5/13/2020

Pinacoteca

L’uso di raccogliere dipinti in collezioni sia pubbliche che private è ben documentato nel mondo greco e romano. In età classica, preziose raccolte di pittura, oltre che di scultura, vantavano quasi tutti i maggiori santuari della Grecia: si trattava per lo piú di doni votivi che, accumulatisi con il passare del tempo insieme a centinaia di altri oggetti, a poco a poco avevano trasformato questi complessi di culto in veri e propri musei, come attesta ad esempio in età augustea Strabone, a proposito dell’Heraion di Samo: «... un santuario antico e un grande tempio, che ora è una pinacoteca; oltre alle numerosissime opere al suo interno, vi sono altri edifici ed edicole, pieni anch’essi di antiche opere d’arte» (Geografia, XIV, 1.14). Una p esisteva ad Atene nell’ala settentrionale dei Propilei, l’ingresso monumentale all’Acropoli: era un vasto ambiente, intensamente illuminato da finestre rivolte a mezzogiorno, in cui si conservavano pitture di soggetto mitologico (Ratto del Palladio, Sacrificio di Polissena, Perseo vincitore di Medusa) e anche di soggetto storico (Alcibiade vincitore a Nemea), come apprendiamo dall’elenco che ce ne ha lasciato Pausania nel sec. II d.C. (Periegesi, I, 22.6-7). Secondo alcuni studiosi, la p sarebbe stata progettata direttamente dall’architetto Mnesicle all’epoca della ristrutturazione periclea dell’Acropoli, e risalirebbe pertanto già al sec. X a. C. Secondo altri, invece, l’idea di p, e piú in generale quella di museo, presuppongono la considerazione delle opere d’arte come beni in se stessi, da studiare e apprezzare per il loro valore intrinseco, anche a prescindere dal soggetto o dal contesto originario: una considerazione che si affermò piú tardi, in piena età ellenistica, per cui soltanto a quest’epoca sarebbe lecito far risalire con certezza le prime raccolte d’arte, nel senso moderno del termine, compresa quella dei Propilei.


Collezioni di dipinti di varia epoca esistevano presso le corti dei sovrani ellenistici: ad Antiochia, ad Alessandria e a Pergamo, il cui re Attalo II, in una vendita all’asta di prede di guerra, non esitò a sborsare la cifra astronomica di 600 ooo denari per un quadro di Aristide raffigurante Dioniso, mettendo per questo in allarme il console romano Lucio Mummio – la cui ignoranza in campo artistico da allora divenne proverbiale – il quale, meravigliatosi del prezzo e sospettando che in quell’opera fosse riposta una qualche virtú magica a lui sconosciuta, fece annullare la vendita e dedicò il quadro nel tempio di Cerere, a Roma. Secondo Plinio (Naturalis Historia, XXXV, 24) fu questa la prima pittura «straniera» esposta nell’Urbe, seguita ben presto da moltissime altre che i Romani, contagiati dalla passione collezionistica dei principi ellenistici, cominciarono a raccogliere con sempre maggior interesse. Le conquiste militari e la supremazia economica consentirono loro di far affluire a Roma, a partire dal sec. II a. C., gran parte dei capolavori custoditi nelle raccolte del mondo greco, portati in trionfo dai generali vittoriosi e destinati ad arricchire le collezioni ospitate nei templi e nei portici della città, o esibite come prestigioso status symbol nelle lussuose dimore dei patrizi. Alla fine della Repubblica erano una quantità gli edifici pubblici di Roma trasformati di fatto in gallerie d’arte: i portici di Ottavia e di Filippo (che ospitava, tra gli altri, un quadro raffigurante un Personaggio con scudo di Polignoto e l’Elena di Zeusi), il portico di Pompeo (con l’Alessandro di Nicia e un Sacrificio di buoi di Pausia), i templi del Divo Giulio (Afrodite Anadyomène di Apelle), di Apollo Sosiano (pitture di Aristide Tebano), di Venere Genitrice (Aiace e Medea di Timòmachos di Bisanzio), di Augusto (Giacinto e Danae di Nicia) e piú tardi il tempio della Concordia (famoso, oltre che per il Dioniso di Nicia e il Marsyas religatus di Zeusi, anche per la collezione di sculture greche del periodo post-lisippeo, che vi fece esporre l’imperatore Tiberio, grande amante dell’arte ellenistica) e quello della Pace (Scilla di Nikòmachos e Ialysus di Protogene).

