5/13/2020

Rinascimento

La parola r compare già nel Vasari (Vita di Jacopo di Casentino), ma si afferma e si diffonde nella storiografia artistica italiana solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando viene scelta per tradurre o discutere il concetto francese, e poi tedesco e inglese, di renaissance. In precedenza venivano preferite parole diverse, come «risorgimento» o «rinascita», espressione, quest’ultima, su cui era stato calcato del resto lo stesso termine francese renaissance. Si tratta di un insieme di parole sostanzialmente affini, che affondano le loro radici nello stesso periodo o movimento storico cui intendono riferirsi. La coscienza di appartenere a un’«età nuova», succeduta alla lunga parentesi medievale come un ritorno agli ideali dell’antichità, costituisce il tratto piú caratteristico del r inteso come fenomeno culturale.


Il problema delle origini.

Per quanto riguarda la pittura, il primo accenno di questa coscienza si ha in un celebre passo del Boccaccio relativo a Giotto (Decameron, VI, 5). Interpretando la pittura come imitazione della natura, Giotto ha «ritornata in luce» un’arte che sembrava sepolta da secoli. Dal Cennini al Ghiberti, dal Vasari al Lanzi questo giudizio del Boccaccio rintocca in tutta la possente tradizione critica che vede in Giotto l’eroe del r. È solo nell’Ottocento, significativamente con un sottile interprete dell’architettura come il Burckhardt (nuova edizione della Geschichte der Malerei del Kugler; Der Cicerone), che Giotto viene associato a una categoria storiografica nuova, vale a dire il «gotico italiano». Spetta allora a Masaccio il titolo di vero padre del r. Questa periodizzazione ottocentesca è stata ampiamente accolta presso gli studiosi piú recenti, con forti resistenze solo in ambito inglese e americano. Essa presenta indubbi vantaggi di precisione descrittiva, ma si scontra con il senso originario delle parole e solleva singolari problemi di metodo. Cosí, quando Giotto propone una soluzione pittorica particolarmente spinta in senso realistico, si parla di «precorrimenti» e «anticipazioni» di Masaccio. Piú corretto ammettere col Vasari che la vera «rinascita» della pittura fa perno su Giotto, e che Masaccio, definito un giorno dal Berenson «Giotto born again», realizza piuttosto una «nuova rinascita».

In effetti, per chi percorra mentalmente la lunga vicenda della pittura medievale, l’opera di Giotto si presenta tra Due e Trecento come una rottura insanabile, che dialoga infinitamente meglio con i secoli a venire che con qualsivoglia pittore precedente. Senza entrare qui nel merito dei debito di Giotto con Cimabue o con l’ambiente romano, basti pensare alla radicale novità di statuto che caratterizza ogni centimetro quadrato delle Storie di san Francesco nelle Basilica Superiore di Assisi. Il piano pittorico è diventato il luogo di una convincente rappresentazione della realtà tridimensionale. Le figure possiedono peso e spessore, gli elementi architettonici avanzano e arretrano nello spazio in sostanziale accordo con le leggi della visione. Per la prima volta dopo molti secoli la storia sacra non è solo la coscienziosa ripresa di uno schema iconografico consolidato, ma un fatto che avviene sotto i nostri occhi e che siamo invitati a valutare in base alla nostra esperienza visiva.

S’è discusso a lungo sulle cause della sbalorditiva rivoluzione di Giotto. Spiegazioni che tirano in campo lo spirito laico della borghesia cittadina o l’orientamento razionale della teologia scolastica rischiano di accostare tra loro elementi affatto eterogenei, la cui affinità è tale solo per gli studiosi moderni. Nella società cristiana medievale le immagini avevano una loro funzione religiosa e liturgica di cui va tenuto conto. Il Mâle che richiamato da tempo l’attenzione sul rinnovamento avvenuto in questo campo nel corso del Duecento, quando san Francesco non esitò ad inscenare a Greccio un presepio vivente. Il genio di Giotto può essere stato stimolato dal desiderio di emulare la forza di persuasione del dramma sacro o della realistica scultura gotica, cui oggi si preferisce pensare. Solo in sé ha trovato però la forza per distillare dagli scarsi residui dall’illusionismo antico presenti nella tradizione pittorica bizantina i mezzi per realizzare sul piano quello che altre arti possono realizzare con volumi e spazi reali.

