I sei libri d’ore dipinti per il duca Jean de Berry tra il 1380 e il 1416
costituiscono il gruppo di manoscrittti più prestigiosi del Medioevo. Vengono
contraddistinti con le qualifiche che li designavano negli inventari ducali. Le
sei opere, assai diverse tra loro, riflettono la curiosità ed i successivi gusti
del duca, l’amatore più sagace del Medioevo, e costituiscono una silloge di
quaranta anni di storia della pittura in Francia, nel suo progredire verso la
conquista del realismo.
Miflard Meiss ne ha interamente riaggiornato la problematica, per quanto
riguarda sia la cronologia delle opere sia l’analisi dei vari artisti.
Très Belles Heures de Notre-Dame (Parigi, bn e Louvre; Torino, mc).
La storia di questo manoscritto è la più complicata. La sua illustrazione fu
commissionata da un primo, sconosciuto possessore, le cui armi vennero presto
abrase e sostituite da quelle del duca di Berry (Delaissé 1963), che può quindi
considerarsi il vero e principale committente dell’opera, che venne effettuata
in diverse campagne: la prima cominciò attorno al 1380 sotto la direzione di un
artista – dal temperamento più di pittore che di miniatore – che si è
identificato col Maestro del Paramento di Narbona. Autore della prima campagna
di illustrazione del manoscritto – comprendente otto grandi scene delle ore
della Vergine, l’officio dei morti, le orazioni per la Passione e le quattro
prime ore della Croce – quest’artista si rivela al corrente delle realizzazioni
italiane e boeme, ed introduce un sensibile progresso nella rappresentazione
realista dello spazio interno e dei personaggi,
attraverso una tecnica straordinariamente elaborata e ricca di variazioni
cromatiche. L’opera fu interrotta verso il 1385, forse dalla morte del pittore;
poi ripresa fu completata verso il 1405-406 da due nuovi artisti di formazione
fiamminga e renana, più interessati all’animazione del racconto ed alle ricerche
cromatiche, ma altresì influenzati da Jacquemart de Hesdin. L’illustrazione
delle Heures venne nuovamente sospesa; e verso il 1412, epoca nella quale Pol e
Jean Limbourg aggiunsero le ultime due miniature, il duca donò il manoscritto
incompiuto al proprio segretario, Robinet d’Etampes, il quale lo divise in due
parti; tenne la prima, terminata, per sé (Parigi, bn) e cedette la seconda,
incompleta, ad un principe di Baviera-Hainaut.
A tale seconda parte (nota col nome di Libro d’ore di Torino-Milano) furono
allora aggiunte le ultime miniature, talvolta attribuite ai van Eyck; essa fu
poi a sua volta smembrata in due frammenti: il Libro d’ore di Torino (Bibl.
Reale di Torino, bruciato nel 1904) e il Libro d’ore di Milano (già coll.
Trivulzio a Milano, poi mc di Torino).
Petites Heures (Parigi, bn).
Vennero realizzate presumibilmente in due campagne, l’una verso il 1375-80 e
l’altra tra il 1385-90, da almeno quattro artisti dalle personalità
profondamente diverse una dall’altra, ma operanti insieme. Chi diresse la prima
campagna di illustrazioni fu un pittore che aveva lavorato per Carlo V,
probabilmente Jean Le Noir, documentato al servizio del duca dal 1372 al ’75,
che appare «la reincarnazione di Pucelle» (Meiss) e rivela un gusto per
l’intensità drammatica e l’emozione che rende le sue miniature del ciclo della
Passione eccezionali per la fine del XIV sec. Accanto a lui compare un pittore
tecnicamente assai più avanzato, il giovane Jacquemart de Hesdin, che
sostituisce forse il vecchio maestro, nel frattempo scomparso. Più tranquillo e
meditativo, egli s’impegna soprattutto nell’espressione plastica e si dedica a
rendere lo spazio e il modellato mediante il colore e la luce, recuperando la
lezione dei trecentisti italiani. Gli altri due maestri (individuati anch’essi
nel magistrale studio di Meiss, 1967) appartengono alla generazione di
Jacquemart e ne seguono più o meno originalmente lo stile e le invenzioni. Le
Petites Heures segnano così una svolta tra due epoche nella storia degli esordi
della pittura francese.
Très Belles Heures (Bruxelles, Bibl. Reale, n. 11060).
Vennero dipinte verso il 1395-1400 da Jacquemart de Hesdin, autore di miniature
a piena pagina, unitamente ad un miniatore italiano, formatesi a Bologna o a
Padova, che eseguì le iniziali istoriate nel testo; una doppia pagina a mezza-grisaille,
più antica e riportata all’inizio del volume, è opera isolata di un grande
artista ignoto, attorno al 1390. Le Très Belles Heures sono il punto culminante
dell’italianismo nel Nord. Attorno alle sue miniature, Jacquemart elimina il
margine basso della pagina ed i testi per conferire alla «storia» a piena pagina
tutto il suo valore; essa diviene allora un vero e proprio quadro, semplicemente
incorniciato da racemi abitati, d’un realismo aggraziato, che predilige toni
delicati e la rappresentazione degli uccelli. Sulla scia dell’arte italiana del
Trecento, egli cerca di integrare meglio le sue figure entro lo spazio, ma vi
aggiunge un personale interesse per le risorse della luce, che ormai prevale sul
gusto della linea e sull’intento di nervosa narrazione della generazione
precedente. Il libro venne donato, prima del 1402, da Jean de Berry al fratello
Filippo l’Ardito, duca di Borgogna.