Sull’esempio di Lucullo (stando a Varrone, De re rustica, I, 2.10, e Plutarco, Vita di Lucullo, 39), nel sec. I a. C. si diffuse sempre piú anche il gusto per le raccolte private, il cui incremento nel giro di pochi decenni fu tale da suscitare la reazione indignata di Marco Agrippa, genero di Augusto, che in un’orazione sostenne l’opportunità di restituire al pubblico godimento i quadri e le statue piú importanti, «esiliate», a suo dire, nelle case e nelle ville (salvo poi acquistare per sé dai Ciziceni un Aiace e una Venere per oltre un milione di sesterzi: Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 26). Una posizione contraddittoria nei confronti delle raccolte di quadri fu quella di Plinio, che non condannò categoricamente il fenomeno – il XXXV libro della sua Storia Naturale dimostra che egli fu un assiduo frequentatore delle p – considerandolo però sintomatico del declino della pittura ai suoi tempi, in cui si ammiravano le opere degli antichi, ma si era incapaci di crearne di nuove.

Tra le tante collezioni private, celebri furono quella di Verre, che oltre alle sculture aveva razziato una quantità notevole di dipinti durante gli anni del suo mandato in Sicilia, e quella dell’oratore Ortensio, che comprò per ben 144 000 sesterzi Gli Argonauti di Cydias e nella sua villa di Tuscolo fece costruire un ambiente apposito per esporre la tavola (Plinio, Naturalis Historia, XXXV, 130). Vi furono poi le collezioni imperiali, a cominciare da quella di Augusto, che nella sua casa sul Palatino custodiva il celebre quadro su cui Protogene e Apelle avevano fatto a gara nel tracciare la linea piú sottile, e da quella di Tiberio, che poteva vantare un’Atalanta e Meleagro e un Archigallus di Parrasio. Sull’attenzione che Caligola dedicò alla quadreria imperiale, studiando personalmente nella sua dimora sull’Esquilino l’ambiente adatto per sistemare le pitture – anche a costo di trascurare per questo i suoi doveri d’imperatore – siamo informati da un gustoso episodio riferito, con evidente costernazione, da Filone, venuto a Roma dalla lontana Alessandria con un’ambasceria: «[L’imperatore] si precipitò di corsa nella sala grande, ne fece il giro e ordinò che le finestre tutt’intorno fossero restaurate con lastre di pietra trasparenti come il vetro. Poi si fece avanti con calma e chiese in tono moderato «Che cosa stavate dicendo?», ma quando cominciammo ad esporre la nostra argomentazione si precipitò in un’altra stanza, dove ordinò di appendere i quadri antichi». Nel 153 d. C. un’epigrafe menziona inoltre due funzionari addetti alla p imperiale, Flavio Apollonio, procurator dell’imperatore Antonino Pio a pinacothecis, e Capitone, liberto imperiale e suo assistente (C.I.L., VI.10234).

Sulla disposizione interna delle p siamo informati da Vitruvio, che nel suo De architectura consigliava di esporre le pitture in ambienti appositamente costruiti, concepiti come sale con portici e sedili, aperte a settentrione – contrariamente alla P di Atene – in modo che l’illuminazione fosse moderata e costante e i raggi del sole non giungessero mai direttamente sui dipinti, rischiando di rovinarli (De architectura, VI, 4.1; I, 2.7). I quadri erano appesi alle pareti entro cornici che possiamo immaginare simili a quelle con modanature geometriche e decorazioni floreali e animali che bordano i mosaici di Pella e il mosaico con la Battaglia di Alessandro e Dario dalla casa del Fauno a Pompei, o che compaiono sulle pitture parietali romane. Talvolta i dipinti piú delicati erano protetti da sportelli che ruotavano lateralmente su cerniere, come nei trittici della tradizione tardoantica e medievale. Ad informarci dell’esistenza di tavole munite di due e perfino quattro ante pieghevoli non sono soltanto le pitture pompeiane, ma anche gl’inventari dei beni del santuario di Delo, che menzionano espressamente «quadri con sportelli», segnalandone addirittura lo stato di conservazione (integro, privo di un’anta, mancante di entrambe gli sportelli).