«Nulla si truova insieme nato e perfetto», scriverà l’Alberti (De pictura, paragrafo conclusivo). Giotto squarcia il velo che separa la pittura dalla realtà, ma molte cose rimangono da fare al piccolo gruppo di artisti che in Toscana e in Umbria si mette sulla sua strada. Il Maestro delle Storie dell’infanzia di Cristo ad Assisi dipinge il primo soffitto con punto di fuga unico, Taddeo Gaddi e Pietro Lorenzetti tentano inediti effetti di luce, comprese le prime timide ombre portate di oggetti inanimati e piccoli quadrupedi. Con Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti e ancora Taddeo Gaddi è lo spettro stesso della realtà che s’allarga al ritratto individualizzato, al paesaggio, financo all’umile natura morta. È un’avventura esaltante, cui pone fine la peste nera di metà Trecento.

Il ruolo di guida passa allora all’Italia settentrionale, dove a testimonianza di Benvenuto da Imola (in margine a Dante, Purgatorio, XI, 94-96), secondo cui anche Giotto avrebbe fatto «magnos errores in picturis suis», sembra lasciar trasparire la consapevolezza precisa di quel progresso artistico in cui il Gombrich ha visto una delle forze trainanti della cultura rinascimentale. I grandi affreschi di Altichiero e Jacopo Avanzi, con gli scenari architettonici perfettamente assestati e i nimbi visti di scorcio da dietro, fanno intensamente pensare alle realizzazioni dei grandi maestri fiorentini del Quattrocento.

Già con Simone Martini, il pittore amato dal Petrarca, le conquiste visive di Giotto tendono tuttavia sempre piú a integrarsi entro una legatura ritmica e lineare di radice affatto diversa. È il problema che esploderà col cosiddetto gotico internazionale, quello stile ambiguo, diffuso in tutta Europa tra Tre e Quattrocento, in cui il realismo del particolare convive con schemi astratti di valore puramente decorativo. Gli studi del Toesca, dal Pächt e del Castelnuovo hanno dimostrato quanto il versante realistico di questo stile debba all’Italia. Per quanto gli schizzi di piante e animali presenti nei taccuini di Giovannino de’ Grassi e Michelino da Besozzo presuppongano senz’ombra di dubbio la capacità giottesca di rendere la terza dimensione, pretendere di inserirli tout-court nella storia della pittura rinascimentale sarebbe forse solo una questione di principio.

La pittura nel sistema delle arti

Quando Masaccio torna con nuovo vigore al programma di Giotto, il suo idolo polemico è infatti proprio il gotico internazionale. La «nuova rinascita» di Masaccio nel terzo decennio del Quattrocento mostra qui tutta la sua profonda affinità con la pittorica ars nova, contemporaneamente avviata nelle Fiandre da Jan van Eyck. Se il nemico da combattere è lo stesso, non meraviglia che anche le armi impiegate si assomiglino. Figure corpose, spazi reali, luce vera e ombre portate si sostituiscono tanto al Sud quanto al Nord ai ritmi favolosi e ai colori puri del gotico internazionale. La differenza tra la prospettiva scientifica italiana e il piú empirico «microcosmo» fiammingo non va certo sottovalutata, ma escludere totalmente quest’ultimo dall’ampio raggio del r sarebbe far torto a un artista come Antonello da Messina, che si muove con estrema coerenza dall’una all’altra cultura.

La prospettiva scientifica italiana è la creazione di uno scultore e architetto, Filippo Brunelleschi. Uno degli elementi che piú decisamente distinguono la «nuova rinascita» di Masaccio dall’ars nova di Jan van Eyck come dalla «rinascita» di Giotto è il rapporto affatto inedito che la pittura stabilisce con le arti sorelle. Nella Firenze del primo Quattrocento, come per primo vide Matteo Palmieri (Della vita civile), anche la scultura e l’architettura conoscono una loro vigorosa «rinascita». Oltre che «Giotto born again», Masaccio è amico e discepolo del Brunelleschi e di Donatello. Una umanità eroica, di timbro nobilmente statuario, vive nei suoi dipinti in uno scenario che adotta forme architettoniche «all’antica». Nella Cappella Brancacci queste definiscono lo stesso spartimento decorativo degli affreschi, e dopo la morte di Masaccio forniscono il modello pure per le cornici dorate di pale d’altare e quadri di devozione.