Grandes Heures (Parigi, bn).
Questo manoscritto, condotto a termine nel 1409, era il più lussuoso ed
ambizioso del gruppo, sia per il formato che per l’audacia delle miniature a
piena pagina, di dimensione mai raggiunta, e per l’opulenza insuperata nella
decorazione dei margini. Jacquemart de Hesdin era autore delle diciassette «grandes
histoires» perdute. Queste pagine piene di grande formato (oltre 40 x 30 cm)
vennero assai presto ritagliate dal libro per essere utilizzate come pitture
indipendenti: una Andata al Calvario (Parigi, Louvre) sembra l’unico conservato
di tali lavori eccezionali, che sviluppavano le tendenze del manoscritto
precedente e riuscivano a rivaleggiare con le autentiche pitture da cavalietto
per la dimensione e per la composizione più piena ed articolata. L’autore del
calendario e delle piccole pitture tuttora esistenti, lo Pseudo-Jacquemart (dal
nome col quale fu un tempo designato, in base a un documento mal interpretato,
confondendolo con l’autore dei dipinti grandi), è artista di secondo piano,
prolifico, rapido e conservatore, che di frequente ricopia composizioni di libri
precedenti creando qui una sorta di «antologia della miniatura francese »
(Thomas, 1971,1979), accattivante e vivace, data anche l’inusitata ricchezza di
drôleries lungo i bordi dei fogli, che assemblano motivi già presenti in Pucelle;
già comparso nell’illustrazione del calendario e delle vignette delle Petites
Heures, mantenne durante tutta la sua carriera presso il duca l’antica
tradizione di vivace calligrafia dell’epoca di Carlo V.
Belles Heures (New York, Cloisters).
Dette un tempo Heures d’Ailly, sono interamente opera dei fratelli Limbourg, e
primo lavoro conservato di tali artisti per il duca di Berry. Apportano nel
gruppo delle Heures caratteri
nuovi: lirismo, gusto della forma pura e dell’arabesco elegante, colori
cangianti, che ne fanno l’esempio più puro del gotico internazionale in Francia.
Datate tradizionalmente ca. 1410-1413, vanno invece retrodatate, grazie alle
ricerche di F. Avril e di M. Meiss, al 1407-408, datazione che corrisponde assai
meglio al loro linguaggio, tuttora impregnato della tradizione della Mosa, col
suo gusto delle forme espressive, delle masse semplificate e dell’accentuazione
del gesto, entro uno spazio tuttora assai limitato.
Questo codice, prestissimo celebre, venne riacquistato, alla morte del duca, da
Jolanda d’Aragona, duchessa d’Angiò. In seguito, molte delle sue composizioni
furono copiate, in particolare dal Maestro di Rohan, pittore della corte
angioina, e da numerosi altri artisti: segno dell’importanza del manoscritto e
del suo influsso sulla pittura del primo quarto del XV sec.
Très Riches Heures (Chantilly, Museo Condé).
Il manoscritto, certo il più illustre tra i manoscritti noti, è il capolavoro
dei fratelli Limbourg, che lo lasciarono incompiuto alla loro morte, nel 1416.
Alle qualità d’eleganza e di poesia del loro lavoro precedente si aggiunge qui
un notevole progresso nell’osservazione esatta e sensibile della realtà, in
particolare nel Calendario, che introduce nell’illustrazione miniata una novità
fondamentale: i primi paesaggi dal vero della pittura francese. Queste Heures
rappresentano infatti i lavori dei «mesi» non più entro medaglioni e in forma
convenzionale, ma in siti attentamente descritti, sviluppati in profondità,
dove, per la prima volta, si rivela l’interesse nel cogliere non tanto o non
solo dettagliate topografie paesaggistiche, ma invece la natura nei suoi aspetti
effimeri: i giochi istantanei dei riflessi e delle ombre, oppure particolarità
stagionali nei colori, nella luce e nell’atmosfera. Certo, i Limbourg
trascrivono ancora questa realtà, colta in modo nuovo, nel mondo ideale del
gotico internazionale, ove nobili e villani si confondono nella medesima
raffinatezza; tuttavia, le Très Riches Heures segnano il punto culminante dello
stile cortese e contengono i germi della sua fine, poiché la passione dei
Limbourg per lo spettacolo dettagliato del mondo preannuncia la visione nuova
dei grandi realisti fiamminghi. Alla illustrazione dei Mesi aveva
successivamente collaborato, cosi come riconosciuto da Bellosi, un pittore di
cultura eyckiana.
Lasciato comunque incompiuto, a metà, alla morte del duca nel 1416, il
manoscritto passò in eredità a Carlo I di Savoia, che lo fece terminare verso il
1485 da Jean Colombe, in un linguaggio del tutto diverso rispetto al modello, e
che l’eccesso d’oro, le lontananze azzurrine, gli effetti spettacolari di sole
rendono, in definitiva, meno reale di quello dei Limbourg. Esso appartenne poi a
Margherita d’Austria, che lo portò con sé nelle Fiandre, ove influì sulla
miniatura di Gand e di Bruges dell’inizio del XVI sec. Se ne persero in seguito
le tracce, fino al suo acquisto da parte del duca d’Aumale, che ne lasciò erede
l’Institut de France nel 1897, col Museo Condé di Chantilly.