Piú difficile è ricostruire l’ordinamento delle opere all’interno di una p. La descrizione di una collezione di Napoli, o forse di Pozzuoli, che ci ha lasciato Petronio nel Satyricon (83), è infatti troppo sommaria per trarne indicazioni sicure: per di piú, il generico riferimento a quadri di Zeusi, Protogene e Apelle, i massimi artisti greci, i cui nomi erano noti a tutti, appare troppo scontato per non dar adito al sospetto che si tratti di un espediente letterario – cui Petronio ricorre per esprimere le sue considerazioni sulla decadenza della pittura ai suoi tempi – piuttosto che della descrizione di quadri realmente esistenti.

Completamente diversi sono invece i due libri di Eikònes (Immagini) in cui Filostrato maggiore descrisse, nei primi decenni del sec. III d. C., una p posta in un sobborgo poco fuori di Napoli. Il suo resoconto è così puntuale da aver permesso agli studiosi di ricostruire il percorso dell’esposizione, allestita in un portico di quattro o cinque piani, rivestito di splendidi marmi e prospiciente il mare. Apprendiamo così che i sessantaquattro quadri, di diversi autori, erano ordinati per grandi temi: una prima sezione era dedicata alle personificazioni dei fiumi, dallo Scamandro al Nilo, e raccoglieva episodi come Poseidone che insegue Amymone o Fetonte che precipita nell’Eridano; Dioniso era protagonista della seconda sezione, che iniziava con la nascita del dio, cui seguivano le sue nozze, il castigo di Penteo e dei pirati tirreni e numerosi altri episodi, fino alla creazione del vino per il bene dell’umanità; soggetto della terza sezione, dedicata a Venere, era l’esaltazione del potere dell’amore, mentre ai miti sulle origini del mondo e alle vicende di Eracle erano dedicate le ultime due sezioni della raccolta. (mlg).

In epoca medievale e moderna il termine p fu usato raramente a causa della persistente connotazione universalistica del collezionismo. Non si raccoglievano, come è noto, solo dipinti ma anche statue antiche e moderne medaglie e altre testimonianze storiche e artistiche, oggetti preziosi, rari, curiosi, strumenti scientifici, specimen minerali, animali e vegetali, ecc.: i cosiddetti naturalia et artificialia. Troviamo quindi usati piú frequentemente i termini di «studio», «studiolo», «cabinet», Wunderkammer, «galleria» o «museo». Non è certo un caso che perfino in epoca contemporanea la voce p sia assente o quasi dai dizionari e dalle enciclopedie e sia spesso rinviata a quella onnicomprensiva di «museo».

Nel fare la storia della p non si può dunque prescindere dalla storia del museo e in genere del collezionismo. Una delle prime collezioni comprendenti una p fu quella del vescovo di Como Paolo Giovio il quale, tra il 1520 e il 1552, riuní nel suo palazzo una serie di ritratti di «uomini illustri» (principi, papi, condottieri, poeti, artisti, dotti, ecc.), con un intento documentario e celebrativo e non artistico. Essa costituì un famoso e imitato modello per altre collezioni di ritratti.

Il termine p fu assimilato ben presto a quello di «galleria». La «galleria» infatti, nata per identificare in un palazzo privato un portico adibito al passeggio, divenne in seguito la sede canonica per l’esposizione di opere d’arte, principalmente sculture. Tra le prime testimonianze si può citare fuori d’Italia quella dell’Antiquarium di Alberto V di Baviera a Monaco (1570-90) e in Italia la galleria del Palazzo Ducale di Mantova (1570 ca.), quella «degli Antichi» a Sabbioneta (1583-84), o quella degli Uffizi (1581-87). Quest’ultima fu la prima aperta al pubblico, anche se si trattava pur sempre di una élite di eruditi, artisti o conoscitori.