Come nel caso di Giotto, anche in quello di Masaccio l’impatto delle nuove conquiste visive non è univoco. Accanto ad artisti che portano avanti le ricerche del maestro, costruendo sulla salda base da lui apprestata, ve ne sono altri che si limitano ad innestare qualcosa dei nuovi interessi, delle nuove scoperte, sul vecchio tronco del gotico internazionale. Riconoscendo nei primi i protagonisti del vero r quattrocentesco, i secondi possono farsi rientrare in quel «r umbratile» che è stato finemente individuato dal Longhi. Si tratta di una corrente cospicua, rappresentata da artisti come Masolino o Antonio Vivarini, sulla quale la corrente «rivale» avrà la meglio solo dopo lunga lotta. L’eredità di Masaccio è dapprima legata a un piccolo gruppo di pittori fiorentini, tra i quali spiccano per altezza e originalità di risultati Paolo Uccello, il Beato Angelico e soprattutto Domenico Veneziano. Con Filippo Lippi e Andrea del Castagno essa s’impegna in un’insistita ricerca di movimento, alla cui base sta la sfida dello «stiacciato» e delle grandi statue di Donatello. Mentre questa tendenza prende sempre piú piede nella Firenze del Pollaiuolo e del Verrocchio, il lungo soggiorno di Donatello a Padova scatena la prima grande ondata del r quattrocentesco nell’Italia settentrionale.

Dal Crivelli al Tura, da Marco Zoppo al grande Andrea Mantegna un’intera generazione di pittori conosce i nuovi principî stilistici per il tramite eteroclito della scultura. I contatti giovanili con questo ambiente si stemperano nel Foppa in una verità di luce desunta da Donato de’ Bardi, in Giovanni Bellini in una unità di visione che il Longhi ha direttamente ricondotto alla cultura prospettica di Piero della Francesca. Grande ponte tra la Firenze di Masaccio e la Venezia di Giovanni Bellini, questo «monarcha de la pictura» costituisce uno dei piú alti momenti di sintesi dell’arte italiana. Il suo insegnamento è visibile in Melozzo da Forlí come nel Bramante pittore, in Francesco del Cossa come nel giovane Luca Signorelli. Bastano i pochi, celeberrimi nomi che si sono appena fatti per intendere come il r quattrocentesco non possa identificarsi con uno stile pittorico preciso. Esso è piuttosto descrivibile come un movimento artistico in divenire, aperto a tutti i contributi che non deroghino al corretto impianto prospettico e all’organica costruzione delle figure insegnati da Masaccio.

Quando questi requisiti sono rispettati, distinzioni come quella dell’Antal tra r e «gotico quattrocentesco», o quella dello Zeri tra r e «pseudorinascimento», sono utili solo per chi ne abbia ben chiara l’origine entro le categorie e gli interessi propri della critica d’arte otto e novecentesca. All’occhio moderno l’arte del Ghirlandaio appare piú realistica e quindi piú rinascimentale di quella del Botticelli, ma non è detto che succedesse lo stesso all’occhio di un fiorentino del Quattrocento. La realtà che i pittori erano chiamati a far rivivere era pur sempre historia, e a questo fine, come ha dimostrato il Warburg, la sciolta «ninfa» botticelliana poteva risultare anche piú convincente dell’impettita borghese ghirlandaiesca. Lo «stile ideale anticheggiante» costituisce in effetti uno dei tratti emergenti del r pittorico quattrocentesco. Sorto dal desiderio di far proprio il senso di vita e di moto che si ammirava nelle sculture antiche, esso rientra nella stessa prepotente ricerca di verosimiglianza che aveva portato alla conquista di uno spazio pittorico unificato. Il Pollaiuolo e il Mantegna, pertanto, non sono meno rinascimentali del Carpaccio o del Bergognone. Le loro figure «all’antica» mettono semmai in luce una preoccupazione dell’arte rinascimentale che sarebbe divenuta sempre piú importante col passar degli anni. Gli umanisti che avevano celebrato Giotto e Jan van Eyck in termini di un trompe-l’oeil ingenuamente pliniano auspicavano con crescente insistenza una pittura capace di far rivivere i temi antichi in forme visive coerenti. Può darsi che Panofsky e Saxl abbiano tracciato in maniera troppo lineare questo sviluppo, ma il fatto che negli ultimi decenni del Quattrocento i soggetti mitologici smettano le rigide vesti borgognone per adottare tuniche leggere o una disinibita nudità non può essere trascurato. È qui dopo tutto che scoppia la consapevolezza che esiste una profonda alterità tra l’Italia e il Nord.

