisches Museum di Vienna (1872-81), le gallerie di Kassel (1871-77) e
Braunschweig (1883-87). A Berlino fu realizzata addirittura una National Galerie
(1867-1876), per i dipinti del sec. XIX.
Seguire la storia delle nuove p nell’Ottocento è difficile in quanto spesso si
trattò di progettazioni museali che prevedevano l’esposizione non solo di
pitture ma anche di sculture, sulla spinta dell’indirizzo enciclopedico e
idealistico inaugurato dal Louvre che riconosceva al museo, al tempo stesso,
sacralità, funzioni educative e prestigio politico. È il caso, ad esempio,
dell’Altes Museum di Berlino (1825-30) progettato da K. F. Schinkel per
sistemare gli acquisti della collezione Giustiniani (1815) e Solly (1821) o del
nuovo Ermitage a San Pietroburgo (1842-1851) di L. von Klenze. Von Klenze fu con
Schinkel il piú importante architetto museografo del tempo, accanto a G. Semper.
A Monaco i dipinti furono divisi per epoche, stile e scuole, mentre nell’Altes
Museum di Berlino si usò per la prima volta il concetto della bipartizione,
esponendo nelle sale principali solo i capolavori e relegando in ambienti
separati i dipinti considerati di minore interesse. Schinkel disegnò anche le
cornici in stile per i dipinti e considerò elemento principe della raccolta i
quadri del tardorinascimento. Anche in Inghilterra si affermerà il concetto
della bipartizione, attuato nella National Gallery (1831-38), la prima p reale
inglese costituitasi dopo la dispersione della collezione di Carlo I Stuart.
Tale concetto sarà il primo passo verso l’affermazione dell’aspetto educativo
dell’arte e delle p.
In Italia un fenomeno tipico è quello della formazione di nuclei pubblici di
dipinti a seguito della soppressione delle congregazioni e ordini religiosi
(1866), cosí come era avvenuto dopo la rivoluzione. Per evitare la dispersione
di questo immenso patrimonio gli enti pubblici locali e le Accademie di belle
arti incamerarono oggetti d’arte provenienti da chiese e conventi soppressi che
andarono a costituire con altri materiali le raccolte locali. I musei locali
rappresentarono per la società del tempo il «salotto buono», il luogo della
memoria, ma furono anche luogo di «deportazione» di testimonianze non piú vive
perché separate per sempre dal loro contesto originale. Paradossalmente, le
grandi concentrazioni risultarono dannose in quanto misero in ombra l’istanza di
conservazione globale del patrimonio storico-artistico, che fin dal 1815 in
Francia aveva avuto il suo piú lucido sostenitore in Quatremère de Quincy.
Se la bipartizione ottocentesca fu intesa solo come selezione di capolavori a
scapito della documentazione dei «contesti», gli studi museologici del sec. XX e
l’influenza della visione educativa del museo, propugnata in primo luogo in area
americana, determinarono nuove posizioni e atteggiamenti che si concretizzarono
nel progetto di nuovi edifici e di nuovi allestimenti. Già Goethe nel 1821 e
Prosper Mérimée nel 1849 avevano consigliato di diradare la sequenza dei quadri
sulle pareti per far aumentare l’attenzione dei visitatori e permettere loro
l’acquisizione di maggiori e migliori conoscenze. Nel Museum of Fine Arts di
Boston (1909) la bipartizione fu unita a un rigorismo espositivo che portò a
ridurre a una sola fila i quadri su pareti dipinte con toni chiari. Criteri di
selezione espositiva furono presenti anche nel Museo di Hartford (1934), nel
Boymans di Rotterdam (1935) e nella National Gallery di Washington (1941).
Il ritorno alla rigida partizione per generi artistici con una scelta
qualitativa rigorosissima dei dipinti da esporre portò al «funzionalismo»
museografico, per una comunicazione
immediata e senza interferenze del messaggio estetico. L’esito fu però infelice
in quanto la freddezza e la «neutralità» del sistema espositivo potevano
influire negativamente sui visitatori, tanto che esempi come il Boymans di
Rotterdam furono soprannominati «musei clinica» o «musei laboratorio». In
risposta alla bipartizione W. Bode sperimentò a Berlino nel 1904 gli «insiemi
d’epoca», riunendo in un’unica sala oltre i quadri anche sculture, mobili e
arredi dello stesso periodo e stile. Tale concetto espositivo venne ripreso
negli Stati Uniti a partire dal Pennsylvania Museum di Philadelphia (1928),
andando però oltre le suggestioni degli «insiemi d’epoca», con ricostruzioni
dette period rooms. Esse trovarono un
largo consenso di pubblico e furono riproposte in altri musei americani ma
prestarono il fianco a pesanti critiche. Principalmente si obiettò che la
presentazione promiscua delle opere d’arte poteva suscitare nel visitatore una
disattenzione verso i valori formali delle singole opere. Inoltre in alcuni casi
si ricorse, in assenza di originali, a oggetti ricostruiti in stile.