Bisogna attendere gli inizi del sec. XVII per vedere utilizzato il termine p o il suo sinonimo «quadreria» nel senso di un ambiente adibito esclusivamente alla esposizione di pitture. P venne usato dallo Scamozzi nel 1615 nel senso etimologico, quando egli si occupa delle case degli antichi romani; dal pittore David Teniers il Giovane a proposito della collezione di Leopoldo Guglielmo e dal Sandrart nella sua Teutsche Académie (1683) per indicare la sala grande dei quadri della collezione Giustiniani. Nel Seicento, piú in generale, il primitivo collezionismo eclettico, in cui le opere d’arte antica e moderna erano mescolate alle curiosità e agli oggetti bizzarri, tende a stabilizzarsi verso linee monotematiche, con la predilezione per le pitture o le sculture, che già nella Galeria del Marino (1619) costituiscono le due sezioni fondamentali, cosí come nella raccolta di epigrammi di G. M. Silos (1673) che si intitolerà Pinacotheca.

Le prime grandi p si formarono all’interno delle collezioni che, presso le principali corti europee, si cominciarono ad allestire a partire dalla seconda metà del sec. XVI. Tra le maggiori si possono menzionare quella di Carlo I Stuart a Londra, di Leopoldo Guglielmo di Asburgo a Bruxelles (poi donata all’imperatore Leopoldo I di Vienna), di Rodolfo II di Boemia a Praga (finita quest’ultima a Gustavo Adolfo e Cristina di Svezia), di Vincenzo I Gonzaga a Mantova (venduta da Vincenzo II in buona parte a Carlo I Stuart e successivamente dispersa tra le piú famose collezioni europee), di Filippo III e Filippo IV di Spagna, di Ferdinando di Asburgo arciduca del Tirolo, di Luigi XIV di Francia, di Cosimo I e Francesco I dei Medici a Firenze, di Alberto V e Massimiliano I di Baviera. Si tratta in genere di raccolte di dipinti dei maggiori artisti del rinascimento e contemporanei, con particolare attenzione ai maestri italiani, tedeschi e fiamminghi. Accanto alle collezioni delle casate regnanti in tutta Europa, nate soprattutto per ragioni di affermazione del prestigio dinastico, si formarono altre raccolte presso le piú importanti famiglie nobili che, soprattutto a Roma, hanno lasciato una tangibile testimonianza: ad esempio la Doria-Pamphilj, la Borghese, la Colonna, la Barberini, la Pallavicini-Rospigliosi, la Chigi, la Mattei, la Ludovisi, la Sacchetti, ecc.

Altre p, di personaggi meno rappresentativi della politica e della gerarchia religiosa, nonché di medici, avvocati, commercianti, ma non per questo meno significative, costituirono la premessa per futuri nuclei museografici di altrettanta primaria importanza. Per restare in ambito romano si possono ricordare le collezioni del marchese Vincenzo Giustiniani e dei cardinali Aldobrandini, Francesco Maria Del Monte e Bernardino Spada. Nel caso dei collezionisti ora citati, oltre le ragioni di prestigio e di investimento economico, erano soprattutto le reali capacità di apprezzamento delle opere d’arte che li spingevano ad acquistare dipinti o altri oggetti d’arte.

Il carattere privato delle p concorre a spiegare, all’inizio, il disinteresse dei collezionisti di quadri secondo quei criteri logici o sistematici, che già nel corso del sec. XVIII cominceranno ad essere adottati e richiesti. I quadri occupavano spesso la totalità della superficie delle pareti in un intento puramente decorativo e secondo una partizione per generi che prescindeva da valutazioni storiche o critiche. Giulio Mancini, medico di Urbano VIII ma «dilettante» e «amatore» d’arte, nelle sue Considerazioni sulla pittura (1620) suggerì qual genere fosse piú opportuno esporre nelle sale di rappresentanza, quale nelle stanze da letto, e cosí via. I dipinti di J. Bruegel il Vecchio, F. Francken II e D. Teniers il Giovane offrono una testimonianza degli allestimenti di p nel sec. XVII. Tali esposizioni «decorative» si manterranno anche nel secolo successivo, come è documentato ad esempio dal dipinto del Panini raffigurante la p del cardinale Silvio Valenti Gonzaga (1749) o dalle stampe illustranti l’allestimento della Stallburg di Vienna nel 1735. Tra le molte p che conservano fondamentalmente l’assetto originario settecentesco si può ricordare la Bildgalerie di Potsdam (1755-63) nella residenza reale di Sans Souci di Federico II di Prussia.