Il «rinascimento dell’antichità» è riconosciuto da tutti come una peculiarità squisitamente italiana, alla quale si può sperare di pervenire da fuori solo mettendosi nell’atteggiamento docile e paziente dei discepoli. Prima di decidersi al suo giovanile viaggio veneziano, Albrecht Dürer aveva avuto tra le mani e diligentemente copiato alcune stampe d’ambito ferrarese-mantegnesco. Il crescente ruolo dell’incisione nella diffusione dell’arte rinascimentale dal secondo terzo del Quattrocento in avanti è inutilmente comparabile con quello della tipografia nella diffusione del sapere umanistico. Mentre però la stampa tipografica esaurisce tutte le implicazioni verbali del tradizionale manoscritto, l’incisione riduce in maniera drastica le potenzialità visive della pittura, adottando uno strumento meno flessibile del pennello e rinunciando completamente al colore. E tuttavia proprio la definizione albertiana della pittura come proiezione sul piano di un evento che ha luogo nello spazio consiglia di non dare un peso eccessivo alle contingenze tecniche. In una storia obiettiva del r pittorico quattrocentesco dovrebbero venir presi in considerazione non solo i ricami e le vetrate eseguiti su disegno dei pittori rinascimentali, ma anche quei prodigiosi tour de force prospettici che sono le tarsie dei grandi legnaioli fiorentini e padani.

Una «veramente felice età» e il suo lascito

Le aporie di una definizione stilistica troppo rigida del r si colgono nella maniera piú chiara studiando il rapporto tra il Perugino e Leonardo. Pressoché coetanei e usciti dalla stessa bottega, i due pittori presentano l’ennesimo caso di una sconcertante divergenza di esiti formali. Negare all’uno o all’altro la patente di rinascimentalità sarebbe un facile modo per tagliare la testa al problema di una corretta classificazione. Piú istruttivo è seguire le reazioni dei contemporanei, e vedere come i «dui giovin par d’etate e par d’amori» di Giovanni Santi ricompaiano nel Giovio come i rappresentanti di due fasi radicalmente diverse del r. Mentre il vecchio Perugino è in un certo senso un sopravvissuto a se stesso, Leonardo, che pure gli è premorto, ha aperto la via a quella che il Vasari chiamerà la «maniera moderna». È la «terza età» delle arti risorte, quella «veramente felice età» in cui la pittura, vinto il confronto con la natura e con gli antichi, sembra attingere ormai il suo zenit. La tentazione di liquidare tutto ciò come un mito è grande. Non si deve tuttavia sottovalutare la forza del mito, né dimenticare che prima del Vasari era stato lo stesso Leonardo a riconoscere in Giotto prima e in Masaccio poi i precursori del proprio programma artistico (Cod. Atlantico, 141a). Se Giotto aveva ricollegato tra loro pittura e realtà, se Masaccio aveva definito i mezzi obiettivi per catturare questa con quella, Leonardo si trovava nella posizione difficile di dover dire la sua a uno stadio tanto avanzato del discorso. Eppure seppe individuare nuovi problemi e nuove soluzioni per il «progresso dell’arte». Da un lato integrò in una maniera prima sconosciuta il linguaggio essenzialmente grafico dei «moti» entro le imprescindibili istanze tridimensionali del realismo. Dall’altro agganciò al rilievo sfumato e rotante cosí ottenuto la ricerca di una bellezza che non fosse puro ornamento, pura aggiunta di colori splendenti e gradevoli divagazioni lineari. Una nuova grandezza di forme, un’unità piú complessa e dinamica della composizione s’imposero ovunque come il marchio indelebile della «maniera moderna».

Ancora una volta lo storico è tenuto a iniziare il proprio resoconto da Firenze. È qui che, tra Quattro e Cinquecento, Michelangelo risponde alla sfida lanciata da Leonardo con una consapevolezza dei problemi e una volontà insieme di affermare il proprio genio che non si conoscono altrove. Il contrasto tra i due artisti è evidente, ma il giovane Raffaello, preceduto in parte da Fra Bartolommeo, coglie subito la possibilità di una sintesi fruttuosa. È cosí che si delinea quella che con il Wölfflin s’è convenuto di chiamare l’«arte classica del r». Il trasferimento di Michelangelo e Raffaello a Roma conferisce un tono nuovo a questo stile e in pochi anni trasforma la città dei papi in uno dei massimi centri d’arte di tutti i tempi. Confrontati con la volta della Sistina o con le Stanze, anche i dipinti piú alti di Andrea del Sarto mostrano che Firenze ha ormai perso il primato. Lo scarto s’aggrava con la generazione successiva, quando lo stile asciutto ed essenziale del Pontormo e del Rosso suona quasi come una sofferta dichiarazione di autonomia di fronte alla «facilità» di Raffaello e della sua scuola. Un’eccessiva insistenza sul concetto tipicamente moderno di «anticlassicismo» non rende giustizia né all’uno, né all’altro di questi orientamenti. La vicenda del senese Beccafumi mostra quanto fosse complessa la gamma delle alternative artistiche nell’Italia centrale del primo Cinquecento.