Tra queste due linee di tendenza si articolerà il dibattito (museologia) nel
periodo antecedente l’ultima guerra mondiale che sfocerà con A. Dorner nella
perdita da parte del museo e della p del riconoscimento di valori universali:
non piú «tempio dell’arte» statico e immutabile – cui faceva riferimento la
stessa architettura museale, quasi sempre in stile neoclassico – ma strumento
dinamico di conoscenza legato al proprio momento storico. Esempi di questa nuova
concezione espositiva saranno gli allestimenti del Museo provinciale di Hannover
(1923-24) e del Museo della Rhode Island School di Providence (1938), ideati dal
Dorner e definiti musei «di atmosfera», in quanto si favori l’immaginazione del
visitatore con la presentazione di riproduzioni di complessi monumentali della
stessa epoca delle opere esposte.
L’antichità classica
L’evoluzione della produzione e delle tecniche artistiche contemporanee e la
ripresa di un collezionismo eclettico hanno determinato di fatto nell’ultimo
dopoguerra la fine delle p intese nel senso stretto del termine. Le p di arte
antica trovano sede, tranne le eccezioni italiane, nei grandi musei nazionali.
Recentemente, però, un edificio è stato realizzato ex novo per ospitare la Neue
Pinakothek di Monaco di Baviera (1981), di A. F. von Branca, dedicata
soprattutto alla pittura del romanticismo e del realismo del sec. XIX. Per le p
e le collezioni d’arte contemporanea sono stati costruiti piú di frequente nuovi
edifici. Esempi «storici» sono la Neue Nationalgalerie di Berlino progettata da
M. van der Rohe (1962-68), tra i primi tentativi – con la Cullinan Hall di
Huston – di museo «flessibile» e «integrato», e il Solomon R. Guggenheim Museum
di New York (1959) di F. L. Wright, al contrario, opera chiusa e condizionata al
massimo dal progetto architettonico, tanto da avere in corso un progetto di
ampliamento. Un’altra importante collezione mista d’arte francese del sec. XIX è
stata allestita nel Museo d’Orsay (1987) di Parigi. Il progetto di G. Aulenti ha
inglobato, tra l’altro, la raccolta dei dipinti degli impressionisti del Jeu de
Paume.
Tra i numerosi ampliamenti di antiche p si possono citare a titolo
esemplificativo quelli della National Gallery di Washington di I. M. Pei (1978),
della Neue Staatsgalerie di Stoccarda (1982) e della Tate Gallery (1987)
entrambi di J. Stirling e M. Wilford, dello Städelsches Kunstinstitut di
Francoforte (1990) di G. Peichel, della National Gallery di Londra (1991) di R.
Venturi e D. Scott Brown & Ass.: complesse tecnologie costruttive e stilemi
architettonici ispirati a varie correnti, dal modernismo tecnico al postmoderno,
si assemblano in soluzioni sempre originali. Si tratta quasi sempre di
efficienti «macchine» museografiche dove talvolta viene scardinato il
tradizionale concetto dell’edificio funzionale e armonioso ma con risultanze
estetiche comunque notevoli: il museo Louisiana presso Copenhagen o quello di
Mönchengladbach in Germania, entrambi inseriti magistralmente nel paesaggio
circostante, ne sono un valido esempio. Lo stesso purtroppo non si può dire
dell’attività museografica in Italia, ferma alle positive ma ormai «storiche»
esperienze del dopoguerra di architetti quali Albini a Genova, Scarpa a Palermo
e Verona, Belgioioso, Peressutti, Rogers a Milano, Gardella, Michelucci, Morozzi
e Scarpa agli Uffizi, Pancaldi a Bologna. In Italia, in effetti, esiste una
peculiare concezione del museo in cui prevale il tema della relazione tra
ambiente storico da restaurare (la quasi totalità delle p e musei sono allogati
in edifici monumentali) e opere d’arte da esporre. Ciò comporta forti
condizionamenti con scarse possibilità di azione progettuale. A parte il nuovo
assetto del Museo civico di Pistoia, il Museo Burri a Città di Castello e
l’allestimento del castello di Rivoli, presso Torino, per l’arte contemporanea,
molti degli interventi degni di nota sono fermi alla fase progettuale: si pensi,
per fare ancora degli esempi, alla Nuova Brera a Milano, al Centro per l’arte
contemporanea a Prato in fase di completamento, al riordinamento della Galleria
Civica d’Arte Moderna di Torino e al progetto del «Museo diffuso» a Bologna. Si
può dunque essere d’accordo con chi di recente ha affermato che la museologia
italiana «pensa piú di quanto costruisca».