Con il Settecento si comincia a rendere pubbliche alcune collezioni. Molte p furono annesse alle Accademie artistiche con la funzione di ausilio per gli artisti. Tra queste possiamo ricordare la Pinacoteca Capitolina, fondata nel 1748 da Benedetto XIV accanto alla Scuola del nudo, e la piccola raccolta Zambeccari donata all’Accademia Clementina di Bologna nel 1762, primo nucleo della futura Pinacoteca Nazionale, quest’ultima riordinata con quelle di Brera e di Venezia in epoca napoleonica. Fuori d’Italia si può ricordare a Parigi la sistemazione di un consistente nucleo di quadri di proprietà reale nel palazzo del Lussemburgo (1750). Ed è di pochi anni dopo (1765) la voce Louvre nella Encyclopédie di Diderot, dove si propose di trasformare la Grand Galerie del Louvre in p coi dipinti delle collezioni reali. Il progetto, attuato a partire dagli anni ’80, fu completato nel 1810 sotto Napoleone.

Il sec. XVIII vedrà nascere i primi grandi musei destinati alle sole opere pittoriche, esposte secondo criteri storici, nel nuovo clima culturale d’impronta illuminista: la p di Pommersfelden in Franconia, di Düsseldorf, di Kassel, di Schleissheim presso Monaco, di Dresda, dove affluirono nel 1746 un centinaio di dipinti del duca Francesco III di Modena, sono vari esempi di una tendenza generalizzata in tutta Europa. Nel 1734 il Builder’s Dictionary riportava la voce Disposition of Pictures con tredici regole per la collocazione dei quadri nelle p. Negli anni ’70-80 del secolo si hanno i primi esempi di allestimento sistematico di p: la Galleria Elettorale di Düsserldorf fu curata da L. Krahe con la collaborazione di Ch. von Mechel che ne pubblicherà il catalogo illustrato (1778). Tale catalogazione scientifica fruttò al von Mechel l’incarico dell’allestimento della p nel castello del Belvedere di Vienna, dove il criterio sistematico distingueva, con sorprendente visione moderna, le varie aree geografiche di provenienza dei quadri. Le cornici recavano il cartellino col nome dell’artista e il numero d’inventario rispondente a quello del catalogo illustrato, edito nel 1784.

Il concetto di proprietà pubblica delle collezioni d’arte e delle opere pittoriche prenderà piede solo dopo la Rivoluzione francese. A partire dall’età napoleonica si formarono le grandi p nazionali nelle principali capitali europee (a Milano Brera, a Madrid il Prado, ad Amsterdam il Rijksmuseum, a Napoli il Palazzo degli Studi, ecc.). Con la restaurazione i principali monarchi europei seguirono l’esempio napoleonico di formare musei pubblici distinti dalle dimore principesche, determinando il sorgere di una specifica architettura museale. Ciò fece nascere soprattutto in Germania nuovi edifici destinati esclusivamente a dipinti come l’Alte Pinakothek di Monaco dell’architetto Leo von Klenze, prototipo fortunato per altre p e musei europei dell’Ottocento, quali la Neue Pinakothek, sempre a Monaco (1846-52), il Nationalmuseum di Stoccolma (1847-66), lo Städelsches Kunstinstitut a Francoforte (1874-78), la Gemälde Galerie di Dresda (1847-55), il Kunsthistorisches Museum di Vienna (1872-81), le gallerie di Kassel (1871-77) e Braunschweig (1883-87). A Berlino fu realizzata addirittura una National Galerie (1867-1876), per i dipinti del sec. XIX.