Spostandosi nell’Italia settentrionale, la cosa diviene, se mai possibile, ancora piú macroscopica. Il breve ma intensissimo corso di Giorgione non prepara solo Sebastiano del Piombo ad affrontare la Roma di Raffaello e di Michelangelo, ma rinnova l’intera tradizione pittorica di Venezia, aprendo la strada allo strepitoso affermarsi del «classicismo cromatico» di Tiziano. Mentre questo epocale rivolgimento suscita reazioni diverse in pittori come il Dosso, il Romanino o il Pordenone, altri artisti e altre tendenze pittoriche arricchiscono lo screziato panorama della «terraferma». Dal Lotto al Savoldo, dal Moretto al Moroni correnti venete e lombarde congiurano per fare del tratto tra Bergamo e Brescia una delle zone a piú alto tasso poetico dell’Italia cinquecentesca. Piú a ovest, tra la Lombardia e il Piemonte attuali, il Luini e Gaudenzio Ferrari mostrano gli esiti diversi dell’insegnamento di Leonardo e del Bramantino. Un abisso separa queste esperienze dall’emiliano Correggio, grazie al quale Parma acquista in pochi anni un ruolo di prima grandezza nella geografia della pittura italiana. Il soggiorno romano è per lui d’importanza capitale, e piú lo sarà per il suo conterraneo Parmigianino. Quando costui rientra al Nord, Giulio Romano a Mantova e Jacopo Sansovino a Venezia stanno già scuotendo le piú salde tradizioni locali. Importanti per lo stesso Tiziano, questi e altri contatti con l’arte dell’Italia centrale si riveleranno fondamentali soprattutto per il Tintoretto, Jacopo Bassano e il Veronese.

Pietro Aretino, il grande critico cinquecentesco che conosceva egualmente bene Roma e Venezia, non sentiva una sostanziale opposizione tra il «colore» di Tiziano e il «disegno» di Michelangelo. Il punto di vista può essere certamente discusso, ma l’unità di fondo della «maniera moderna» rimane un fatto storico incontrovertibile. Non è un caso che proprio nel corso del Cinquecento, in singolare coincidenza di tempi con la crisi del sistema politico italiano, una massiccia italianizzazione dell’Europa si sostituisca a quella piú selettiva e personale appropriazione di elementi italiani che aveva caratterizzato l’arte di un Fouquet o di un Pacher. In Ispagna come nei Paesi Bassi, in Francia come nell’Europa centrale l’arrivo di opere e di artisti italiani e la voga sempre piú imperiosa del viaggio di studio a sud delle Alpi finiscono con l’unificare un paesaggio pittorico precedentemente assai piú diversificato. Con l’unica grande eccezione del Bruegel, i pittori di successo del Cinquecento avanzato fanno a gara ovunque nello sfoggiare vistosi italianismi, che un pubblico sempre piú imbevuto di cultura umanistica identifica ormai con l’essenza stessa dell’arte. Se per questa fase della pittura europea si parla comunemente di «manierismo», l’impossibilità di concepire questo stile multiforme come un reale momento di rottura rispetto al r cinquecentesco dovrebbe risultare evidente.

Come ha dimostrato lo Shearman, i manieristi non intendevano combattere i grandi maestri del Cinquecento italiano, ma piuttosto far propria e possibilmente portare avanti quella «artifiziosità» in cui identificavano il loro maggior contributo. È solo quando questa «artifiziosità» viene chiaramente sentita in contrasto con lo scopo primario di rendere in maniera convincente la realtà che si erge uno steccato tra Raffaello e il Salviati, tra «apogeo» e «decadenza». Ritorno alla natura e ritorno ai classici cosí selezionati divengono allora i due strumenti complementari per uscire dal vicolo cieco di ciò che sembra ormai soltanto un «far di maniera». Per quanto l’opera congiunta del Caravaggio e dei Carracci apra un capitolo assolutamente nuovo nella storia della pittura occidentale, l’impatto su di essa dell’ideale rinascimentale di palingenesi e rinnovamento non può venir trascurato. Ancora per secoli i pittori del primo Cinquecento rimarranno un indiscusso paradigma di eccellenza, e ogni sviluppo ispirato alla natura o all’antichità, anche nei «secoli bui» del Medioevo orientale e occidentale, sarà interpretato dalla storiografia come «riforma», «rinascita» e «risorgimento».