Seguire la storia delle nuove p nell’Ottocento è difficile in quanto spesso si trattò di progettazioni museali che prevedevano l’esposizione non solo di pitture ma anche di sculture, sulla spinta dell’indirizzo enciclopedico e idealistico inaugurato dal Louvre che riconosceva al museo, al tempo stesso, sacralità, funzioni educative e prestigio politico. È il caso, ad esempio, dell’Altes Museum di Berlino (1825-30) progettato da K. F. Schinkel per sistemare gli acquisti della collezione Giustiniani (1815) e Solly (1821) o del nuovo Ermitage a San Pietroburgo (1842-1851) di L. von Klenze. Von Klenze fu con Schinkel il piú importante architetto museografo del tempo, accanto a G. Semper. A Monaco i dipinti furono divisi per epoche, stile e scuole, mentre nell’Altes Museum di Berlino si usò per la prima volta il concetto della bipartizione, esponendo nelle sale principali solo i capolavori e relegando in ambienti separati i dipinti considerati di minore interesse. Schinkel disegnò anche le cornici in stile per i dipinti e considerò elemento principe della raccolta i quadri del tardorinascimento. Anche in Inghilterra si affermerà il concetto della bipartizione, attuato nella National Gallery (1831-38), la prima p reale inglese costituitasi dopo la dispersione della collezione di Carlo I Stuart. Tale concetto sarà il primo passo verso l’affermazione dell’aspetto educativo dell’arte e delle p.

In Italia un fenomeno tipico è quello della formazione di nuclei pubblici di dipinti a seguito della soppressione delle congregazioni e ordini religiosi (1866), cosí come era avvenuto dopo la rivoluzione. Per evitare la dispersione di questo immenso patrimonio gli enti pubblici locali e le Accademie di belle arti incamerarono oggetti d’arte provenienti da chiese e conventi soppressi che andarono a costituire con altri materiali le raccolte locali. I musei locali rappresentarono per la società del tempo il «salotto buono», il luogo della memoria, ma furono anche luogo di «deportazione» di testimonianze non piú vive perché separate per sempre dal loro contesto originale. Paradossalmente, le grandi concentrazioni risultarono dannose in quanto misero in ombra l’istanza di conservazione globale del patrimonio storico-artistico, che fin dal 1815 in Francia aveva avuto il suo piú lucido sostenitore in Quatremère de Quincy.

Se la bipartizione ottocentesca fu intesa solo come selezione di capolavori a scapito della documentazione dei «contesti», gli studi museologici del sec. XX e l’influenza della visione educativa del museo, propugnata in primo luogo in area americana, determinarono nuove posizioni e atteggiamenti che si concretizzarono nel progetto di nuovi edifici e di nuovi allestimenti. Già Goethe nel 1821 e Prosper Mérimée nel 1849 avevano consigliato di diradare la sequenza dei quadri sulle pareti per far aumentare l’attenzione dei visitatori e permettere loro l’acquisizione di maggiori e migliori conoscenze. Nel Museum of Fine Arts di Boston (1909) la bipartizione fu unita a un rigorismo espositivo che portò a ridurre a una sola fila i quadri su pareti dipinte con toni chiari. Criteri di selezione espositiva furono presenti anche nel Museo di Hartford (1934), nel Boymans di Rotterdam (1935) e nella National Gallery di Washington (1941).

Il ritorno alla rigida partizione per generi artistici con una scelta qualitativa rigorosissima dei dipinti da esporre portò al «funzionalismo» museografico, per una comunicazione immediata e senza interferenze del messaggio estetico. L’esito fu però infelice in quanto la freddezza e la «neutralità» del sistema espositivo potevano influire negativamente sui visitatori, tanto che esempi come il Boymans di Rotterdam furono soprannominati «musei clinica» o «musei laboratorio». In risposta alla bipartizione W. Bode sperimentò a Berlino nel 1904 gli «insiemi d’epoca», riunendo in un’unica sala oltre i quadri anche sculture, mobili e arredi dello stesso periodo e stile. Tale concetto espositivo venne ripreso negli Stati Uniti a partire dal Pennsylvania Museum di Philadelphia (1928), andando però oltre le suggestioni degli «insiemi d’epoca», con ricostruzioni dette period rooms. Esse trovarono un largo consenso di pubblico e furono riproposte in altri musei americani ma prestarono il fianco a pesanti critiche. Principalmente si obiettò che la presentazione promiscua delle opere d’arte poteva suscitare nel visitatore una disattenzione verso i valori formali delle singole opere. Inoltre in alcuni casi si ricorse, in assenza di originali, a oggetti ricostruiti in stile.

Tra queste due linee di tendenza si articolerà il dibattito (museologia) nel periodo antecedente l’ultima guerra mondiale che sfocerà con A. Dorner nella perdita da parte del museo e della p del riconoscimento di valori universali: non piú «tempio dell’arte» statico e immutabile – cui faceva riferimento la stessa architettura museale, quasi sempre in stile neoclassico – ma strumento dinamico di conoscenza legato al proprio momento storico. Esempi di questa nuova concezione espositiva saranno gli allestimenti del Museo provinciale di Hannover (1923-24) e del Museo della Rhode Island School di Providence (1938), ideati dal Dorner e definiti musei «di atmosfera», in quanto si favori l’immaginazione del visitatore con la presentazione di riproduzioni di complessi monumentali della stessa epoca delle opere esposte.
L’antichità classica

L’evoluzione della produzione e delle tecniche artistiche contemporanee e la ripresa di un collezionismo eclettico hanno determinato di fatto nell’ultimo dopoguerra la fine delle p intese nel senso stretto del termine. Le p di arte antica trovano sede, tranne le eccezioni italiane, nei grandi musei nazionali. Recentemente, però, un edificio è stato realizzato ex novo per ospitare la Neue Pinakothek di Monaco di Baviera (1981), di A. F. von Branca, dedicata soprattutto alla pittura del romanticismo e del realismo del sec. XIX. Per le p e le collezioni d’arte contemporanea sono stati costruiti piú di frequente nuovi edifici. Esempi «storici» sono la Neue Nationalgalerie di Berlino progettata da M. van der Rohe (1962-68), tra i primi tentativi – con la Cullinan Hall di Huston – di museo «flessibile» e «integrato», e il Solomon R. Guggenheim Museum di New York (1959) di F. L. Wright, al contrario, opera chiusa e condizionata al massimo dal progetto architettonico, tanto da avere in corso un progetto di ampliamento. Un’altra importante collezione mista d’arte francese del sec. XIX è stata allestita nel Museo d’Orsay (1987) di Parigi. Il progetto di G. Aulenti ha inglobato, tra l’altro, la raccolta dei dipinti degli impressionisti del Jeu de Paume.


Tra i numerosi ampliamenti di antiche p si possono citare a titolo esemplificativo quelli della National Gallery di Washington di I. M. Pei (1978), della Neue Staatsgalerie di Stoccarda (1982) e della Tate Gallery (1987) entrambi di J. Stirling e M. Wilford, dello Städelsches Kunstinstitut di Francoforte (1990) di G. Peichel, della National Gallery di Londra (1991) di R. Venturi e D. Scott Brown & Ass.: complesse tecnologie costruttive e stilemi architettonici ispirati a varie correnti, dal modernismo tecnico al postmoderno, si assemblano in soluzioni sempre originali. Si tratta quasi sempre di efficienti «macchine» museografiche dove talvolta viene scardinato il tradizionale concetto dell’edificio funzionale e armonioso ma con risultanze estetiche comunque notevoli: il museo Louisiana presso Copenhagen o quello di Mönchengladbach in Germania, entrambi inseriti magistralmente nel paesaggio circostante, ne sono un valido esempio. Lo stesso purtroppo non si può dire dell’attività museografica in Italia, ferma alle positive ma ormai «storiche» esperienze del dopoguerra di architetti quali Albini a Genova, Scarpa a Palermo e Verona, Belgioioso, Peressutti, Rogers a Milano, Gardella, Michelucci, Morozzi e Scarpa agli Uffizi, Pancaldi a Bologna. In Italia, in effetti, esiste una peculiare concezione del museo in cui prevale il tema della relazione tra ambiente storico da restaurare (la quasi totalità delle p e musei sono allogati in edifici monumentali) e opere d’arte da esporre. Ciò comporta forti condizionamenti con scarse possibilità di azione progettuale. A parte il nuovo assetto del Museo civico di Pistoia, il Museo Burri a Città di Castello e l’allestimento del castello di Rivoli, presso Torino, per l’arte contemporanea, molti degli interventi degni di nota sono fermi alla fase progettuale: si pensi, per fare ancora degli esempi, alla Nuova Brera a Milano, al Centro per l’arte contemporanea a Prato in fase di completamento, al riordinamento della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino e al progetto del «Museo diffuso» a Bologna. Si può dunque essere d’accordo con chi di recente ha affermato che la museologia italiana «pensa piú di quanto costruisca».